giovedì 25 ottobre 2018

GIONA



Questa raffinata storia, che ha per protagonista un profeta, Giona (“colomba”), evocato nel secondo libro dei Re (14,25) al tempo di Geroboamo II, sovrano di Samaria dell’VIII secolo a.C., è in realtà un racconto esemplare più che un vero e proprio testo profetico. Esso vuole sostenere in modo molto vivace l’apertura universalistica che si stava introducendo in alcuni ambiti del giudaismo dopo l’esperienza dell’esilio babilonese e della diaspora di Israele in altre nazioni.

Se, da un lato, non mancavano correnti particolaristiche e inclini alla chiusura (si pensi all’opera di Esdra e Neemia) – e lo stesso profeta Giona ne è una testimonianza – dall’altro, si sentiva l’urgenza di un impegno missionario. La trama del racconto è, infatti, retta da un viaggio che il profeta doveva compiere a Ninive , la capitale dell’Assiria, un antico simbolo di oppressione per Israele. Un viaggio per invitare alla conversione: Giona, per nulla convinto di tale scelta e quindi renitente alla chiamata divina, aveva deciso invece di dirigersi all’estremo opposto (la città di Tarsis – di non certa identificazione – ne è il simbolo), imbarcandosi su una nave che solcasse il Mare Mediterraneo e proseguisse per l’occidente.

Il narratore di questo breve e vivace racconto ha il gusto dell’ironia nei confronti di un profeta così gretto, e non rifiuta il ricorso al fiabesco (il pesce mostruoso che ingoia Giona e lo rigetta, un simbolo che sarà ripreso da Gesù per indicare la sua morte e risurrezione), cita nel capitolo 2 un salmo di supplica, adatto ad esprimere i sentimenti del profeta chiuso nel grembo del mostro e del mare, e usa nel capitolo 4 una bella parabola in azione (il ricino, il verme e il vento).

Ma tutto il libretto è orientato a quella domanda finale che esige una risposta da parte del profeta, del lettore e di tutto Israele: Il Signore non deve aver compassione di tutte le sue creature viventi e offrire la possibilità del riscatto dal loro male così da ottenere la salvezza? Il libro esalta, quindi, l’amore universale di Dio e la sua volontà di liberazione e di gioia per tutti gli uomini.

Nota Finale

Diversamente dagli altri scritti profetici, che si snodano attraverso l’esposizione solenne di una serie di oracoli, il libro di Giona si presenta come un racconto esemplare dai colori vivaci, che descrive la riluttanza del profeta ad accettare la missione affidatagli dal Signore di andare a predicare a Ninive, la capitale dell’Assiria, e il suo sgomento di fronte al desiderio di Dio di voler convertire e perdonare la grande città, emblema dei nemici tradizionali del popolo ebraico.
Lo scopo del libro è quello di dimostrare che l’amore misericordioso di Dio è universale e che il messaggio salvifico deve varcare i ristretti confini della nazione ebraica.

L’opera è stata quasi certamente redatta in epoca post-esilica (V-III secolo a.C.), anche se il profeta Giona è vissuto alcuni secoli prima. Nei vangeli, Gesù parla più volte del “segno di Giona”, riferendosi all’episodio in cui Giona è inghiottito e liberato dal mostro marino, che in Matteo è interpretato come una profezia simbolica della morte e risurrezione del Cristo.



sabato 20 ottobre 2018

ABDIA



Abdia (“servo del Signore”) ha lasciato il più breve di tutti gli scritti profetici: un solo capitolo di 21 versetti. Dell’uomo Abdia e della sua storia non sappiamo nulla né è da confondere – come farà una successiva tradizione giudaica – con Abdia, maggiordomo del re Acab al tempo del profeta Elia (1Re 18).

Secondo alcuni studiosi il testo di Abdia a noi giunto sarebbe costituito da due frammenti (versetti 1-14 e 15-21). Nel primo si legge un veemente oracolo contro Edom, la popolazione imparentata con gli Ebrei, ma ad essi ostile. Il profeta lo pronunzia perché gli Edomiti si schierarono con gli invasori babilonesi al momento della distruzione di Gerusalemme (586 a.C.). Ben dieci versetti di questo oracolo si ritrovano, con alcune varianti, nel libro di Geremia (49,7-16).

Il secondo frammento, pur partendo ancora da Edom, allarga l’orizzonte descrivendo «il giorno del Signore», che vedrà la rivincita gloriosa di Israele su Edom e il sorgere di una nuova era di gioia per il popolo di Dio, ritornato sul monte di Sion. Si può, dunque, pensare a uno scritto immediatamente post-esilico.

Segnata da una forte passione nazionalistica, quest’unica pagina a noi giunta di Abdia è la testimonianza dell’incarnazione della parola di Dio nella storia di Israele, nelle sue sofferenze e passioni, ma anche nelle sue speranze in un futuro migliore di libertà, attuato dalla giustizia divina che si schiera dalla parte degli oppressi. Il profeta vede realizzarsi tutto ciò nel «giorno del Signore».

