“Epistéme” è una parola che viene resa in latino come “scientia” e in italiano con «scienza».
Ma così tradotta la parola perde il suo significato originario che è poi lo
stesso di quello indicato dalla parola “Cosmo”.
“Epi-stéme”, infatti, è composta dal
verbo “istemi” che vuol dire «sto» e
da “epi” che vuol dire «sopra». “Epistéme” vuol dire allora «ciò che sta
sopra», ciò che si impone da sé, e che quindi non ha bisogno di appoggiarsi
all’autorità di chi parla, come accade nel linguaggio mitico-religioso, né alla
forza persuasiva del dire retorico che, con la seduzione, riscuote consensi.
Emancipandosi dal discorso
mitico, religioso e retorico, la “Filosofia”,
inaugurandosi come “Epistéme”, si
offre come quel dire che poggia esclusivamente su di sé. “Cosmo, Lógos, Epistéme” appaiono a questo punto come sinonimi che
dicono l’imporsi di ciò che si mostra così come si mostra, e la “Filosofia” come cura di ciò che nella
luce si mostra, è cura della «Verità».
La parola «Verità» in greco è resa da
“Alétheia”, una parola composta da un
“a” privativo e dal verbo “lantháno” che significa «restar
nascosto», da cui anche in italiano «latente», «latitante». “Alétheia” vuol dire allora il
non-nascosto, quindi ciò che si mostra e, proprio perché si mostra, si impone.
Ma a mostrarsi non è solo la «Verità», ma anche l’«apparenza» (Dóxa). La parola deriva dal verbo “dokéo” che significa «sembrare», e anche
la «sembianza» è qualcosa che appare, che si espone, che si offre alla vista,
che si dà. La “Filosofia” greca nasce
separando la «Verità» dalla «sembianza»;
nell’apertura dischiusa dalla luce, la prima operazione filosofica è in questa «separazione»
tra le varie forme dell’«apparire»; ma qual è il criterio? In che modo è
possibile discernere?
Originariamente
“Dóxa” significava «gloria», «fama»,
«splendore» e si riferiva all’ammirazione che l’eroe o il sapiente acquistavano
mettendosi in luce. Siccome la fama dipende dall’«opinione» che altri si fanno
di qualcuno per come «appare», “Dóxa”
finì per significare tanto l’«apparenza» quanto l’«opinione» che
quell’«apparenza» generava. Ma l’«opinione», pur fondandosi sull’«apparire», è
mutevole; trattandosi di una congettura può essere tanto vera quanto falsa. Al
pari della «Verità» si impone, ma il
suo imporsi può essere tolto.
L’«apparenza»
inganna non perché è qualcosa che «appare», ma perché pretende col suo
«apparire» di precludere ogni altro «apparire» e, con questa preclusione, di
imporre se stessa come unica «Verità».
E come il “Mito” differisce dal “Logos” non per il contenuto, ma per la
manipolazione poetica con cui espone ciò che si manifesta, così la “Dóxa” differisce dalla «Verità» non perché manifesta qualcosa,
ma perché alla base di questa manifestazione c’è solo l’«opinione» che uno s’è
fatto sulle cose, in nulla dissimile dall’«opinione» che, nel contesto mitico,
il poeta si fa del mondo.
La “Dóxa”, allora, non è quel sapere
che sta in sé (Epistéme), che ha in
sé il proprio fondamento, perché si fonda sull’«opinione» (Dóxa) che uno privatamente s’è fatto delle cose. In questo senso
Eraclito potrà dire: «Le opinioni umane sono giochi da ragazzi» (frammenti, 70) e può paragonare coloro che si fondano su «opinioni»
private ai “sordi” «Che non sanno né parlare, né ascoltare» (frammenti, 19) o ai “dormienti”, perché mentre «I desti hanno un unico
mondo comune, nel sonno ognuno si apparta in un mondo privato» (frammenti, 89). La stessa metafora la ritroviamo in Platone là dove
distingue i “filosofi”, «amanti del farsi spettacolo della verità», dai “filodóxoi, «amanti degli spettacoli». Dei primi afferma con
convinzione che «sono in condizioni di veglia», dei secondi che «vivono in un sogno». Di qui Platone trae la
conclusione che «Se qualcosa essi
conoscono, non ne avremo certo invidia» (Repubblica,
476 a-d).
Interessante. Grazie. :-)
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