sabato 29 settembre 2018

GIOELE



Profeta dal nome simile a un programma (“JHWH è Dio”), Gioele non offre nel suo breve libro indicazioni biografiche dirette: Linguaggio e temi lo fanno collocare in epoca tarda, dal V al IV secolo a.C. La sua opera è sostanzialmente affidata a due grandi scene. Nella prima (capitoli 1-2) si ha una vivace rappresentazione di due piaghe endemiche dell’agricoltura orientale, la siccità e l’invasione delle cavallette. Le torme di questi insetti, che con i loro sciami oscurano il cielo e trasformano in deserto i campi coltivati, portando ovunque carestia e desolazione, diventano il simbolo di un’invasione militare che tutto annienta.

L’immagine che in pratica vale anche per la nostra lingua, che accosta le “cavallette” ai “cavalli” e alla “cavalleria”, è un segno del pericolo da parte di un nemico e del relativo giudizio che Dio sta operando nei confronti del suo popolo. Dopo la descrizione di una solenne liturgia penitenziale, per ottenere la liberazione divina da questo flagello, si passa alla seconda scena (capitoli 3-4), di taglio apocalittico. L’avvio del capitolo 3 è stato, tra l’altro, citato da Pietro nel suo discorso di Pentecoste (Atti degli Apostoli 2, vv.17-21).

Nell’era perfetta della salvezza, quando si apriranno gli ultimi giorni, lo Spirito del Signore non sarà più effuso solo sui profeti, sui capi, sui re, sul Messia, ma sull’intero popolo di Dio, dai giovani agli anziani, dagli uomini alle donne, dai liberi agli schiavi. Ma sugli “empi” si abbatterà la tempesta della collera divina, che inaugurerà il suo giudizio nella Valle della decisione o Valle di Giosafat, situata a oriente dell’antica area del tempio e della città di Gerusalemme.

La parola “Giosafat” in ebraico significa “il Signore giudica”: esprime, perciò, simbolicamente l’evento finale della storia, descritto dal profeta con colori accesi, che saranno ripresi in seguito dall’arte e dalla letteratura. L’identificazione della Valle di Giosafat con quella orientale di Gerusalemme (la valle del Cedron) è avvenuta nel IV secolo d.C. e ha fatto sì che essa si popolasse di migliaia di sepolcri di fedeli ebrei, che hanno voluto attendere là il giudizio finale divino.

Nota Finale

Quando un immenso sciame di cavallette, piaga endemica dell’agricoltura orientale, invade le campagne di Giuda, il profeta Gioele interpreta l’evento come un annuncio del giorno del giudizio finale, e il devastante esercito di insetti diventa una potente immagine dell’esercito di Dio. Il pressante invito del profeta al pentimento, espresso in un linguaggio apocalittico, è seguito da una grandiosa visione del futuro, quando il Signore compenserà il suo popolo per tutto ciò che ha sofferto, annienterà i suoi nemici e costituirà il nuovo mondo. 

Di Gioele non sappiamo quasi nulla e il suo libro viene attribuito da molti studiosi al periodo post-esilico, attorno agli anni 400-350 a.C. Il famoso passo che profetizza l’effondersi dello spirito divino su ogni uomo è citato da Pietro negli Atti degli Apostoli come presagio del dono dello Spirito Santo durante la festa di Pentecoste.



sabato 22 settembre 2018

OSEA



Questo profeta – il cui nome rimanda in ebraico alla “salvezza” offerta dal Signore – apre la serie dei cosiddetti “profeti minori”. In realtà, la sua è una testimonianza di alto profilo e si basa su un’esperienza personale che viene assunta a simbolo religioso per tutto il popolo ebraico. Vissuto nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. nel regno settentrionale di Israele, Osea aveva sposato una donna, Gomer, figlia di Diblain (1,3), la quale era una prostituta (forse una sacerdotessa dei culti degli indigeni cananei, culti della fertilità a sfondo sessuale).

I primi tre capitoli del libro sviluppano in modo molto intenso questa storia personale. Tuttavia il profeta la trasfigura facendola diventare una parabola dell’intera vicenda del popolo di Israele: di fronte all’amore fedele da parte del Signore la “sposa” Israele aveva risposto con l’infedeltà dell’idolatria cananea, bollata appunto come prostituzione e adulterio.

Osea operava in questo modo una svolta: la raffigurazione dell’alleanza tra JHWH e Israele non era più modellata, come al Sinai, sulla base di un rapporto tra un re e un suo vassallo, un rapporto “politico” tra due personaggi. Era, invece, rappresentata come una relazione d’amore tra due persone, con aspetti di intimità, di comunione, di spontaneità. Questo tema nuziale verrà ripreso dai profeti successivi in forme diverse e costituirà un simbolo significativo anche per il Nuovo Testamento. Tra l’altro, nel capitolo 11 lo stesso Osea assumerà un’altra immagine, quella paterna (o materna) per definire il rapporto tra Dio e l’uomo.

