domenica 17 dicembre 2017

DIO E IL PENSIERO


«L'uomo non si deve accontentare di un Dio pensato perché così, quando il pensiero ci abbandona, ci abbandona anche Dio» (Meister Eckhart).

La pensée fait la grandeur de l'homme”: non c'è bisogno di tradurre questo che è uno dei Pensieri del grande filosofo francese Pascal. Il suo contemporaneo e altrettanto celebre Cartesio aveva coniato quel «Cogito, ergo sum» che abbiamo imparato a scuola e che univa intimamente essere e pensiero umano. 

Ma molti secoli prima, nella lontana India, tra le sentenze buddhiste del “Dhammapada” si leggeva: «Tutto quello che siamo è il risultato di ciò che abbiamo pensato: è fondato sui nostri pensieri, è formato dai nostri pensieri». Lode, quindi, al pensiero umano, che si inoltra nei meandri dell'essere, dell'esistere e del mistero. C'è, tuttavia, un «ma» che proprio Pascal ha scritto subito dopo nei suoi Pensieri esaltando, come è noto, le «ragioni del cuore» e concludendo che «l'ultimo passo della ragione è riconoscere che ci sono infinite cose che la sorpassano».

A questo punto entra in scena la fede, una conoscenza che segue un altro percorso parallelo a quello dell'amore. E qui vale la considerazione sopra citata sul Dio solo «pensato» che faceva Meister Eckhart, un geniale mistico e teologo domenicano tedesco contemporaneo di Dante. Nei suoi scritti egli spesso procedeva quasi sulla lama di un coltello, inoltrandosi nel mistero divino o in quello dell'essere e del nulla, lungo territori labili di frontiera.


Un Dio che alberga solo nel ragionamento è insufficiente perché, se dovesse scricchiolare l'argomentazione razionale, anch'egli si dissolverebbe. Esemplare l'itinerario di Giobbe che a lungo s'interroga su Dio, ma alla fine è l'incontro a svelarlo: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42,5). 



sabato 9 dicembre 2017

INNAMORAMENTO E AMORE (IL LIBRO, 1979)


Per Francesco Alberoni l'innamoramento è un processo della stessa natura della conversione religiosa o politica. Noi ci innamoriamo quando siamo pronti a mutare, quando i tentativi di salvare le nostre relazioni amorose precedenti sono falliti. Allora avviene in noi un rapido processo di ristrutturazione chiamato «stato nascente». La precedente relazione va in pezzi e noi ricostruiamo il nostro mondo e il nostro futuro facendo perno sulla persona amata. Nello «stato nascente» l'individuo diventa capace di fondersi con un altra persona e creare una nuova collettività ad altissima solidarietà. Di qui la celebre definizione: l'«innamoramento è lo stato nascente di un movimento collettivo formato da due sole persone».

L'amore è sempre rivelazione sempre rischio. Per sapere se è veramente innamorato, il soggetto si sottopone a delle prove (prove di verità) e, per sapere se è ricambiato, sottopone la propria amata alle prove di reciprocità. Questo delicato processo può portare a equivoci e anche alla catastrofe dell'amore nascente.

Nell'innamoramento la persona amata viene trasfigurata perché ciascuno diventa il capo carismatico dell'altro. Il processo di fusione, però, è sempre bilanciato dal desiderio di affermare se stesso. Questo conflitto da al processo amoroso un carattere drammatico e passionale. Se i due innamorati non riescono a creare un progetto o quando perché i loro progetti individuali sono troppo diversi e incompatibili, il processo amoroso può naufragare. La “fenomenologia” dell'innamoramento è la stessa nei giovani e negli adulti, nei maschi e nelle femmine, negli omosessuali e negli eterosessuali perché la struttura dello «stato nascente» non cambia.

Noi tendiamo ad innamorarci quando siamo pronti a cambiare. Perché siamo mutati interiormente, perché è cambiato il mondo attorno a noi, perché non riusciamo più realizzare i nostri desideri o ad esprimere le nostre potenzialità. Allora cerchiamo qualcuno che ci indichi la strada e ci faccia assaporare un nuovo modo di essere. Possiamo perciò innamorarci a qualsiasi età, ma soprattutto nelle svolte della nostra vita. Quando passiamo delle scuole elementari alle medie, poi alle superiori, all’università, o quando cambiamo lavoro, o a quarant’anni quando inizia la maturità o a sessanta, o a settanta quando inizia la vecchiaia. Oppure quando la vecchia relazione si è consumata, o il mondo è cambiato e noi cerchiamo un nuovo accordo con esso.

Ci innamoriamo della persona che, nel particolarissimo periodo in cui siamo predisposti ad innamorarci, col suo comportamento, con i suoi sentimenti, con i suoi valori, con la vita che ha vissuto, con i suoi sogni, con il suo slancio, ci fa sentire che, uniti a lei, possiamo realizzare le nostre potenzialità, soddisfare i desideri maturati dentro di noi. Allora proviamo una attrazione irresistibile e il bisogno di fonderci spiritualmente e fisicamente con lei.

