giovedì 22 novembre 2018

SOFONIA



Di poco più anziano di Geremia, il profeta Sofonia (“il Signore protegge”) visse sotto il regno di Giosia e all’epoca della riforma religiosa compiuta da quel re, attorno al 622 a.C. (2Re 22). La sua predicazione si muove sostanzialmente lungo due traiettorie: il giudizio inesorabile sui peccatori di Giuda e la speranza per gli “anawim”, i «poveri» del Signore, che verranno da lui salvati e difesi.

Una prima parte (1,2-2,3) raccoglie oracoli molto severi di giudizio, che rimandano ripetutamente al «giorno di JHWH», cioè al suo intervento all’interno del groviglio di ingiustizie presente nella storia (si ricordi che il tema del «giorno di JHWH» era stato annunziato per la prima volta dal profeta Amos nell’VIII secolo a.C.). La tradizione cristiana medievale si è ispirata proprio a questa pagina di Sofonia per creare il celebre canto del “Dies irae”. 

Una seconda parte (2,4-3,8) raccoglie, invece, oracoli contro le nazioni che vengono giudicate da Dio: sfilano i Filistei, Moab, Ammon, l’Etiopia, l’Assiria e, infine, Gerusalemme, «città ribelle» e prepotente. Ma ecco, all’improvviso, nella terza parte (3,9-20) la grande svolta: l’orizzonte si illumina e il “resto” fedele a Dio e le stesse nazioni giuste vedono aprirsi una nuova era di gioia e di pace. Si cita probabilmente un canto di Sion (3,14-18), in cui si esalta l’ingresso del Signore nel cuore della città santa come cittadino e come salvatore. Sarà una presenza che irradierà su tutto Israele e sull’intera umanità speranza, gioia e salvezza.

Giudizio e salvezza, terrore e felicità si accostano in questo libretto che rivela la ripresa di temi già noti (il «giorno di JHWH» e i «poveri» del Signore), ma anche l’inserzione di elementi posteriori di epoca post-esilica, come quello sulla conversione delle «isole» (2,11), cioè dei popoli lontani, sulla scia del Secondo Isaia. Un libretto che mostra, quindi, come la parola di Dio veniva conservata e applicata a nuovi contesti e prospettive, per offrire a tutti il dono della salvezza.

Nota Finale

Sofonia è uomo dotato di un vivo senso del peccato, che egli sente come una profonda offesa alla maestà del Dio vivente. Egli profetizza durante i primi anni del re di Giuda Giosia (640-609 a.C.), annunciando con linguaggio espressivo l’avvento del “giorno del Signore”, in cui la punizione di Dio si abbatterà su tutte le nazioni. Giuda stesso è condannato per la sua corruzione religiosa e morale, provocata dall’orgoglio e dalla disubbidienza. Pochi si salveranno, ammonisce il profeta: la collera divina risparmierà soltanto coloro che si pentiranno e torneranno al Signore

È un annunzio molto vicino ad alcune pagine di Amos, ma anticipa anche certi temi del quasi contemporaneo Geremia, come la condanna dei sacerdoti e dei profeti che portano la nazione alla rovina. La descrizione del giorno del Signore” ha ispirato l’inizio di un celebre testo liturgico medievale, il “Dies irae”.



domenica 18 novembre 2018

ABACUC



Di questo profeta, il cui nome sembra rimandare in ebraico a una pianta acquatica, si conosce ben poco. Il nemico che incombe nel suo breve scritto è variamente interpretato: si va da un personaggio dello stesso regno di Giuda, che, ribellandosi a Nabucodonosor, ne causò l’invasione del paese (VII-VI secolo a.C.), fino ai Greci dell’epoca di Alessandro Magno (IV-III secolo a.C.), dagli Assiri ai Babilonesi. L’opinione prevalente colloca Abacuc sul finire del VII secolo a.C.

Il suo libretto raccoglie una specie di dialogo tra il profeta e Dio secondo diverse tonalità letterarie. Ci si lamenta che il giusto sia oppresso (1,1-4) e JHWH risponde annunziando l’irruzione dei Caldei (Babilonesi), che con la loro potenza giudicheranno il “nemico” nel nome del Signore (1,5-11). Il profeta avanza ancora la sua accorata protesta a Dio a causa della prepotenza dei tiranni (1,12-2,1). Il Signore replica dichiarando che l’empio perirà mentre il giusto per la sua fede vivrà (2,2-5). Viene, così, affermata la vittoria del bene sul male.