Il resto del libro (capitoli 4-14) sembra essere una raccolta eterogenea di oracoli, in cui predomina il giudizio divino nei confronti del popolo idolatra e infedele. Il profeta ripete anche il tipico annunzio del culto unito alla vita e alla giustizia: «Io voglio l’amore, non i sacrifici» (6,6), dirà, e Gesù raccoglierà questo appello divino (Matteo 9,13; 12,7). Tuttavia il giudizio si apre alla speranza: se Israele si pente e si converte, Dio risponderà con la sua grazia e il suo amore e la gioia inonderà tutta la terra (capitolo 14). Nell’interno del libro di Osea non mancano allusioni o riferimenti alla vita politica del regno ebraico di Samaria nell’VIII secolo a.C.

Nota Finale

Osea, profeta dell’VIII sec. a.C., che svolge la sua missione nel regno settentrionale di Israele, vede la sua dolorosa vicenda coniugale con la moglie fedifraga Gomer come la parabola dell’amore costante e appassionato di Dio per l’infedele nazione d’Israele. Preoccupato per l’idolatria diffusa tra il popolo e per le ingiustizie subite dai poveri, Osea lancia la sua protesta contro le innumerevoli infedeltà di Israele, su cui incombe il castigo divino. Il libro si chiude tuttavia con la promessa che Israele rivivrà, perché l’amore di Dio, che il profeta descrive anche con immagini paterne, non potrà mai spegnersi. 

Come l’altro profeta a lui contemporaneo, Amos, Osea è particolarmente attento al tema della «giustizia» ed è il primo scrittore biblico a descrivere la relazione tra Dio e il suo popolo in termini nuziali: questo simbolismo verrà trasferito nel Nuovo Testamento con l’immagine della Chiesa sposa di Cristo.





sabato 15 settembre 2018

DANIELE



Inserito dalla tradizione cristiana tra i profeti “maggiori”, il libro di Daniele (“Dio giudica”) è in realtà uno scritto tardivo, appartenente alla cosiddetta “apocalittica”, una letteratura e una teologia fiorite a partire dal III secolo a.C. nel giudaismo e che avrà grande successo. La sua rappresentazione del mondo è divisa tra terra e cielo in modo netto, quella dell’umanità in bene e male, quella della storia tra il presente dominato da Satana e il futuro retto dal Signore con i giusti.

Anche se il libro è ambientato ai tempi di Nabucodonosor e dei suoi successori (VI secolo a.C.), in realtà l’epoca a cui fa riferimento allusivamente è quella della rivolta dei Maccabei (II secolo a.C.) contro il potere oppressivo della Siria ellenistica. Protagonista è un ebreo esemplare, Daniele, circondato da amici. Egli sfida il potere imperiale, che verrà condannato da Dio stesso (alcune scene, come quelle del sogno di Nabucodonosor, della fornace di fuoco o della fossa dei leoni e del banchetto del re Baldassar sono diventate giustamente famose).

Dal capitolo 7 in avanti si hanno, invece, visioni, cioè rivelazioni divine interpretate da un angelo e spesso popolate di mostri e figure misteriose, simbolo del potere oppressivo schiacciato da Dio. Particolare rilievo ha quella del «Figlio d’uomo» (7,13-14), che riceve un potere universale ed eterno da parte dell’Anziano, cioè del Signore: forse questo personaggio incarna l’Israele fedele glorificato da Dio, ma la tradizione giudaica e cristiana l’ha interpretato come figura del Messia, e Gesù si è arditamente applicato tale titolo (vedi, ad esempio, Matteo 26,64).

C’è un aspetto curioso da segnalare nel tessuto del libro. Il volume di Daniele è in pratica scritto in tre lingue: l’ebraico nei capitoli 1 e 8-12, l’aramaico (lingua dominante nel periodo successivo all’esilio babilonese) da 2,4 fino a 7,28, mentre in greco sono stati aggiunti i passi di 3, *24-*90 e dei capitoli 13-14 (sono le cosiddette parti deuterocanoniche, perché non accolte nel Canone ebraico e protestante). Celebri, oltre al citato capitolo 7, sono anche la particolare interpretazione delle «settanta settimane o anni» del capitolo 9, sulla base di una profezia di Geremia (25,11-12), e la storia di Susanna, vittima innocente salvata da Daniele (capitolo 13).

Nota Finale

Più che un testo profetico, il libro di Daniele appartiene alla cosiddetta “letteratura apocalittica” che si propone di descrivere un mondo nuovo destinato ai giusti, al di là delle difficoltà e delle miserie contingenti. Due sono i temi ricorrenti nelle storie di Daniele e dei suoi compagni, ambientate fittiziamente durante l’esilio babilonese (VI secolo a.C.): il primo è quello della «fedeltà alla religione ebraica» in un ambente estraneo e ostile, il secondo è quello della «saggezza» di Daniele che, ispirato da Dio, si dimostra superiore a tutti i dotti di Babilonia. Il libro contiene anche una serie di visioni che, attraverso figure simboliche, presentano la caduta dei babilonesi a opera dei Persiani, le conquiste folgoranti di Alessandro Magno, la divisione del suo impero, la lunga lotta fra Tolomei (“il regno di mezzogiorno”) e Seleucidi (“il regno di settentrione”) per il controllo della Palestina e l’avvento dell’oppressore Antioco IV Epifane (“un uomo abbietto”).

Il libro, che molti studiosi ritengono sia stato compilato da un redattore ignoto proprio durante le persecuzioni di Antioco IV contro gli Ebrei (168-164 a.C.), vuole incoraggiare il lettore a essere fedele alla legge di Dio e celebrare il dominio del Signore sulla storia del mondo. La versione greca dell’opera contiene alcune parti, come il cantico dei tre giovani nella fornace ardente e la storia di Susanna, che non sono presenti nel testo ebraico e aramaico giunto fino a noi, ma che sono state accolte nella bibbia dalla tradizione cattolica.  

  

sabato 8 settembre 2018

EZECHIELE



La vicenda profetica del sacerdote Ezechiele (“Dio è forte”) era iniziata nel 593-592 a.C. lungo uno dei canali di Babilonia, ove da cinque anni viveva, in seguito alla prima deportazione eseguita dai Babilonesi nel 597-596 a.C. (vedi 2Re 24,10-17). Là il Signore, in una maestosa visione, l’aveva chiamato a una missione di giudizio. Spazzando via tutte le illusioni degli Ebrei esuli a Babilonia e di quelli rimasti ancora a Gerusalemme, il profeta nei primi 24 capitoli del suo libro annunzia il crollo irrevocabile del regno di Giuda.

Egli lo fa non solo mediante una predicazione espressa con immagini molto vivaci e potenti, ma anche con tutta una serie di azioni simboliche: esse sono simili a recite pubbliche che, nello stile del mondo orientale, hanno lo scopo di esaltare e mostrare come efficace l’annunzio che si sta per comunicare (esemplare è, fra le altre, la scena della “tavoletta dell’assedio” nei capitoli 4-5). La caduta di Gerusalemme (586 a.C.) segna una svolta radicale nella missione del profeta.

È ciò che appare in molte parti dei capitoli 33-39 (si legga il capitolo 36, ove si riprende il tema della “nuova alleanza” già cantato da Geremia, o l’indimenticabile capitolo 37 con la celebre visione degli scheletri aridi che riprendono vita). Ma è nella finale dei capitoli 40-48 che si ha il disegno della mappa della terra santa e di Gerusalemme risorte. Con minuziosità “sacerdotale” Ezechiele delinea il tempio del futuro, il suo culto e la sua comunità, mentre un fiume d’acqua viva, uscito dal tempio risorto, feconderà tutta la terra d’Israele, riportando vita e speranza.

Una piccola serie di capitoli (25-32) è, infine, dedicata a sette nazioni diverse, alle quali viene indirizzato un severo messaggio divino: grandiosi e interessanti sono gli oracoli dei capitoli 27-28 per la città fenicia di Tiro. Molti sono i temi spirituali che Ezechiele affronta: pensiamo alla responsabilità personale di ogni uomo nei confronti del peccato e della salvezza (capitolo 18), al motivo del buon pastore atteso (capitolo 34), alla citata alleanza con Dio nel cuore rinnovato e nello spirito di Dio (capitoli 11 e 36), all’uso di immagini che diverranno importanti, nel giudaismo successivo, per quella corrente di pensiero e di scritti che verrà chiamata “apocalittica”, mentre le ultime pagine influiranno su quella “Tradizione Sacerdotale” che abbiamo già incontrato leggendo i primi libri della Bibbia.

Nota Finale

Nel 597 a.C., undici anni prima della caduta di Gerusalemme, Ezechiele viene deportato, con altri prigionieri ebrei, a Babilonia, dove Dio lo consacra profeta durante una grandiosa visione, chiamandolo a predicare ai suoi compagni d’esilio: missione che Ezechiele adempirà per ben venticinque anni. Uomo d’inflessibile volontà e tenacia, egli non si limita a predicare, ma compie anche numerose azioni simboliche che prefigurano il crollo di Gerusalemme a causa dei suoi peccati. Gli oracoli di Ezechiele si dividono essenzialmente in tre parti: l’ammonimento al suo popolo a pentirsi, la condanna contro le nazioni pagane e le profezie sulla restaurazione di Israele. 

Provenendo da una famiglia sacerdotale ed essendo egli stesso sacerdote, il profeta mostra un particolare interesse per la riedificazione del tempio di Gerusalemme dopo l’esilio. Il suo messaggio di speranza per una nuova terra, una nuova Gerusalemme e un nuovo tempio non più contaminati dal peccato diverrà una specie di guida spirituale per la ricostruzione della nazione ebraica. 

Fra le tesi teologiche esposte nel libro di Ezechiele, una delle principali è quella che rigetta il principio secondo cui le colpe dei padri ricadono sui figli e afferma invece la responsabilità individuale davanti a Dio. 

Il libro, pur avendo subito rielaborazioni e ampliamenti, è sostanzialmente attribuito a Ezechiele, il quale ha vissuto e descritto la situazione del suo tempo.