La cotta è quando noi, colpiti da alcune delle caratteristiche, abbiamo l’impressione di cogliere la figura intera ma non è vero. Fuor di metafora abbiamo l’impressione di aver trovato una persone meravigliosa, straordinaria, unica. Ma dopo un po’ di tempo, ci accorgiamo di aver sbagliato e riprendiamo la ricerca.

Due persone che si desiderano “sessualmente” hanno fame l’una dell’altra, fame dei loro corpi. E, facendo all’amore, si saziano. Poi si dimenticano abbandonandosi al sonno. Le persone “innamorate” invece hanno una «duplice fame». Fame dei loro “corpi” e fame della loro “anima”. Fanno all’amore, godono dei loro corpi ma vogliono anche fondere le proprie vite, le proprie esperienze, il proprio passato. E la loro fame non si sazia. Risvegliati dal sonno si desiderano nuovamente, lontani si cercano. Il sesso, placato il desiderio, cerca il distacco, l’amore la vicinanza. L’unico vero profondo regalo che potete fare a due innamorati è farli stare sempre insieme, perché possano cercarsi e ritrovarsi, e godersi infinite volte. Il sesso è un bacio isolato, l’amore una danza vorticosa, una giostra che li trascina.

La Fedeltà non è un dovere ma rende l’amore completo. Un tempo valeva la doppia morale, l'uomo pretendeva la «fedeltà» ma lui non era tenuto ad essere fedele. Oggi maschi e femmine sono sullo stesso piano. Molti credono che sentimenti come l'«esclusività, la fedeltà e la gelosia» appartengano al passato, rappresentino una debolezza di cui nel mondo moderno si deve fare a meno. Per cui, anche se ami e sei riamato, ogni tanto puoi fare sesso con un altro e non succede niente, il vostro amore, la vostra relazione non ne viene alterata. 

Ma non è vero. Quando non c'è un amore puoi fare come vuoi, ma se sei innamorato devi stare attento perché l'amore è come un’opera d'arte, come una sinfonia in cui non puoi mettere dentro degli altri suoni a casaccio senza deformarla e distruggerla. E' poi un errore considerare la «fedeltà» solo un dovere.

Nel grande amore essa non nasce dal “dovere” ma dal “piacere”. Nella passione amorosa la fedeltà viene desiderata perché rende l'amore completo. Chi si lascia tentare non potrà più ritrovare la totalità perduta perché una parte della sua anima sarà sempre lontana. E vorrei concludere dicendo che non è nemmeno vero che il “piacere” massimo si ottiene cambiando continuamente partner. E’ una vecchia concezione maschilista di cui oggi si sono convinte anche numerose donne. Ma è falsa. Per raggiungere la pienezza del “piacere” occorre tempo, devi conoscere a fondo la persona che ami, accettare di amarla senza paura, senza orgoglio, senza tabù, senza mentire e cercare l'intimità totale, il piacere totale, l'abbandono totale.

Con Fare l’amore indichiamo il rapporto fra un uomo e una donna che si amano in modo totale, esclusivo, un amore ad un tempo erotico e spirituale che cresce nel tempo. Un amore in cui i due fondono i loro corpi e le loro anime e creano una terza entità che non esisteva prima, la coppia innamorata, che crea un incantesimo, una bolla, in cui nessuno può entrare senza contaminarla e distruggerla. il grande amore erotico è, nella sua essenza, al contrario del fare sesso, esclusivamente personale e fedele. Vuole la «Fedeltà» e gode della «Fedeltà» perché questa lo concentra solo sull’amato di cui scopre l’infinita ricchezza e l’infinita bellezza e un piacere sessuale sempre nuovo, in una stupefacente continua rivelazione.

Fare sesso, invece, può essere un atto volontario senza nessun coinvolgimento emotivo, senza bisogno di conoscere la vita dell’altro, senza partecipare delle sue emozioni, dei suoi sogni. Un uomo guarda una donna, una donna guarda un uomo, si piacciono fisicamente, vanno a cena insieme e poi, dopo qualche tempo, si rotolano nudi nel letto, si baciano, si penetrano, sembra che non possano più fare a meno l’uno dell’altra, gridano di piacere, poi si addormentano beati.

L'amore è il risvolto emozionale interiore della nascita di una nuova collettività e di un nuovo me stesso. E la persona amata è il perno, l'asse attorno a cui avviene questa ricostruzione. È l'esperienza del fondermi con lei formando una nuova entità che mi riplasma, mi ricrea e ricrea il mondo in cui vivo. È l'esperienza di scoprirmi parte di un nuovo mondo, di un nuovo cielo ed una nuova terra. E la persona amata è la porta per accedere a tutto questo.

L'amore come emozione d'amore, come slancio, languore, desiderio, spasimo, sogno, è quindi l'energia creativa nel suo manifestarsi. Dell'energia creativa che, attraversandomi, mi usa come sostanza per edificare un nuovo mondo e un nuovo me stesso. Noi perciò amiamo ciò che ci sta creando e che stiamo creando. Di cui siamo ad un tempo figli e genitori. Questo nell'innamoramento.

