L’origine della vita e
dell’uomo non sfugge al “meccanicismo” che regge le vicende del tutto. Mai è
esistita un età dell’oro, ma l’umanità, a fatica, in un lungo arco di tempo si
è evoluta. L’uomo ha appreso per “esperienza”
ed “imitazione”, ed è giunto così
all’attuale grado di civiltà. Tuttavia, è sbagliato ritenere che questo stato
sia duraturo: la sparizione del mondo vanificherà gli sforzi degli uomini e con
essi tutti i benefici che il progresso ha apportato. (D’altra parte, tali
benefici non sono di per sé sufficienti a dare la felicità). Nella natura
quindi non esiste nessun finalismo, né tanto meno gli dei si occupano delle
vicende degli uomini.
La fisica, la
cosmologia, la teoria della conoscenza per Epicuro intanto hanno senso
in quanto tramite esse l’uomo guadagna cognizione di sé e del suo posto nel
mondo. L’uomo, una volta liberato dalla paura degli dei, dalla superstizione e
dalla morte, può vivere con pienezza la sua vita terrena ed attingere in questo
mondo una felicità proporzionata alla sua natura. Diogene Laerzio nella
triplice partizione della dottrina epicurea, assegnando un posto all’«Etica» ne
trasmette questa definizione: «L’etica, la disciplina di ciò che è da eleggersi
e da fuggirsi, dei generi di vita e del fine». Domenico Pesce commenta questo
passo dicendo che «sono così indicati i tre argomenti fondamentali che
costituiscono in certo qual modo la struttura formale della filosofia etica di
Epicuro ed in generale di quella ellenistica».
Il “sommo bene” era stato un tema fondamentale della
filosofia classica, specie dalla sofistica di Aristotele. Per altro verso, la
dottrina del “sommo bene” era una cosa sola con quella del “fine ultimo”.
Cicerone nel “De finibus” afferma che
per “fine ultimo” si deve intendere ciò a cui ogni altra cosa si riferisce e
che in se stesso non si riferisce ad altro. In questa definizione riecheggia
pienamente Aristotele. D’altra parte secondo Cicerone tutti i filosofi si
trovano d’accordo su questa definizione. Essa enuncia la struttura formale del “fine
ultimo”, ma quel che si tratta di definire è il volto determinato e materiale
di questo bene capace di sussistere in se stesso.
La risposta di Epicuro a questo interrogativo volto a
cogliere l’aspetto determinato del bene ultimo è la seguente: «Ogni essere
vivente, appena nato, cerca il piacere e ne gode come del “sommo bene”, rifugge
dal dolore il più possibile come dal sommo male; questo esso fa quando non ha
ancora subìto nessuna depravazione, seguendo la sola natura come guida genuina.
E tale comportamento non richiede ragionamento o dimostrazione: piacere e
dolore sono stati di fatto, come la sensazione che il fuoco scalda e la neve è
bianca o il miele è dolce» (Cic., De
finibus, I, 9,30).
L’oggettività
del bene consiste nel cercare il "piacere" e nel fuggire il "dolore"; tuttavia
un tale statuto è ancora troppo formale per poter connotare effettivamente lo
stato di felicità o di pienezza. D’altra parte, nell’uomo la possibilità di
godere e di soffrire è abbastanza variabile e ampia, e non consente facilmente
di definire dove stanno il più e il meno, il massimo e il minimo. Per accedere
ad una più esatta determinazione del “sommo bene”, Epicuro si appropria della
nozione socratica di «salute» come stato durevole di benessere e quindi fa
coincidere il bene «con una condizione oggettiva di equilibrio esperita come
valore per l’assenza completa di ogni malessere o dolore».
Su questa base il bene più alto consiste propriamente in un
piacere inalienabile. Tuttavia, per Epicuro, tale piacere, non può
identificarsi con un bene ultrasensibile. D’altra parte, tutti i beni umani
sono deperibili. Ne segue che il “sommo bene”, per l’uomo, può essere esperito
solamente come “assenza di dolore”.
Nella III “Massima Capitale” Epicuro dice: «Il limite di grandezza dei piaceri
è la detrazione di ogni dolore. E dovunque è piacere, e per tutto il tempo che
persiste, non c’è né dolore fisico, né spirituale né ambedue».
