La filosofia di Plotino, che rappresenta
l’ultima grande sintesi del pensiero greco, ha in comune con la gnosi uno
sfondo di consonanze con la saggezza d’Oriente, ma, a differenza del pensiero
gnostico, la «convergenza» si esprime in Plotino come «traduzione» della
sapienza orientale nelle categorie tipiche del pensiero greco.
L’espansione dell’impero aveva
convogliato a Roma, dove Plotino insegnava nella prima metà del III secolo d.C., una serie di
credenze astrologiche, di pratiche teurgiche e di appelli a esperienze mistiche
che Plotino accolse ricodificandole in una costruzione filosofica in grado di
giustificare razionalmente il valore di un atto surrezionale (nel diritto canonico, reticenza nella
esposizione dei fatti commessa nella richiesta di un rescritto, di un responso scritto dell’autorità ecclesiastica
relativo alla concessione di una grazia o alla soluzione di una controversia)
che consentisse di approdare all’ineffabilità dell’«Uno» originario.
Questo itinerario, che è
identico a quello che animava la speculazione gnostica, viene purificato da
quella profusione di immagini e da quella foresta di simboli attraverso cui la
gnosi si era espressa, e ancorato alla dottrina del Bene-Uno che Platone aveva
tratteggiato nel “Parmenide”. Di qui
la denominazione di “Neoplatonismo”
che risponde da un lato all’intenzione di Plotino che si propone come semplice
esegeta della filosofia di Platone (Ennedi,
I, 8), dall’altro al
significato teoretico e storico che la sua filosofia andrà assumendo come
riproposta del primato del pensiero greco, o più semplicemente platonico,
rispetto alle altre forme di fede e di speculazione.
L’esigenza dell’unità originaria era stata promossa nel
pensiero greco dalla speculazione di Parmenide e dalla dottrina pitagorica
della “monade”. Con Platone il problema dell’«Uno» viene fatto reagire con l’esperienza del «molteplice» le cui espressioni che vanno dalle «idee» come
fondamento dell’intelligibilità delle cose, alle «anime» come principio della
vita e del movimento, alla «materia» come matrice irrazionale delle apparenze,
offrono a Plotino le strutture del suo impianto metafisico che trova la sua
interna connessione nella dottrina dell’«emanazione» (apórroia) che salva l’unità e la continuità delle distinzioni.
Per Platone e Aristotele, Dio e
la materia erano infatti due principi originari, non connessi tra loro da alcun
principio creazionistico. Ciò determinava da un lato che, se la materia è
indipendente da Dio, Dio “manca” di
qualcosa, e, in quanto mancanza, non può essere, per usare i termini
aristotelici, «atto puro», ma «essere in potenza» rispetto alla materia che
gode di una sua entità e indipendenza. Per
risolvere questa contraddizione Plotino introduce il concetto di “emanazione”, per cui la materia
«procede» da Dio non per un “atto
creativo”, ma per un atto che potremmo definire “diffusivo”. La «creazione», infatti, implica una “produzione dal nulla”, e per Plotino,
così come per l’intera mentalità greca, dal nulla non viene nulla ( ex nihilo nihil fit).
La
processione della materia da Dio avverrà allora per “emanazione” simile
alla luce che si espande intorno alla fonte luminosa, al calore che si diffonde
intorno al corpo caldo, al profumo che si diparte dal corpo odoroso
affievolendosi col progressivo distanziarsi. La materia è l’estremo limite del
propagarsi della luce che emana dall’«Uno» originario e che “non può non emanare”, essendo la luce di
per sé diffusiva. In tal modo l’instaurarsi delle differenze non contraddice
l’esigenza dell’unità e quindi la continuità (sunécheia) del reale.
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