domenica 27 maggio 2018

SALMI



Chiamate dalla tradizione ebraica “Tehillim”, cioè «lodi», e da quella greca e cristiana “Psalmoi”, cioè «inni da cantare con musica», le centocinquanta preghiere poetiche del libro dei Salmi sono espressione del culto d’Israele. Composti in epoche differenti a partire dalla monarchia davidica (X-VI secolo a.C.) fino alla rivolta dei Maccabei (II secolo a.C.), nati dalla liturgia o dalla pietà personale, i Salmi sono divenuti nei secoli successivi all’esilio babilonese il libro della preghiera del tempio ricostruito. Posto idealmente dalla tradizione sotto il patronato di Davide (ma già gli antichi titoli apposti ai vari Salmi riconoscono diverse paternità), il Salterio riflette in realtà temi, stili, situazioni molto differenti, prima di essere unificato e spesso riletto in chiave di speranza messianica.

Da tempo gli studiosi hanno classificato le varie composizioni salmiche secondo diversi modelli chiamati “generi letterari”. Si incontrano, così, suppliche o lamentazioni che presentano a Dio una sofferenza personale o un dramma nazionale, chiedendo conforto e liberazione. Ci sono, poi, inni che celebrano il creatore nelle opere meravigliose della natura o che esaltano Gerusalemme, sede del tempio, o che esprimono l’adesione al regno del Signore, che governa la storia e l’universo. Altri testi sono ringraziamenti rivolti a Dio per i benefici ottenuti, oppure sono preghiere di fiducia purissima nella sua bontà e nel suo amore.

Alcuni sono canti in onore del re ebraico discendente di Davide, divenuti poi celebrazione della speranza nel Messia. Altre pagine sono “sapienziali”, sono cioè meditazioni sulla storia della salvezza o sulla vita quotidiana retta dalla parola di Dio. Tutta l’esistenza viene presentata a Dio perché la illumini: la felicità e le lacrime, le sconfitte e i successi, la società e la famiglia, la vita e la morte, il cielo e la terra diventano nei Salmi materia di lode e di implorazione.

La tradizione giudaica ha diviso il Salterio in cinque libri (Salmi 1-41; 42-72; 73-89; 90-106;107-150), quasi a creare una risposta orante ai cinque libri della Torah, la parola di Dio per eccellenza. La tradizione cristiana ha assunto i Salmi nella sua preghiera liturgica. È per questo che la versione del Salterio di questo libro non è del tutto nuova come negli altri libri biblici, ma è quella usata dalla liturgia attuale, cioè la traduzione della Conferenza episcopale italiana. 

Nota Finale

Già diversi secoli prima di Cristo, il libro dei Salmi, o Salterio, era la raccolta di inni usata nella liturgia e nella preghiera personale dai Giudei – e in seguito dalla Cristianità – a causa della profonda spiritualità e bellezza di queste liriche, che costituiscono un tesoro impareggiabile per la devozione pubblica e privata. Il titolo originale ebraico della raccolta significa “Libro delle Lodi”, ed effettivamente parte dei Salmi sono di lode; tuttavia ve ne sono numerosi altri che appartengono a generi molto diversi: si va da quelli di supplica e penitenza a quelli di fiducia, da quelli di ringraziamento a quelli a contenuto didattico e ad altri che sembrano essere stati composti per particolari occasioni, come un’incoronazione o nozze regali. Alcuni Salmi vengono considerati messianici perché citati in questa luce dagli scrittori neotestamentari e perché ricchi di una tensione particolare che trascende il semplice orizzonte della dinastia davidica e conduce verso più gloriosi orizzonti di giustizia e di pace. Divisi dalla tradizione giudaica in cinque libri, i singoli Salmi sono di secoli e di autori diversi, e molti vengono attribuiti al re Davide. La maggior parte di essi ha assunto la forma attuale durante l’epoca del secondo tempio, vale a dire tra il 500 e il 100 a.C.



domenica 20 maggio 2018

GIOBBE




Il libro di Giobbe è sicuramente uno dei capolavori poetici e spirituali non solo della Bibbia, ma anche della letteratura di tutti i tempi e di tutte le nazioni della terra. Composta dopo l’esilio babilonese, forse nel V-IV secolo a.C., in un linguaggio tutto costellato di simboli, l’opera rivela al suo interno strati successivi di formazione. L’autore principale ha probabilmente usato un’antica parabola in prosa che aveva per protagonista “uno dei figli d’Oriente”, cioè un personaggio giusto, non ebreo, del quale si narrava tutta una lunga serie di disgrazie umanamente inspiegabili, che suscitavano come reazione la sua fedeltà inconcussa e si concludevano con una grandiosa ricompensa divina finale.