Nota Finale

Si tratta del libro più breve dell’Antico Testamento. Il profeta, il cui nome significa “servo del Signore” e del quale si hanno scarse notizie, ammonisce il paese di Edom (discendente da Esaù) preannunciando che sarà colpito dalla punizione divina per aver rifiutato di combattere contro gli stranieri che hanno conquistato Gerusalemme e per aver anzi approfittato della situazione saccheggiando il territorio di Giuda. Il brano esalta la giustizia di Dio, che agisce come difensore del diritto non solo del suo popolo ma di tutte le genti. Abdia assicura quindi i superstiti d’Israele che la terra promessa sarà loro restituita e che avranno la rivincita su Edom. 

La sventura di Gerusalemme descritta dal profeta è probabilmente il sacco (assalto, devastazione) della città compiuto dai Babilonesi nel 586 a.C. e, poiché Edom viene soggiogato dai Nabatei nel 312 a.C., la profezia di Abdia si può collocare fra queste due date.




sabato 6 ottobre 2018

AMOS



Nato a Tekoa, un villaggio nel deserto di Giuda a sud di Gerusalemme, Amos era un piccolo possidente agricolo che allevava bestiame (1,1) e coltivava sicomori (7,14), un albero tropicale dai frutti dolci e dalla scorza simile al sughero. Al suo lavoro fu strappato dalla chiamata divina, che lo lanciò nel regno settentrionale d’Israele, nell’opulenta città di Samaria. Là egli iniziò una predicazione tesa alla denuncia delle ingiustizie perpetrate dalle alte classi nei confronti dei poveri e degli umili e dal forte richiamo alle esigenze del Dio dell’alleanza.

Le sue parole, spesso intrise di sdegno e colorate di immagini desunte dal mondo agricolo da cui il profeta proveniva, sono state raccolte in un libro (forse il primo dei testi profetici, essendo vissuto Amos a metà dell’VIII secolo a.C., sotto il regno di Geroboamo II). La divisione di questa raccolta di oracoli veementi è scandita da alcuni verbi. Nelle sette scene dei capitoli 1-2, ove sono giudicate le nazioni, si ha il verbo «dire», presente in quella che gli studiosi chiamano “la formula dell’inviato” divino: «Così dice il Signore…».

Nei capitoli 3-6 i discorsi sono, invece, introdotti da tre «Ascoltate!» (3,1; 4,1; 5,1), che spesso s’intrecciano con i «Guai!» del giudizio divino scagliati contro i ricchi proprietari terrieri (5,7), destinati al «giorno del Signore», in cui Dio interverrà contro l’ingiustizia (5,18) e contro gli abusi dei politici (6,1). La terza parte (capitoli 7-9) è occupata da cinque visioni, introdotte dalla formula: «Ecco ciò che mi fece vedere il Signore», o dal verbo «vedere» (7,1.4.7; 8,1; 9,1).

Il profeta offre una serie di denunce precise e documentate contro le violenze, le volgarità, le ingiustizie perpetrate dai ricchi di Samaria, attirandosi anche gli attacchi del sacerdote Amasia, capo del clero del santuario del re a Betel. Si rivela, così, anche l’annunzio – caro a tutti i profeti – di un culto non ipocrita ed esteriore, ma radicato nella vita. Altrimenti Dio rigetterà santuari, canti, feste, sacrifici (4,4-5; 5,4-6; 5,21-24), perché per lui fondamentali sono la giustizia, la fedeltà, l’onestà. Il libro di Amos (“il Signore porta” è il significato del suo nome, come di quello del suo avversario Amasia) finisce con una pagina di speranza messianica, forse posteriore, che si apre a un orizzonte di salvezza e di vita (9,11-15).

Nota Finale

Da un piccolo villaggio del regno meridionale di Giuda, dove fa il pastore e il coltivatore di sicomori, Amos viene inviato da Dio a predicare nel regno settentrionale di Israele, sotto Geroboamo II (VIII sec. a.C.). In questi anni, Israele si trova all’apice della potenza e del benessere economico, ma è anche afflitto da profonde ingiustizie sociali. Scandalizzato dai culti pagani, dall’oppressione dei poveri e dall’immoralità, Amos inveisce aspramente contro gli Israeliti ed entra ben presto in conflitto con le autorità, che lo espellono dal santuario regale di Betel. In ordine di tempo, Amos è il primo profeta di cui ci siano giunti gli oracoli scritti e non soltanto alcune note biografiche come nel caso di Elia ed Eliseo. La sua profezia è carica di simboli desunti dal mondo campestre e di uno sdegno veemente contro l’ingiustizia. Il susseguirsi di dure minacce si conclude però con una nota di speranza: la promessa che Israele risorgerà e tornerà a essere fertile e ricco.