Piacere e dolore, come ogni
altra realtà, hanno per gli epicurei origine fisica. L’origine del piacere è
data dal movimento degli atomi: infatti, Lucrezio nel II libro del “De rerum natura” dice che quando gli
elementi mossi «tornano al loro posto, si prova un “dolce piacere” (blanda
voluptas)». Questa teoria del piacere, che in senso lato si può definire
edonismo, è incentrata sul moto e fa capo propriamente ad Aristippo. Per
Epicuro il piacere è anche questo, ma quello vero non consiste affatto in
questo: infatti, il piacere per lui non risiede nell’eccitazione, bensì nella
quiete o nell’assenza di movimento. Tale piacere è detto “catastematico”, dalla parola greca “Katastematikós” che significa appunto “calmo, posato, stabile” e si collega al verbo greco “kathístemi” che ha molti significati, di
cui però almeno due sono importanti: “pervengo,
giungo”. Tali verbi nella forma del perfetto prendono il significato di “son divenuto, arrivato”.
Si ha piacere poiché si attinge
il compimento: infatti proprio nel compimento risiede il piacere. Il piacere
consiste allora nella quiete: l’assenza di dolore è assenza di movimento. Se
così è, la pienezza del piacere si attinge nella caduta del desiderio. Questo
stato di quiete si riflette nell’anima come mancanza di turbamento, come stato
di “atarassía” che, nella lingua greca, vuol dire “calma, imperturbabilità”.
La
dottrina epicurea del piacere è diversa dalla dottrina aristotelica del
«giusto mezzo»: non si tratta, infatti, di trovare un punto di equilibrio tra
opposte tendenze, bensì di attenuare le tendenze medesime. Nell’etica
aristotelica prevale il "dinamismo", in quella epicurea la "stasi". In questa luce,
si può capire perché per Epicuro la felicità risiede più nella vecchiaia che
non nella giovinezza. Il vecchio, infatti, non desidera più, ed ha una felicità
compiuta poiché è definitivamente scampato al rischio della perdita. Così si
legge nell’ “Esortazione 17”: «Non il
giovane è felice, ma il vecchio che ha vissuto una vita bella; perché il
giovane nel fiore dell’età è mutevole ludibrio della sorte; il vecchio invece
giunse alla vecchiezza come a tranquillo porto, e di tutti i beni che prima
aveva con dubbio sperato ora ha sicuro possesso nella tranquilla gioia del
ricordo».
Dunque, nella gioia del ricordo l’uomo raggiunge la felicità compiuta
e questo è possibile, secondo Epicuro, nell’età senile quando, assopiti i
desideri, si approda a tranquillo porto.
L’ultimo
timore da cui l’uomo si deve liberare è quello della morte. Falso timore
questo: infatti la morte non è un male. La dimostrazione di quest’assunto
prende avvio, ancora una volta, dalla “sensazione”. Nell’ “Epistola a Meneceo”, Epicuro scrive: «Abituati a pensare che nulla
è per noi la morte, poiché ogni bene e ogni male è nella “sensazione”, e la
morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza che nulla è per noi
la morte rende gioiosa la mortalità della vita; non aggiungendo infinito tempo,
ma togliendo il desiderio dell’immortalità. Niente c’è infatti di temibile nella
vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c’è nel non vivere
più. Perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché quando c’è sia
dolorosa ma perché addolora l’attenderla; ciò che infatti, presente non ci
turba, stoltamente ci addolora quando è atteso».
Date queste premesse è facile per Epicuro concludere in
questi termini: «Il più terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per
noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non
siamo più». Liberato dalla paura degli dei e dal timore della morte, sciolto,
attraverso una perfetta ascesi, dall’impeto dei desideri, l’uomo può vivere
quanto meno limitando il dolore. In tal modo può anche ottenere quella misura
di felicità che gli è consentita in relazione alla sua natura.
L’epicureismo ebbe un ampio
sviluppo e godette di largo credito per molto tempo. Tuttavia i discepoli di
Epicuro non apportarono alcun contributo alle dottrine del maestro, limitandosi
a seguire fedelmente gli insegnamenti proposti. Questa fedeltà dottrinale,
immune quindi da scismi e da sviluppi, unita alla costante venerazione della
figura di Epicuro, garantì lunga vita alla scuola medesima (sino al IV sec. d.C.). Penetrato
nel mondo romano, l’epicureismo ebbe con Lucrezio grandiosa celebrazione.
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