Nella cornice di questo racconto, trasformato in prologo (capitoli 1-2) ed epilogo (42,7-17), uno scrittore ebreo ha sviluppato un poema mirabile che comprende sostanzialmente due atti. Il primo (capitoli 3-28) è un triplice e serrato dialogo tra Giobbe e tre suoi amici, Elifaz, Bildad e Zofar, che incarnano la teologia ufficiale di Israele. Essi cercano di offrire al grande sofferente le risposte codificate e scontate della tradizione, mentre Giobbe fa emergere in tutta la sua lacerazione il dramma del dolore dell’uomo e il mistero insondabile del silenzio di Dio.

Egli vuole che Dio stesso offra una risposta, e il secondo atto (capitoli 29-31 e 38-42) descrive il dialogo tra Giobbe e il Signore in pagine di suprema bellezza. Il libro si rivela come una ricerca del vero volto di Dio attraverso la strada aspra del dolore: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto» (42,5), esclama alla fine Giobbe. All’interno del corpo fondamentale dell’opera si sono inserite aggiunte successive (come l’apparizione di un quarto amico, Eliu, nell’ampia sezione dei capitoli 32-37) e si sono operati tagli e correzioni, soprattutto quando la protesta di Giobbe contro Dio si faceva violenta e quasi blasfema.

Il significato ultimo di questo capolavoro è da cercare nel desiderio di penetrare il mistero dell’uomo e il mistero di Dio, in particolare quando entrano in tensione. Ma molti significati ulteriori appaiono e scompaiono e sono variamente interpretati. Giustamente san Girolamo affermava che «interpretare Giobbe è come stringere tra le mani un’anguilla: più la premi, più ti sfugge di mano»

Nota Finale

Il mistero del dolore e di una equa retribuzione nella vita umana è il tema centrale del libro di Giobbe. Perché il giusto, il probo, l’innocente sono colpiti talvolta da grandi pene e afflizioni? Giobbe, un uomo buono che subisce gravi disgrazie, respinge la tesi tradizionale, esposta da amici che si recano a trovarlo, secondo cui la sofferenza rappresenta la punizione per i peccati commessi ed è strumento di correzione e purificazione per l’uomo. Egli è sicuro della propria innocenza, perciò non sa spiegarsi come mai sia stato colpito da tante calamità, dato che non può ammettere che Dio agisca ingiustamente. Dopo una serie di dialoghi tra Giobbe e i suoi amici, i quali rappresentano la teologia ufficiale, Dio appare in una misteriosa rivelazione e ricorda a Giobbe l’impossibilità dei mortali a comprendere le leggi che regolano l’universo.


Il libro non offre alcuna soluzione esplicita del problema trattato, ma dal suo contesto appare chiaro che ciò che nella nostra dimensione umana e razionale non può avere spazio e logica, può essere collocato e giustificato in un più ampio e totale progetto: quello divino. Del libro di Giobbe sono ignoti sia l’autore sia l’epoca di composizione, che gli studiosi moderni fanno risalire al V secolo a.C. L’opera è in assoluto uno dei capolavori della letteratura biblica per lo splendore delle immagini, la passione dei sentimenti, il rigore del discorso e dei suoi simboli, l’intensità della fede.











domenica 13 maggio 2018

MACCABEI 1-2



Si tratta di due opere distinte che affrontano, da angolature diverse e in forme differenti, le vicende vissute dagli Ebrei sotto il dominio dei Seleucidi, i discendenti di uno dei generali di Alessandro Magno, Seleuco, che avevano sotto il controllo l’area siro-palestinese. Questa dinastia con uno dei suoi sovrani, Antioco IV (175-164 a.C.), aveva imposto a tutto il proprio regno un modello di società, di legislazione, di cultura e di religione di impronta greca.

Tale imposizione non poteva essere accettata dagli Ebrei osservanti, che reagirono dando vita a una vera e propria rivoluzione capeggiata da Giuda, soprannominato “Maccabeo” (termine che può significare “martello” o “designazione del Signore”), che coagulò attorno a sé un vero e proprio esercito partigiano, destinato a opporsi alle forze siro-ellenistiche di Antioco IV.

Il primo libro descrive appunto, in tre medaglioni, le valorose imprese di Giuda (3,1-9,22), di suo fratello e successore Gionata (9,23-12,53) e infine di Simone, l’altro fratello che darà origine a una dinastia che regnerà in Israele fino alle soglie dell’era cristiana (capitoli 13-16). Gli eventi narrati vanno dal 167 al 134 a.C. e comprendono guerre, atti eroici, trattative diplomatiche, la purificazione del Tempio di Gerusalemme, profanato su ordine del re Antioco IV con una statua idolatrica, forse di Zeus. Non mancano pagine esaltanti ma anche vicende confuse e oscure.





Il secondo libro dei Maccabei, presentato come il riassunto di un’opera in cinque libri di un certo Giasone di Cirene, ha invece al centro solo la figura dell’eroe Giuda Maccabeo. L’opera è interessante perché permette di individuare anche alcuni temi cari alla religione giudaica dell’epoca recente. Si proclama la fede nella risurrezione e nella vita eterna (capito 7,9), si esalta la presenza degli angeli accanto ai combattenti per la libertà, si dichiara la fede nella creazione dal nulla operata da Dio (7,28), si afferma la validità del suffragio dei vivi per i morti (12,38-45). I due libri, giunti a noi in greco, non sono entrati per questo nel Canone ebraico (e in quello protestante), ma sono riconosciuti come ispirati dalla Chiesa cattolica.


Nota Finale

«Primo libro dei Maccabei». I due libri dei Maccabei narrano i quarant’anni di storia che vanno dal 175 al 134 a.C. È un periodo denso di avvenimenti per il popolo ebraico, mentre la Palestina si trova sotto il controllo della dinastia dei Seleucidi, che regge il regno di Siria, uno degli stati sorti con la spartizione dell’impero di Alessandro Magno. Quando i re seleucidi, e soprattutto Antioco IV Epifane (175-164 a.C.), decidono di imporre la religione e la cultura greche agli Ebrei, si scontrano con la reazione popolare guidata dalla famiglia dei Maccabei, i quali intraprendono una lunga lotta, che porta alla conquista della libertà e dell’autonomia religiosa. L’autore del primo libro dei Maccabei, composto tra la fine del II e l’inizio del I sec. a.C., ci è ignoto; egli è spesso uno storico attendibile e un testimone oculare di molti avvenimenti, ma il suo intento è principalmente religioso e nazionalistico: mostrare la provvidenza del Signore verso il suo popolo, rafforzare la fede nell’unico Dio contro i culti pagani dell’ellenismo ed esaltare l’eroismo dei Giudei perseguitati.

«Secondo libro dei Maccabei». Scritto originariamente in greco, non è il seguito del primo, né opera dello stesso autore. Si tratta di una rielaborazione dei medesimi avvenimenti riguardanti la rivolta dei Maccabei contro il potere ellenistico della dinastia seleucide regnante in Siria. Al centro del libro domina la figura di Giuda, il più celebre e attivo dei Maccabei, ma attorno a lui si sviluppano quadri famosi non citati nel primo libro, come l’umiliazione di Eliodoro, incaricato dal re Seleuco IV di spogliare il tempio di Gerusalemme, o come il martirio di Eleazero e dei sette fratelli giudei che non vogliono tradire la loro fede. L’opera, fortemente intrisa di passione nazionalistica, di tesi moraleggianti e composta in uno stile retorico e solenne, è il riassunto di un altro scritto di un certo Giasone di Cirene, andato perduto. Tuttavia, è importante perché l’anonimo autore ci rivela le convinzioni teologiche del Giudaismo attorno al I sec. a.C.: la fede nella risurrezione, il suffragio per i defunti, l’intercessione dei morti per i vivi, la presenza degli angeli e la dottrina della creazione del mondo dal nulla. 
    