Seguono cinque «Guai!» contro il tiranno che opprime le nazioni: egli sarà votato alla rovina e i popoli ritroveranno la loro libertà (2,6-20). Il libro è concluso da un salmo, forse più antico, in cui si esalta l’epifania gloriosa e potente del Signore che giudica e salva. I versi di questo poema sono di grande intensità, segnati da una vera e propria coreografia di immagini. Il libro di Abacuc – considerato uno degli scritti più profondi dell’Antico Testamento – ha avuto un notevole successo nella successiva tradizione giudaica e cristiana.

Il profeta appare anche nel libro di Daniele (14,33-39) in un episodio curioso, già da noi letto. Nel Nuovo Testamento la sua frase: «Il giusto sopravvive per la sua fedeltà!» (Ab 2,4) sarà usata da Paolo quasi come dichiarazione di base per la sua riflessione teologica sulla fede e sulla grazia (Romani 1,17; Galati 3,11; vedi anche Ebrei 10,38). Tra i manoscritti trovati a Qumran, presso il Mar Morto, è venuto alla luce un antico commento agli oracoli del profeta, mentre la versione greca antica di 3,2 («Ti manifesterai in mezzo a due animali…») è stata alla base, con Isaia 1,3, della tradizione della nascita di Gesù tra il bue e l’asino.  

Nota Finale

In questo libro il profeta pone direttamente a Dio l’eterna domanda che tormenta l’uomo: «Perché taci mentre l’empio ingoia il giusto?» E la risposta è che il Signore regna sempre sulla storia e, sia pure attraverso vie imperscrutabili, sceglierà il tempo in cui punire i malvagi e ristabilire il suo ordine; nell’attesa «il giusto vivrà per la sua fede». Questa espressione, ripresa soprattutto da Paolo nella lettera ai Romani, ha assunto un’importanza fondamentale nel pensiero cristiano come punto d’inizio dell’approfondimento teologico del concetto di “fede”.

La composizione dell’opera risale probabilmente alla fine del VI secolo a.C., quando i Caldei (cioè i Babilonesi) sottomettono l’Assiria e minacciano direttamente Giuda. Al termine del libro si trova però anche un carme più antico, forse del X secolo a.C., che celebra l’irruzione trionfale del Signore nella storia umana per giudicare e salvare.



venerdì 9 novembre 2018

NAUM



Nato nel villaggio ignoto di Elcos, che san Girolamo collocava in Galilea, Naum (o Nahum) ci offre un libretto profetico centrato sull’evento della distruzione della capitale assira Ninive, caduta nel 612 a.C. sotto i colpi del re dei Medi, Ciassare, e di Nabopolassar, il fondatore della dinastia neo-babilonese. Si ha, quindi, la possibilità di riferire l’opera del profeta Naum (il cui nome significa “consolazione”) al tempo del re di Giuda Giosia e della sua riforma religiosa (2Re 22), che sembra essere evocata in un paragrafo di questo breve scritto profetico (1,9-2,2).

Dicevamo, però, che il centro della predicazione di questo profeta, vissuto nella seconda metà del VII secolo a.C., è costituito da un canto dedicato alla rovina della grande avversaria di Israele, l’Assiria (2,3-3,19). Si tratta di una lamentazione sarcastica in cui, fingendo il lutto per quella fine, si ironizza e si esprime la gioia per l’opera di giustizia compiuta dal Signore contro un oppressore così duro e crudele. La caduta di Ninive diventa il simbolo della grande vittoria che Dio riporta sul male e dalla speranza in un futuro diverso per le vittime.

Il poema contro Ninive è di un’intensa forza poetica ed è articolato in una serie di quadri che dipingono le vicende quasi in presa diretta ed evocano anche un evento precedente, la distruzione di Tebe, la capitale egiziana sconfitta nel 663 a.C. dall’assiro Assurbanipal (3,8-10), il cui destino ricade ora sul vincitore di allora. Si noti anche che il libretto di Naum è preceduto da un salmo alfabetico incompleto (1,2-8), i cui versetti sono aperti da parole che iniziano con le lettere dell’alfabeto ebraico in successione, dall’ “Alef” alla “Kaf” (esclusa la lettera “Dalet”).