L'amore è perciò sempre brivido dell'assoluto nel contingente, qualcosa di misterioso, meraviglioso e divino. E, quando è ricambiato, è dono, grazia che chiede lode e riconoscenza.

Il libro, in contrasto con le vedute della “psicoanalisi”, non considera l'innamoramento una regressione. Anzi lo fa nascere dallo slancio verso il «futuro», verso il «cambiamento» e lo considera fondamentale per la formazione della coppia amorosa. Scritto con un linguaggio rigoroso ma poetico, è un opera fondamentale per gli studiosi ed una lettura cara agli innamorati. 



sabato 2 dicembre 2017

VERI E FALSI AMICI


«I veri amici vedono i tuoi errori e ti avvertono. I falsi amici vedono i tuoi errori e li fanno notare agli altri». 
È un'amara esperienza che un po' tutti nella vita abbiamo provato ma che, purtroppo, talvolta anche noi abbiamo praticato nei confronti degli amici. Lo scrittore americano Mark Twain, nel romanzo Seguendo l'Equatore (1897), proponeva un'altra possibilità, ugualmente aspra: «Ci vogliono il tuo nemico e il tuo amico insieme per colpirti al cuore: il primo per calunniarti, il secondo per venirtelo a dire». S'intrecciano tanti elementi nel rapporto di amicizia: la sincerità ma anche la delicatezza, la verità ma anche l'affetto, la confidenza ma anche il rispetto
È per questo che è facile avere compagni, sodali (di studi, di collegio, di attività ecc.), confratelli, alleati, simpatizzanti, sostenitori, ma è difficile avere amici nel senso pieno del termine. E, quando si ha la fortuna di incontrare una simile presenza nella vita, è necessario coltivarla, curarla, tutelarla perché - come tutte le realtà autentiche - essa è delicata e può incrinarsi, ferirsi e dissolversi. 
Non per nulla è già la Bibbia a ricordarci che avere un amico è come possedere un tesoro: «Per un amico fedele non c'è prezzo, non c'è peso per il suo valore» (Siracide 6, 15). L'amicizia è, infatti, un prezioso tessuto di familiarità, affinità, intimità, affiatamento, affetto, simpatia, stima, benevolenza, pace, confidenza. 

sabato 25 novembre 2017

VOLONTÀ


«Volere il meno possibile e conoscere il più possibile è la massima che deve guidare la nostra vita. La Volontà è infatti l'elemento assolutamente infimo e spregevole in noi: bisogna nasconderlo come si nascondono i genitali, benché siano entrambi alla radice del nostro essere».

Comincia così il "libro segreto" che il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (1788-1860) custodiva gelosamente come un vademecum strettamente personale e che è stato tradotto in italiano col titolo "L'arte di conoscere se stessi" (Adelphi). In verità sono tante le pagine che meriterebbero una lettura e che ci aiuterebbero a penetrare nel segreto intimo della vita ma anche a stabilire un dialogo col mondo che ci avvolge, non senza una punta di realismo e persino di pessimismo, per altro congenito in questo pensatore. Non vogliamo entrare nel merito specifico della frase citata che si connette a un pensiero più generale di Schopenhauer. 
Ciò che ci preme è sottolineare più semplicemente che l'esaltazione eccessiva della volontà può essere pericolosa. Essa tante volte procede senza che si sia approfondita la «conoscenza», creando così guasti irreparabili. Quante persone vogliono senza sapere, rivelandosi in tal modo stupidi oltre che avventati e prepotenti. Anzi, in molti casi reagiscono con veemenza perché il loro volere è frustrato; eppure dovrebbe essere ovvio che «non può tutto la virtù che vuole», come diceva Dante (Purgatorio XXI, 105). 
Per questo il filosofo, che pure riconosce essere la volontà «alla radice del nostro essere», ci invita a quella dote così scarsamente diffusa ai nostri giorni, cioè al «pudore». «Pudore», certo, nella sfera sessuale, ma anche pudore e continenza nell'esercizio sfrenato, arrogante, spregiudicato della volontà. E, al contrario, rivolgersi a una pratica più assidua e rigorosa della «riflessione» e della «conoscenza».

sabato 18 novembre 2017

CHE COS'È LA VERITÀ?


«La verità è simile a Dio: non appare immediatamente, bisogna che la intuiamo attraverso le sue manifestazioni».

«Che cos'è la verità?» disse Pilato per scherzo e non aspettò la risposta. Così, nei suoi Saggi, il famoso pensatore inglese Francesco Bacone ironizzava sulla figura del Pilato descritto dal Vangelo di Giovanni. Sta di fatto, però, che anche se disattesa e sbeffeggiata, la sua rimane una domanda che continua a serpeggiare nell'umanità. Molti appunto l'accantonano, altri le riservano risposte sbrigative, altri sono scettici sulla possibilità di una risposta. Noi oggi mettiamo sulla ribalta quelli, coloro che desiderano scoprire il volto autentico della verità. E a costoro il grande poeta tedesco Goethe indica una via nel testo citato: come Dio si svela mediante i suoi segni ed epifanie, così accade per la verità.

Ci vogliono, quindi, occhi limpidi e vigili, capaci di identificare le tracce che il vero dissemina nell'essere e nell'esistere, nello spazio e nella storia. Bisogna, tuttavia, essere molto sorvegliati e attenti nel procedere in questo itinerario di ricerca. Aristotele, nel suo trattato sul Cielo, giustamente osservava che «la più piccola iniziale deviazione dalla verità si moltiplica, man mano che si avanza, mille volte tanto» e così ci si allontana sempre più da essa. Un po' come avveniva nel campo descritto dalla parabola di Gesù, ove grano e zizzania crescevano insieme, così accade anche nella storia umana, ove non sempre è facile distinguere tra i frutti buoni della verità e quelli avvelenati della falsità. D'Annunzio diceva che «il falso e il vero son le foglie alterne d'un ramoscello», ed è necessaria molta cura per discernerle. È per questo che nel Vangelo di Giovanni lo Spirito Santo è detto «Spirito di verità» che svela la profonda e inconcussa incontrovertibile verità che libera e salva. 

sabato 11 novembre 2017

IGNORANZA


«La nostra conoscenza può essere solo finita, mentre la nostra ignoranza deve necessariamente essere infinita».

A dire queste parole non è un predicatore in vena di moralismo, ma uno dei grandi filosofi della scienza del secolo scorso, il viennese Karl Popper, nato nel 1902 e morto a Londra nel 1994. Espressioni analoghe erano state dette o scritte da scienziati del livello di Einstein, Heisenberg e Planck. L'orizzonte della nostra conoscenza, pur esaltante, quanto più s'allarga tanto più vede l'immensità dell'ignoto che gli si schiude innanzi. Questa "ignoranza" è nobile e Montaigne, il celebre pensatore del Cinquecento, nei suoi Saggi la puntualizzava così: «L'ignoranza che si conosce e giudica non è vera ignoranza. Lo è solo quando ignora se stessa». L'ignorante saccente è il vero ignorante e il suo è «un male invincibile», come lo definiva Sofocle in uno dei frammenti a lui attribuiti.

Purtroppo ai nostri giorni la superficialità è una divisa indossata con orgoglio, l'arroganza dell'insipiente è rispettata e considerata segno di decisionismo e persino di acutezza. Essa conduce non solo all'approssimazione e all'impreparazione, ma anche alla rozzezza, all'inciviltà, alla cafonaggine, come si è soliti dire (e chi lo è – rozzo, incivile, cafone –, non s'imbarazza certo di essere così classificato). Finisco come ho iniziato. Leggete le righe che ora cito. Non sono neanch'esse di un predicatore, né di un pessimista della ragione. È nientemeno che Voltaire il quale nella sua Vita di Federico II scriveva, fin esagerando: «Non sappiamo nulla di noi stessi e ci muoviamo, viviamo, sentiamo e pensiamo senza sapere come. Gli elementi della materia ci sono sconosciuti. Siamo ciechi che procedono e ragionano a tentoni». 

sabato 4 novembre 2017

CONOSCENZA


Esiste un solo bene, la «conoscenza», e un solo male, l'«ignoranza». La conoscenza conduce all"unità, come l'ignoranza conduce alla diversità. Due aforismi, oggi, per un unico tema, la «conoscenza». Partiamo dalla prima frase: «Esiste un solo bene, la conoscenza» è la voce di Socrate così come ce la tramanda lo scrittore greco del III sec. a.C. Diogene Laerzio nelle sue Vite dei filosofi. Bisogna, però, intenderci: il "conoscere" a cui rimanda Socrate non è un semplice sapere ma è la «sapienza», il «riflettere», il «giudicare». E non c"è bisogno di dire quanto questa «realtà»  sia carente ai nostri giorni nei quali impera la superficialità, la battuta, l"imbonimento televisivo. 
È su questa considerazione di base che possiamo appoggiare la seconda citazione, desunta dall"Insegnamento di un personaggio della spiritualità indiana, Shri Ramakrishna (1836-1886), attento anche alla religiosità cristiana e musulmana, con qualche rischio di sincretismo: «Esiste un solo male, l'ignoranza». Egli, comunque, ha ragione: la violenza del fondamentalismo si nutre di ignoranza, come lo è la reazione becera di certi europei all'altro, al diverso, allo straniero. L'ignoranza crea paure anche dove c'è normalità; isola, condanna tutto ciò che è esterno al proprio perimetro. La «conoscenza» autentica, invece, scopre i valori comuni e riesce a far convivere in armonia le differenze, come accade in un contrappunto musicale. Perciò, bisogna istruire gli altri e istruire noi stessi, non con un'informazione banale ma con una formazione seria. 
E questa sarà non l'unica ma una sicura via di pace. 

domenica 29 ottobre 2017

PLOTINO: IL DESTINO DELL’ANIMA E LE VIE DEL RITORNO


Come per Platone e Aristotele, anche per Plotino l’«Uno» non ama il mondo, ma è amato dal mondo; sono quindi assenti le condizioni per le quali l’«Uno» voglia salvare il mondo direttamente o mediante un salvatore come nel cristianesimo. L’«Uno» dona ogni bene all’altro da sé con la stessa necessità con cui la luce diffonde la sua luminosità su tutte le cose. Sono invece il mondo e l’uomo nel mondo ad essere attratti dall’«Uno» e a volgersi all’«Uno» spogliandosi della propria mondanità e umanità. Non è quindi al cristianesimo, ma all’insegnamento delle “Upanisad”, in cui si esprime la sapienza d’Oriente, che si rifà l’ascesi di Plotino come itinerario dell’anima per il ricongiungimento con l’«Uno». 

In questo itinerario, che è tanto un’ascesi quanto un’ascesa, l’anima si risveglia dal sogno che l’aveva portata nel mondo. In ciò è la sua resurrezione che, precisa Plotino contro il cristianesimo, è «dal corpo e non col corpo», perché risorgere col corpo equivale a cadere da un sogno all’altro. 

Le vie del ritorno sono tracciate dalla «bellezza», dall’«amore» e dall’«estasi». La “bellezza” consente di passare dall’immagine sensibile all’idea universale di cui l’immagine è rivelazione. Non chiudendosi in se stessa, ma rinviando ad altro, l’immagine è quel mezzo (metaxú) che consente all’anima di risalire o di ritornare all’«Uno» da cui è discesa. Il ritorno all’«Uno», infatti, è percorribile solo mediante un ritorno a se stessi. Le tappe del ritorno a Dio sono dunque le tappe della progressiva interiorizzazione dell’Uomo. Lo stesso dicasi dell’ “amore” che è passione che deriva dall’atto della visione: “éros” da   “órasis” (Enneadi, III, 5, 3). 

Se l’ “amore” considera la bella apparenza non come espressione di sé, ma come rinvio ad altro da sé, allora è iniziazione dello spirito e via all’intelligibile. Se l’ “amore” è per sua natura irrequietezza e perenne insoddisfazione, come voleva il mito platonico di “Eros” figlio di Povertà e di Acquisto, ciò vuol dire che anche nelle sue forme inferiori è condizionato dall’oscura presenza dell’«Uno» che lo incalza oltre ogni limite. Ma se la “bellezza” e l’ “amore” avvicinano all’«Uno», solo l’ “estasi”, il distacco da sé (ék-stasis) concede quell’intimo contatto (prosbolé) che è unione assoluta con l’unità originaria. 

Qui l’anima si spoglia della sua autocoscienza individuale, come da un’amara eredità di cui è bello essere liberati, e si “perde” nell’«Uno». Separandosi (ék-stasis) dal sensibile, dal razionale e dall’individualità personale, l’ “anima” ripercorre a ritroso i gradi dell’emanazione, rigettando ogni forma di molteplicità (áfele pánta) per ritirarsi nell’«Uno». Siccome poi l’«Uno» non è oggetto, l’ “anima” può congiungervisi solo ritrovandolo in se stessa, o, come dice Plotino, nel suo centro profondo (Kéntron tés psychés): «Essere solo in se stessa e non nell’essere, vuol dire essere in Dio» (Enneadi, VI, 9, 11). 

Plotino rappresenta la vetta speculativa più elevata di un vasto movimento di pensiero che, ispirandosi a Platone – donde il nome di “neoplatonismo” – tenta di comporre in modi più o meno originali la “ricerca filosofica” con la “tradizione religiosa”. E così, mentre nella Grecia antica la “ricerca filosofica” era nata come volontà di liberazione dalle tradizioni, dai costumi e dalle opinioni stabilite, con la prevalenza dell’interesse religioso, che si registra nell’età illuministica, la “tradizione” riprende i suoi diritti affermandosi come garanzia di una verità che non è più il prodotto di una ricerca, ma il frutto di una rivelazione originaria. 

Nota finale 

Il neoplatonismo, di cui Plotino fu il più significativo rappresentante, rientra nel vasto movimento sincretistico dell’epoca (III-V sec. d.C.); utilizzando il complesso delle idee platoniche, il nuovo sistema filosofico fuse con originalità elementi delle varie correnti di pensiero, non rimanendo insensibile alle istanze mistiche e gnostiche dell’Oriente.  

              

domenica 15 ottobre 2017

PLOTINO E LE TRE IPÓSTASI


Il pensiero conosce solo in quanto definisce, distingue e discrimina, cioè solo in quanto si articola in seno alle distinzioni logiche e alla molteplicità. Ma nel pensiero si avverte una tensione che trascende ogni oggetto finito e ogni sistemazione raggiunta. Questa tensione porta al di là delle distinzioni inaugurate dal pensiero verso quell’«Uno in sé» che, non potendo essere raggiunto da alcuna conoscenza e da alcun linguaggio, perché questi hanno sempre come contenuto la distinzione che è separazione, è inconoscibile e inafferrabile (ágnoston kaì árreton). 

La speculazione di Plotino non prevede soltanto, come il dialogo platonico, la presenza di un “lógos” razionale e definibile, ma anche e soprattutto una totalità inesprimibile che condiziona gli atti intellettivi e ne è insieme la conclusione e il fine. A differenza del misticismo di provenienza orientale, che aveva percorso alcuni dei molteplici filoni gnostici, il misticismo di Plotino non è solo il culmine della sua filosofia, ma ne è la condizione vitale; l’«essere» nel suo fondo è mistero, ma non si arriva a “ri-conoscere” il mistero se prima non si “conosce” il senso dell’«essere». 

Il pensiero (Nous) che pensa l’«Uno» si pone fuori di esso, perché già vive l’ “alterità” di pensante e pensato. Il pensiero è l’«ipostasi» generata dalla sovrabbondanza dell’«Uno». «Ipostasi» è parola greca che significa «ciò che sta sotto», e il pensiero è appunto ciò che sta sotto la molteplicità delle idee che, nel loro insieme, costituiscono il “mondo noetico” che vive dell’ “alterità” tra pensante (Nous) e pensato (Einai).

ll Dio che Aristotele concepiva come pensiero del pensiero (nóesis noéseos) viene così da Plotino depotenziato a seconda ipostasi, dopo quella originaria dell’«Uno in sé» che non ospita distinzioni. Dal pensiero procede l’anima (psyché) che non rende ragione né dell’unità né dell’intelligibilità, ma della vita e del movimento. Essa quindi non è né l’«Uno» né il «Nous», ma quell’intermedio (metaxú) tra l’«essere» e la realtà sensibile che da lui procede. L’anima, infatti, è l’ultima delle ipostasi; dopo di lei non c’è che apparenza e «non-essere». 

La doppia concezione che Platone ha dell’anima come capacità di astrarre dal sensibile per cogliere le idee nella loro essenza (Fedone e Repubblica), e come principio psichico che genera vita (Fedro e Simposio) trova il suo sviluppo nella speculazione di Plotino dove l’anima, in quanto dipende dal Nous e ne partecipa, è soggetto di conoscenza e, come tale, si inserisce nel mondo noetico che è fuori del tempo, mentre, in quanto è per sua natura principio di vita, diventa condizione del processo generativo che si svolge nel tempo. 

Il mondo sensibile è opera dell’anima che, come un inconscio artefice, molto simile al demiurgo di Platone, mentre contempla essenze intelligibili plasma parvenze corporee. Essa è natura (phýsis), e poiché la sua potenza produttiva si esplica in una successione di atti e movimenti, il tempo sorge insieme con essa. Non c’è quindi tempo nell’«Uno» originario e nel Nous che presiede il mondo delle idee eterne. 

Al limite estremo dell’emanazione divina incontriamo la materia che non è un’ipostasi, una realtà sostanziale, ma è quel «non-essere», quella mancanza di realtà simile alla tenebra che si produce per mancanza di luce. Se l’«Uno» è ineffabile perché è al di là di ogni definizione e distinzione, la materia è indefinibile per difetto di determinazioni. Essa è «pura aspirazione all’esistenza» che acquista spessore solo perché l’anima, per la sua parte inferiore, è cieca tensione verso l’esteriorità, è desiderio di perdersi nel mondo. In questa tensione e in questo desiderio è il male che, al pari della materia che lo ospita, non esiste come realtà opposta al bene, ma solo come privazione del bene. E l’uomo come non può pensare il «non-essere» assoluto, così non può volere il male assoluto (Ennedi, IV, 9, 11). 


    

sabato 7 ottobre 2017

LA FILOSOFIA DI PLOTINO (PREMESSA)


La filosofia di Plotino, che rappresenta l’ultima grande sintesi del pensiero greco, ha in comune con la gnosi uno sfondo di consonanze con la saggezza d’Oriente, ma, a differenza del pensiero gnostico, la «convergenza» si esprime in Plotino come «traduzione» della sapienza orientale nelle categorie tipiche del pensiero greco. 

L’espansione dell’impero aveva convogliato a Roma, dove Plotino insegnava nella prima metà del III secolo d.C., una serie di credenze astrologiche, di pratiche teurgiche e di appelli a esperienze mistiche che Plotino accolse ricodificandole in una costruzione filosofica in grado di giustificare razionalmente il valore di un atto surrezionale (nel diritto canonico, reticenza nella esposizione dei fatti commessa nella richiesta di un rescritto, di un  responso scritto dell’autorità ecclesiastica relativo alla concessione di una grazia o alla soluzione di una controversia) che consentisse di approdare all’ineffabilità dell’«Uno» originario. 

Questo itinerario, che è identico a quello che animava la speculazione gnostica, viene purificato da quella profusione di immagini e da quella foresta di simboli attraverso cui la gnosi si era espressa, e ancorato alla dottrina del Bene-Uno che Platone aveva tratteggiato nel “Parmenide”. Di qui la denominazione di “Neoplatonismo” che risponde da un lato all’intenzione di Plotino che si propone come semplice esegeta della filosofia di Platone (Ennedi, I, 8), dall’altro al significato teoretico e storico che la sua filosofia andrà assumendo come riproposta del primato del pensiero greco, o più semplicemente platonico, rispetto alle altre forme di fede e di speculazione. 

L’esigenza dell’unità originaria era stata promossa nel pensiero greco dalla speculazione di Parmenide e dalla dottrina pitagorica della “monade”. Con Platone il problema dell’«Uno» viene fatto reagire con l’esperienza del «molteplice» le cui espressioni che vanno dalle «idee» come fondamento dell’intelligibilità delle cose, alle «anime» come principio della vita e del movimento, alla «materia» come matrice irrazionale delle apparenze, offrono a Plotino le strutture del suo impianto metafisico che trova la sua interna connessione nella dottrina dell’«emanazione» (apórroia) che salva l’unità e la continuità delle distinzioni. 

Per Platone e Aristotele, Dio e la materia erano infatti due principi originari, non connessi tra loro da alcun principio creazionistico. Ciò determinava da un lato che, se la materia è indipendente da Dio, Dio “manca” di qualcosa, e, in quanto mancanza, non può essere, per usare i termini aristotelici, «atto puro», ma «essere in potenza» rispetto alla materia che gode di una sua entità e indipendenza. Per risolvere questa contraddizione Plotino introduce il concetto di “emanazione”, per cui la materia «procede» da Dio non per un “atto creativo”, ma per un atto che potremmo definire “diffusivo”. La «creazione», infatti, implica una “produzione dal nulla”, e per Plotino, così come per l’intera mentalità greca, dal nulla non viene nulla ( ex nihilo nihil fit).  

La processione della materia da Dio avverrà allora per “emanazione” simile alla luce che si espande intorno alla fonte luminosa, al calore che si diffonde intorno al corpo caldo, al profumo che si diparte dal corpo odoroso affievolendosi col progressivo distanziarsi. La materia è l’estremo limite del propagarsi della luce che emana dall’«Uno» originario e che “non può non emanare”, essendo la luce di per sé diffusiva. In tal modo l’instaurarsi delle differenze non contraddice l’esigenza dell’unità e quindi la continuità (sunécheia) del reale.   


sabato 23 settembre 2017

EPICURO E L’ETICA


L’origine della vita e dell’uomo non sfugge al “meccanicismo” che regge le vicende del tutto. Mai è esistita un età dell’oro, ma l’umanità, a fatica, in un lungo arco di tempo si è evoluta. L’uomo ha appreso per “esperienza” ed “imitazione”, ed è giunto così all’attuale grado di civiltà. Tuttavia, è sbagliato ritenere che questo stato sia duraturo: la sparizione del mondo vanificherà gli sforzi degli uomini e con essi tutti i benefici che il progresso ha apportato. (D’altra parte, tali benefici non sono di per sé sufficienti a dare la felicità). Nella natura quindi non esiste nessun finalismo, né tanto meno gli dei si occupano delle vicende degli uomini. 

La fisica, la cosmologia, la teoria della conoscenza per Epicuro intanto hanno senso in quanto tramite esse l’uomo guadagna cognizione di sé e del suo posto nel mondo. L’uomo, una volta liberato dalla paura degli dei, dalla superstizione e dalla morte, può vivere con pienezza la sua vita terrena ed attingere in questo mondo una felicità proporzionata alla sua natura. Diogene Laerzio nella triplice partizione della dottrina epicurea, assegnando un posto all’«Etica» ne trasmette questa definizione: «L’etica, la disciplina di ciò che è da eleggersi e da fuggirsi, dei generi di vita e del fine». Domenico Pesce commenta questo passo dicendo che «sono così indicati i tre argomenti fondamentali che costituiscono in certo qual modo la struttura formale della filosofia etica di Epicuro ed in generale di quella ellenistica». 

Il “sommo bene” era stato un tema fondamentale della filosofia classica, specie dalla sofistica di Aristotele. Per altro verso, la dottrina del “sommo bene” era una cosa sola con quella del “fine ultimo”. Cicerone nel “De finibus” afferma che per “fine ultimo” si deve intendere ciò a cui ogni altra cosa si riferisce e che in se stesso non si riferisce ad altro. In questa definizione riecheggia pienamente Aristotele. D’altra parte secondo Cicerone tutti i filosofi si trovano d’accordo su questa definizione. Essa enuncia la struttura formale del “fine ultimo”, ma quel che si tratta di definire è il volto determinato e materiale di questo bene capace di sussistere in se stesso. 

La risposta di Epicuro a questo interrogativo volto a cogliere l’aspetto determinato del bene ultimo è la seguente: «Ogni essere vivente, appena nato, cerca il piacere e ne gode come del “sommo bene”, rifugge dal dolore il più possibile come dal sommo male; questo esso fa quando non ha ancora subìto nessuna depravazione, seguendo la sola natura come guida genuina. E tale comportamento non richiede ragionamento o dimostrazione: piacere e dolore sono stati di fatto, come la sensazione che il fuoco scalda e la neve è bianca o il miele è dolce» (Cic., De finibus, I, 9,30). 

L’oggettività del bene consiste nel cercare il "piacere" e nel fuggire il "dolore"; tuttavia un tale statuto è ancora troppo formale per poter connotare effettivamente lo stato di felicità o di pienezza. D’altra parte, nell’uomo la possibilità di godere e di soffrire è abbastanza variabile e ampia, e non consente facilmente di definire dove stanno il più e il meno, il massimo e il minimo. Per accedere ad una più esatta determinazione del “sommo bene”, Epicuro si appropria della nozione socratica di «salute» come stato durevole di benessere e quindi fa coincidere il bene «con una condizione oggettiva di equilibrio esperita come valore per l’assenza completa di ogni malessere o dolore».



Su questa base il bene più alto consiste propriamente in un piacere inalienabile. Tuttavia, per Epicuro, tale piacere, non può identificarsi con un bene ultrasensibile. D’altra parte, tutti i beni umani sono deperibili. Ne segue che il “sommo bene”, per l’uomo, può essere esperito solamente come “assenza di dolore”. Nella IIIMassima Capitale” Epicuro dice: «Il limite di grandezza dei piaceri è la detrazione di ogni dolore. E dovunque è piacere, e per tutto il tempo che persiste, non c’è né dolore fisico, né spirituale né ambedue». 

Piacere e dolore, come ogni altra realtà, hanno per gli epicurei origine fisica. L’origine del piacere è data dal movimento degli atomi: infatti, Lucrezio nel II libro del “De rerum natura” dice che quando gli elementi mossi «tornano al loro posto, si prova un “dolce piacere” (blanda voluptas)». Questa teoria del piacere, che in senso lato si può definire edonismo, è incentrata sul moto e fa capo propriamente ad Aristippo. Per Epicuro il piacere è anche questo, ma quello vero non consiste affatto in questo: infatti, il piacere per lui non risiede nell’eccitazione, bensì nella quiete o nell’assenza di movimento. Tale piacere è detto “catastematico”, dalla parola greca “Katastematikós” che significa appunto “calmo, posato, stabile” e si collega al verbo greco “kathístemi” che ha molti significati, di cui però almeno due sono importanti: “pervengo, giungo”. Tali verbi nella forma del perfetto prendono il significato di “son divenuto, arrivato”. 

Si ha piacere poiché si attinge il compimento: infatti proprio nel compimento risiede il piacere. Il piacere consiste allora nella quiete: l’assenza di dolore è assenza di movimento. Se così è, la pienezza del piacere si attinge nella caduta del desiderio. Questo stato di quiete si riflette nell’anima come mancanza di turbamento, come stato di “atarassía” che, nella lingua greca, vuol dire “calma, imperturbabilità”. 

La dottrina epicurea del piacere è diversa dalla dottrina aristotelica del «giusto mezzo»: non si tratta, infatti, di trovare un punto di equilibrio tra opposte tendenze, bensì di attenuare le tendenze medesime. Nell’etica aristotelica prevale il "dinamismo", in quella epicurea la "stasi". In questa luce, si può capire perché per Epicuro la felicità risiede più nella vecchiaia che non nella giovinezza. Il vecchio, infatti, non desidera più, ed ha una felicità compiuta poiché è definitivamente scampato al rischio della perdita. Così si legge nell’ “Esortazione 17”: «Non il giovane è felice, ma il vecchio che ha vissuto una vita bella; perché il giovane nel fiore dell’età è mutevole ludibrio della sorte; il vecchio invece giunse alla vecchiezza come a tranquillo porto, e di tutti i beni che prima aveva con dubbio sperato ora ha sicuro possesso nella tranquilla gioia del ricordo». 

Dunque, nella gioia del ricordo l’uomo raggiunge la felicità compiuta e questo è possibile, secondo Epicuro, nell’età senile quando, assopiti i desideri, si approda a tranquillo porto.  

L’ultimo timore da cui l’uomo si deve liberare è quello della morte. Falso timore questo: infatti la morte non è un male. La dimostrazione di quest’assunto prende avvio, ancora una volta, dalla “sensazione”. Nell’ “Epistola a Meneceo”, Epicuro scrive: «Abituati a pensare che nulla è per noi la morte, poiché ogni bene e ogni male è nella “sensazione”, e la morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza che nulla è per noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita; non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell’immortalità. Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c’è nel non vivere più. Perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché quando c’è sia dolorosa ma perché addolora l’attenderla; ciò che infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso». 

Date queste premesse è facile per Epicuro concludere in questi termini: «Il più terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più». Liberato dalla paura degli dei e dal timore della morte, sciolto, attraverso una perfetta ascesi, dall’impeto dei desideri, l’uomo può vivere quanto meno limitando il dolore. In tal modo può anche ottenere quella misura di felicità che gli è consentita in relazione alla sua natura. 

L’epicureismo ebbe un ampio sviluppo e godette di largo credito per molto tempo. Tuttavia i discepoli di Epicuro non apportarono alcun contributo alle dottrine del maestro, limitandosi a seguire fedelmente gli insegnamenti proposti. Questa fedeltà dottrinale, immune quindi da scismi e da sviluppi, unita alla costante venerazione della figura di Epicuro, garantì lunga vita alla scuola medesima (sino al IV sec. d.C.). Penetrato nel mondo romano, l’epicureismo ebbe con Lucrezio grandiosa celebrazione.