domenica 6 maggio 2018

ESTER



Libro particolarmente caro al giudaismo che l’ha inserito tra le “Meghillot”, cioè tra i cinque “Rotoli” biblici letti in alcune feste liturgiche (Ester è proclamato nella festa di Purim, e vedremo subito la ragione), questo scritto è giunto a noi in ebraico e in una versione greca, che è più estesa dell’originale ebraico a noi noto. L’opera ha come sfondo la corte persiana, che l’autore dimostra di conoscere nei suoi cerimoniali, mentre le coordinate storiche sono fittizie e ci riportano al tempo di Assuero-Serse (morto nel 465 a.C.). Si tratta probabilmente di uno scritto sorto nella diaspora orientale degli Ebrei, ma in epoca più recente (forse il II secolo a.C.).

L’eroina Ester, porta un nome pagano, da ricondurre alla dea Ishtar, la Venere orientale, o a un vocabolo persiano che significa “stella”; il co-protagonista, lo zio Mardocheo, evoca nel nome il dio Marduk della religione babilonese. Ma la funzione di entrambi è quella di essere strumenti di salvezza nei confronti degli Ebrei, sottoposti a persecuzione e al rischio della stessa eliminazione come popolo, a causa dell’ostilità di un ministro del re di Persia, Aman. 

L’editto reale di sterminio degli Ebrei, affidato a una data decisa dalle “sorti” (purim), è alla fine cancellato per intercessione di Ester, la bellissima ebrea che Assuero aveva posto al vertice del suo harem, scalzandovi Vasti, la prima moglie. La finale del libro è appunto dedicata alla celebrazione della festa di Purim, nome derivante dalle “sorti” a cui si faceva riferimento; essa sarà una solennità gioiosa, che nel giudaismo posteriore acquisterà progressivamente i connotati di un carnevale, pur non perdendo la sua matrice religiosa.

Il libro esalta la tesi cara alla Bibbia del ribaltamento dei destini: l’empio, che sembra avere successo e trionfi, verrà umiliato e subirà la punizione che egli aveva destinato ai giusti, mentre le vittime assurgeranno alla gloria. Tutto questo rivela l’azione decisiva di Dio all’interno della storia degli uomini. L’opera si trasforma, così, sulla scia della vicenda dell’esodo dall’Egitto, in un appello alla fiducia nel Signore, salvatore del suo popolo, e alla speranza, anche quando le vicende sono drammatiche e apparentemente senza sbocco.

Nota Finale

Durante il regno del re persiano Assuero (cioè Serse I, 485-465 a.C), il gran visir Aman, feroce nemico degli Ebrei, tenta di organizzare il loro massacro con l’approvazione del re. L’umile orfana giudea Ester, diventata regina, viene a conoscenza del malvagio progetto e riesce, correndo gravi rischi, a capovolgere la situazione a danno del cospiratore. Per quanto alcune notizie storiche possano dare un certo fondamento alla vicenda, il libro di Ester ha le caratteristiche di un racconto a scopo edificante: la tesi fondamentale è quella della liberazione ottenuta per mezzo di una donna perché, come afferma l’apostolo Paolo, Dio confonde i potenti attraverso i poveri e i deboli. 

Il libro non menziona esplicitamente aspetti specifici della religione ebraica, e il probabile motivo della sua inclusione nel canone dell’Antico Testamento sta nel fatto che descrive l’istituzione dei Purim (letteralmente “delle sorti”), una festa annuale ricca di aspetti gioiosi, celebrata ancor oggi dagli Ebrei. Nulla si sa del nome dell’autore o dell’epoca di compilazione del libro. Il Nuovo Testamento non lo menziona e non ne sono stati trovati frammenti nei manoscritti biblici scoperti a Qumran.