Le parole severe del giudizio divino si accompagnano alle promesse di una sicura salvezza: Il Signore, che regge il cosmo e la storia, si schiera dalla parte degli oppressi e assicura loro la liberazione e la possibilità di ritornare a essere in festa (2,1), mentre sugli oppressori cala il silenzio della morte (3,18).

Nota Finale

La predicazione di Naum, nato in un piccolo villaggio della Galilea, Elcos, si svolge alcuni anni prima della caduta di Ninive, conquistata dai Babilonesi nel 612 a.C. Per secoli l’Assiria (paragonata nel testo a una tana di leoni), ha devastato e dominato le altre nazioni del Medio Oriente, ma ora, afferma il profeta in uno stile vibrante e appassionato, la collera del Signore si abbatterà sul suo orgoglioso impero: nessun potere umano può usurpare indefinitamente il dominio di Dio sull’universo. L’autore, che è lontano dallo spirito universalistico di Giona e da quello del Nuovo Testamento, esprime con rara efficacia il tema della giustizia vendicativa di Dio. Il canto del giudizio divino su Ninive è di una tale potenza evocatrice e finezza letteraria da essere considerato uno dei capolavori della poesia ebraica.



sabato 3 novembre 2018

MICHEA



Contadino come il profeta Amos, ma contemporaneo e forse discepolo di Isaia, Michea (“chi è come il Signore?”) visse e operò nell’VIII secolo a.C. nel regno meridionale di Giuda, ove era nato (nel villaggio di Moreset-Gat, a 35 chilometri a sud-ovest di Gerusalemme). Michea è citato da Geremia (26,17-18), ma a sua volta nel capitolo 4 cita il canto di Sion che Isaia ha composto nel capitolo 2 del suo libro di oracoli. È lo stupendo inno alla pace e alla salvezza dei tempi messianici.

La prima parte del suo libretto (capitoli 1-3) è un vigoroso messaggio di denuncia nei confronti dei politici di Giuda, dei profeti di professione e dei sacerdoti infedeli, responsabili di ingiustizie sociali vergognose. Si passa, poi, a una raccolta di oracoli protesi verso il futuro con la speranza di una nazione nuova e santa, guidata da un nuovo Davide. È qui che appare quell’annunzio (5,1) che Matteo citerà così nel racconto dei Magi: «E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te infatti uscirà un capo che pascerà il mio popolo, Israele» (2,6). L’orizzonte tratteggiato dal profeta aveva, infatti, chiari connotati messianici. Questa è la seconda parte del libro di Michea (capitolo 4-5).

La terza parte (capitoli 6-7) inizia con un appassionato dialogo tra Dio e Israele infedele. Il dialogo si trasforma in una requisitoria processuale in cui si contesta al popolo una religiosità puramente rituale, non alimentata dalla vita e dalla giustizia, nello spirito di un messaggio che i profeti hanno spesso ripetuto (6,6-8). Michea non esita a condannare le infedeltà e i peccati del popolo, ma l’ultima parola è riservata alla speranza e al perdono. Israele si convertirà e Dio avrà ancora pietà del suo popolo e metterà sotto i piedi i suoi peccati eliminandoli (7,19).

Predicatore saldo e non privo di immediatezza, dovuta alla concretezza di uomo dei campi, Michea ripropone le caratteristiche della profezia delle origini, che nell’VIII secolo a.C. aveva visto emergere le figure di Amos, Osea e Isaia. Come si è detto, la sua fortuna continuerà anche attraverso la rilettura cristiana.

Nota Finale

Il libro di Michea, profeta che svolge la sua missione nel regno meridionale di Giuda (VIII secolo a.C.), comprende numerosi oracoli brevi, pronunciati in tempi diversi e raccolti in seguito in una cornice unitaria. Michea si scaglia contro il culto esteriore e lo sfruttamento dei poveri, annunciando la punizione divina su Samaria e Gerusalemme, ma profetizza anche la restaurazione del regno davidico e la gloria futura del popolo ebraico. Celebre è l’annunzio dell’avvento di un sovrano messianico il quale nascerà a Betlemme, la patria di Davide, e «sarà grande fino agli estremi confini della terra». Questo testo è citato da Matteo come annunzio della nascita di Gesù. L’ultima parte del libro contiene il nucleo della predicazione profetica di Michea sul vero culto e sulla vera religione, che si riassume in queste parole: «Praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio».