sabato 23 settembre 2017

EPICURO E L’ETICA


L’origine della vita e dell’uomo non sfugge al “meccanicismo” che regge le vicende del tutto. Mai è esistita un età dell’oro, ma l’umanità, a fatica, in un lungo arco di tempo si è evoluta. L’uomo ha appreso per “esperienza” ed “imitazione”, ed è giunto così all’attuale grado di civiltà. Tuttavia, è sbagliato ritenere che questo stato sia duraturo: la sparizione del mondo vanificherà gli sforzi degli uomini e con essi tutti i benefici che il progresso ha apportato. (D’altra parte, tali benefici non sono di per sé sufficienti a dare la felicità). Nella natura quindi non esiste nessun finalismo, né tanto meno gli dei si occupano delle vicende degli uomini. 

La fisica, la cosmologia, la teoria della conoscenza per Epicuro intanto hanno senso in quanto tramite esse l’uomo guadagna cognizione di sé e del suo posto nel mondo. L’uomo, una volta liberato dalla paura degli dei, dalla superstizione e dalla morte, può vivere con pienezza la sua vita terrena ed attingere in questo mondo una felicità proporzionata alla sua natura. Diogene Laerzio nella triplice partizione della dottrina epicurea, assegnando un posto all’«Etica» ne trasmette questa definizione: «L’etica, la disciplina di ciò che è da eleggersi e da fuggirsi, dei generi di vita e del fine». Domenico Pesce commenta questo passo dicendo che «sono così indicati i tre argomenti fondamentali che costituiscono in certo qual modo la struttura formale della filosofia etica di Epicuro ed in generale di quella ellenistica». 

Il “sommo bene” era stato un tema fondamentale della filosofia classica, specie dalla sofistica di Aristotele. Per altro verso, la dottrina del “sommo bene” era una cosa sola con quella del “fine ultimo”. Cicerone nel “De finibus” afferma che per “fine ultimo” si deve intendere ciò a cui ogni altra cosa si riferisce e che in se stesso non si riferisce ad altro. In questa definizione riecheggia pienamente Aristotele. D’altra parte secondo Cicerone tutti i filosofi si trovano d’accordo su questa definizione. Essa enuncia la struttura formale del “fine ultimo”, ma quel che si tratta di definire è il volto determinato e materiale di questo bene capace di sussistere in se stesso. 

La risposta di Epicuro a questo interrogativo volto a cogliere l’aspetto determinato del bene ultimo è la seguente: «Ogni essere vivente, appena nato, cerca il piacere e ne gode come del “sommo bene”, rifugge dal dolore il più possibile come dal sommo male; questo esso fa quando non ha ancora subìto nessuna depravazione, seguendo la sola natura come guida genuina. E tale comportamento non richiede ragionamento o dimostrazione: piacere e dolore sono stati di fatto, come la sensazione che il fuoco scalda e la neve è bianca o il miele è dolce» (Cic., De finibus, I, 9,30). 

L’oggettività del bene consiste nel cercare il "piacere" e nel fuggire il "dolore"; tuttavia un tale statuto è ancora troppo formale per poter connotare effettivamente lo stato di felicità o di pienezza. D’altra parte, nell’uomo la possibilità di godere e di soffrire è abbastanza variabile e ampia, e non consente facilmente di definire dove stanno il più e il meno, il massimo e il minimo. Per accedere ad una più esatta determinazione del “sommo bene”, Epicuro si appropria della nozione socratica di «salute» come stato durevole di benessere e quindi fa coincidere il bene «con una condizione oggettiva di equilibrio esperita come valore per l’assenza completa di ogni malessere o dolore».



Su questa base il bene più alto consiste propriamente in un piacere inalienabile. Tuttavia, per Epicuro, tale piacere, non può identificarsi con un bene ultrasensibile. D’altra parte, tutti i beni umani sono deperibili. Ne segue che il “sommo bene”, per l’uomo, può essere esperito solamente come “assenza di dolore”. Nella IIIMassima Capitale” Epicuro dice: «Il limite di grandezza dei piaceri è la detrazione di ogni dolore. E dovunque è piacere, e per tutto il tempo che persiste, non c’è né dolore fisico, né spirituale né ambedue». 

Piacere e dolore, come ogni altra realtà, hanno per gli epicurei origine fisica. L’origine del piacere è data dal movimento degli atomi: infatti, Lucrezio nel II libro del “De rerum natura” dice che quando gli elementi mossi «tornano al loro posto, si prova un “dolce piacere” (blanda voluptas)». Questa teoria del piacere, che in senso lato si può definire edonismo, è incentrata sul moto e fa capo propriamente ad Aristippo. Per Epicuro il piacere è anche questo, ma quello vero non consiste affatto in questo: infatti, il piacere per lui non risiede nell’eccitazione, bensì nella quiete o nell’assenza di movimento. Tale piacere è detto “catastematico”, dalla parola greca “Katastematikós” che significa appunto “calmo, posato, stabile” e si collega al verbo greco “kathístemi” che ha molti significati, di cui però almeno due sono importanti: “pervengo, giungo”. Tali verbi nella forma del perfetto prendono il significato di “son divenuto, arrivato”. 

Si ha piacere poiché si attinge il compimento: infatti proprio nel compimento risiede il piacere. Il piacere consiste allora nella quiete: l’assenza di dolore è assenza di movimento. Se così è, la pienezza del piacere si attinge nella caduta del desiderio. Questo stato di quiete si riflette nell’anima come mancanza di turbamento, come stato di “atarassía” che, nella lingua greca, vuol dire “calma, imperturbabilità”. 

La dottrina epicurea del piacere è diversa dalla dottrina aristotelica del «giusto mezzo»: non si tratta, infatti, di trovare un punto di equilibrio tra opposte tendenze, bensì di attenuare le tendenze medesime. Nell’etica aristotelica prevale il "dinamismo", in quella epicurea la "stasi". In questa luce, si può capire perché per Epicuro la felicità risiede più nella vecchiaia che non nella giovinezza. Il vecchio, infatti, non desidera più, ed ha una felicità compiuta poiché è definitivamente scampato al rischio della perdita. Così si legge nell’ “Esortazione 17”: «Non il giovane è felice, ma il vecchio che ha vissuto una vita bella; perché il giovane nel fiore dell’età è mutevole ludibrio della sorte; il vecchio invece giunse alla vecchiezza come a tranquillo porto, e di tutti i beni che prima aveva con dubbio sperato ora ha sicuro possesso nella tranquilla gioia del ricordo». 

Dunque, nella gioia del ricordo l’uomo raggiunge la felicità compiuta e questo è possibile, secondo Epicuro, nell’età senile quando, assopiti i desideri, si approda a tranquillo porto.  

L’ultimo timore da cui l’uomo si deve liberare è quello della morte. Falso timore questo: infatti la morte non è un male. La dimostrazione di quest’assunto prende avvio, ancora una volta, dalla “sensazione”. Nell’ “Epistola a Meneceo”, Epicuro scrive: «Abituati a pensare che nulla è per noi la morte, poiché ogni bene e ogni male è nella “sensazione”, e la morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza che nulla è per noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita; non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell’immortalità. Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c’è nel non vivere più. Perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché quando c’è sia dolorosa ma perché addolora l’attenderla; ciò che infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso». 

Date queste premesse è facile per Epicuro concludere in questi termini: «Il più terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più». Liberato dalla paura degli dei e dal timore della morte, sciolto, attraverso una perfetta ascesi, dall’impeto dei desideri, l’uomo può vivere quanto meno limitando il dolore. In tal modo può anche ottenere quella misura di felicità che gli è consentita in relazione alla sua natura. 

L’epicureismo ebbe un ampio sviluppo e godette di largo credito per molto tempo. Tuttavia i discepoli di Epicuro non apportarono alcun contributo alle dottrine del maestro, limitandosi a seguire fedelmente gli insegnamenti proposti. Questa fedeltà dottrinale, immune quindi da scismi e da sviluppi, unita alla costante venerazione della figura di Epicuro, garantì lunga vita alla scuola medesima (sino al IV sec. d.C.). Penetrato nel mondo romano, l’epicureismo ebbe con Lucrezio grandiosa celebrazione.  
               

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