giovedì 9 maggio 2019

LETTERA A FILEMONE



Ormai «vecchio e prigioniero» (1,9), Paolo stende questo breve scritto simile a un biglietto, che è stato definito da uno studioso «un vero capolavoro di tatto e di cuore». Egli lo indirizza a Filemone, un amico ricco e generoso, «collaboratore» nell’annunzio del vangelo, nella cui casa si riuniva una comunità di cristiani. A lui l’apostolo chiede un favore piuttosto sorprendente. Durante la sua carcerazione – in realtà durante gli arresti domiciliari di Roma, attorno agli inizi degli anni 60 – Paolo aveva incontrato e «generato» nella fede cristiana uno schiavo di nome Onèsimo.

Ebbene, costui era fuggito proprio dalla casa di Filemone: secondo il diritto romano, egli doveva essere restituito al padrone, il quale ne avrebbe deciso la sorte che meglio gli sarebbe stata gradita. La proposta che Paolo avanza è significativa della nuova visione che il Cristianesimo stava introducendo nelle relazioni sociali, ed è per questo che il piccolo scritto diventa interessante e importante.

L’apostolo, dunque, invita l’antico padrone dello schiavo Onèsimo a riaccoglierlo non più come «schiavo», ma come «fratello carissimo», perché ormai in Cristo non c’è più «né schiavo né libero», ma tutti sono una cosa sola in lui (Galati 3,28). Il biglietto diventa, perciò, un appello all’amore, alla genuina libertà cristiana, alla fraternità oltre le distinzioni sociali e le classi.

Nella breve lettera Paolo fa anche balenare la speranza di essere restituito alla comunità dei cristiani e di essere ospitato proprio presso la casa di Filemone, al quale chiede di preparargli «un alloggio» (1,22). Non sappiamo se questo sogno poté realizzarsi, prima della morte dell’apostolo sotto Nerone imperatore.  

Nota Finale

Si tratta di un brevissimo biglietto che Paolo invia da Roma, dove si trova prigioniero, al suo amico Filemone, per invitarlo a riprendere uno schiavo, Onèsimo, fuggito per seguire l’apostolo. Adesso, convertito e pentito, Onèsimo è pronto a ritornare dal suo padrone. Paolo si appella alla fede comune, per la quale tutti sono diventati “servi del Signore” e quindi “fratelli”. Egli non chiede l’abolizione della schiavitù sul piano politico-sociale, cosa del resto praticamente impossibile a quei tempi, ma inizia la “rivoluzione culturale” cristiana, che introduce un nuovo giudizio sull’uomo e sulla sua inalienabile dignità. Infatti, come lo stesso apostolo scrive nella lettera ai Galati: “Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”.



martedì 7 maggio 2019

LETTERA A TITO



Tito, collaboratore di Paolo, era di origine pagana e forse era stato convertito dallo stesso apostolo, se almeno si intende in questo senso l’appellativo di «vero figlio nella fede comune», che gli viene rivolto proprio in apertura alla lettera (1,4). Anche se gli Atti degli Apostoli non lo menzionano mai, la presenza di Tito accanto a Paolo è costante ed è sorgente di serenità, di conforto e di amicizia nelle fatiche e nelle difficoltà dell’evangelizzazione, come si intuisce soprattutto da alcuni passi della seconda lettera ai Corinzi (in particolare nei capitoli 7-8).

Lo scritto indirizzato a Tito è piuttosto denso a livello teologico e cerca di riproporre la fede cristiana nelle sue radici fondamentali: esemplare in questo senso è il brano presente in 2,11-14, ove vengono messe in luce le tappe della storia della salvezza – a partire dall’incarnazione fino alla piena manifestazione o “epifania” gloriosa di Cristo – e si esalta anche la risposta morale del cristiano. Lo sfondo di questa professione di fede è probabilmente quello della catechesi battesimale.

Si ritrovano, poi, in queste pagine altri elementi caratteristici delle lettere pastorali paoline. Si delinea, così, il ritratto dei presbìteri e dei “vescovi” (1,5-9), nei cui confronti Tito ha una funzione di responsabilità all’interno della Chiesa di Creta a nome dell’apostolo. Appaiono ancora una volta i falsi maestri che turbano la coscienza dei cristiani: nei loro confronti si pronunziano a più riprese parole piuttosto aspre di condanna (1,10-16; 3,9-11), non esitando a ricorrere a una citazione di un poeta cretese del VI secolo a.C., Epimenide di Cnosso, che aveva bollato i suoi connazionali come «sempre bugiardi, cattive bestie, ventri pigri» (vedi 1,12).

Come nelle precedenti lettere a Timoteo, anche in questa destinata a Tito si ha una rappresentazione dal vivo dei problemi pastorali delle prime comunità cristiane, con un’attenzione particolare all’impegno coerente nella fede e nella carità. Un impegno che viene giustificato ricorrendo all’insegnamento tradizionale cristiano, richiamato nelle sue componenti fondamentali come guida contro le tentazioni delle deviazioni dottrinali, che minacciavano la fede della comunità.

Nota Finale

Tito è uno dei primi Greci convertiti al Cristianesimo. Battezzato da Paolo, partecipa con lui all’assemblea di Gerusalemme, organizza per suo incarico la colletta in favore di quella Chiesa e, durante la seconda prigionia romana dell’apostolo, viene mandato a predicare in Dalmazia. Paolo gli invia questa lettera a Creta, dove l’ha lasciato a organizzare “ciò che rimane da fare”, e lo esorta a insegnare a ogni categoria di persone “ciò che è secondo la sana dottrina”, a costruire in ogni città i presbìteri (capi delle comunità locali), a vigilare sui rapporti con le autorità e con le diverse culture in base a un criterio di rispetto e di intelligente vigilanza critica. 



sabato 4 maggio 2019

SECONDA LETTERA A TIMOTEO



Anche questo scritto, come il precedente indirizzato al discepolo di Paolo, Timoteo, è segnato dal vivo rapporto che intercorre tra l’apostolo e il suo collaboratore. Anzi, la lettera acquista talora la tonalità di un vero e proprio testamento che Paolo, in carcere a Roma e alla vigilia del martirio, destina a chi gli è stato vicino nei giorni della prova e dell’impegno missionario, descritti con le immagini della battaglia e della corsa (si veda in particolare il brano presente in 4,6-8).

In questa ideale consegna estrema hanno rilievo due componenti. Da un lato, emerge il profilo del vero pastore, che ha il suo modello proprio in Paolo (1,1-2,13 e 3,10-4,5). Dall’altro lato, appare con durezza la denunzia contro i pericoli della degenerazione della fede e della vita cristiana all’interno della comunità (2,14-3,9): è una pagina molto aspra, che riflette le difficoltà ecclesiali che già affioravano e interpellavano i credenti delle stesse origini cristiane.

Come nelle altre lettere pastorali, anche in questo secondo scritto a Timoteo molti studiosi hanno intravisto il linguaggio e l’opera di un discepolo di Paolo che celebra la grandezza, evoca gli ultimi moniti e la fine del suo maestro. Rimane, comunque, indiscussa l’“ispirazione” divina della lettera che, tra l’altro, ci offre, proprio sul tema delle sacre Scritture ispirate da Dio, una considerazione molto importante, spesso usata nella storia della tradizione e della teologia cristiana come autorevole testo di riferimento (3,14-17).

Non mancano, dunque, accanto alle note pastorali molto concrete riguardanti la vita della Chiesa, anche riflessioni di grande intensità, soprattutto sul tema della salvezza operata da Cristo nel mistero pasquale: ad essa siamo tutti chiamati attraverso una fede fruttuosa e un costante impegno morale (1,9-10, 2,8-10).

Nota Finale

Questa seconda lettera a Timoteo, scritta da Roma quando Paolo sente ormai vicina la sua fine, assume quasi la forma di un “testamento”, che richiama abbastanza chiaramente il discorso di addio tenuto dall’apostolo a Mileto, davanti agli anziani della Chiesa di Efeso e riferito da Luca nel libro degli Atti. Queste affinità depongono in favore dell’origine paolina della lettera. Anche il tono e i contenuti sono molto personali: richiami alla vocazione apostolica e al legame di grazia e di storia col Cristo crocifisso e risorto; inviti al coraggio della testimonianza di fronte alle continue persecuzioni e ai falsi maestri; toccante accenno al proprio martirio imminente: insomma, un vero e proprio “testamento spirituale” lasciato da Paolo al suo discepolo e, attraverso lui, a tutti coloro che, avendo letto il suo epistolario, “attendono con amore la manifestazione del Signore”.