Alla filosofia platonica
della politica è strettamente connessa la filosofia platonica dell’«arte», cioè quella
che, con termine moderno, potrebbe essere chiamata l’«estetica» di Platone e
che fa di questo filosofo il fondatore dell’«estetica». Nel celebre libro X
della “Repubblica”, Platone dichiara
infatti di voler bandire dal suo Stato ideale i poeti e gli artisti in genere,
e spiega le ragioni di quest’ultima stranezza del suo pensiero politico. La
poesia, il cui massimo rappresentante è Omero, padre dei grandi tragici, così
come l’arte in generale, per esempio la pittura, sono, secondo Platone,
essenzialmente imitazione (mímesis).
Questa è la prima definizione
dell’«arte» che sia mai stata data ed è la causa del giudizio negativo, come
vedremo subito, che Platone pronuncia su di essa. Un pittore, spiega il
filosofo, quando dipinge, ad esempio, un letto, imita con il disegno e con i
colori il letto che esiste nella realtà, cioè il letto costruito dal falegname.
Ma questo, in base alla “Dottrina delle idee”, è a sua volta imitazione, cioè
copia, dell’idea del letto, vale a dire di quel letto ideale, unico e
immutabile, che è stato costruito, per così dire, dal Dio (X, 597 a-d). Ora,
poiché per Platone il vero letto, cioè la vera realtà, è quest’ultimo, e quello
sensibile è soltanto una realtà apparente, il pittore, imitando il letto
sensibile, cioè la realtà apparente, si occupa di una realtà non di secondo ordine,
ma addirittura di terzo ordine, che è ancora meno vera della realtà sensibile
(X, 598 a – 599 a).
Dal punto di
vista della verità dunque, cioè della conoscenza, l’«arte» non ha
nessun valore, non ci fa conoscere nulla. Ad esempio, dalla poesia di Omero non
si impara né come devono essere fatte le leggi né come si fa la guerra, benché
Omero parli di Stati e di guerre. Gli artisti, insomma, non si intendono
veramente di nulla, non hanno nulla da insegnare. La facoltà che essi adoperano
per produrre le loro opere non è l’intelligenza, cioè la parte razionale
dell’anima, ma un’altra, ad essa inferiore (probabilmente l’anima impulsiva o
appetitiva) (X, 604 b – 605 b). Si vede in tal modo come questo primo giudizio
negativo, che Platone dà dell’«arte», sia formulato da un punto di vista non
specificatamente estetico, bensì conoscitivo: l’«arte» non ha valore se presume
di essere conoscenza della realtà, cioè scienza.
Da ciò consegue anche il secondo giudizio negativo che
Platone pronuncia sull’«arte», quello che viene formulato dal punto di vista
etico e politico. In quanto non ci fa conoscere la verità e si rivolge alle
parti non razionali dell’anima, l’«arte» – afferma Platone – è immorale, cioè
alimenta tendenze irrazionali, passioni, desideri impuri. Per esempio, la
tragedia fa provare compassione, piangere e lagnarsi per le sventure altrui,
inducendo in tal modo l’anima a fare altrettanto per le proprie, mentre sarebbe
meglio imparare a controllarsi ed a frenare tali tendenze.
Analogamente la commedia fa divertire e ridere per le
buffonate altrui, inducendo l’anima a comportamenti ridicoli, che invece
bisognerebbe evitare. «Simili effetti produce in noi – scrive Platone –
l’imitazione poetica anche rispetto ai piaceri amorosi, alla collera e a tutti
gli “appetiti” dolorosi e piacevoli dell’anima nostra, quelli che, come
diciamo, accompagnano ogni nostra azione. Li fomenta e li nutre, mentre
bisognerebbe disseccarli. Affida loro il governo delle nostre persone, mentre
dovrebbero essi venire governati, affinché potessimo divenire migliori e più
felici anziché peggiori e più disgraziati» (X, 605 a-e). Si tratta, come si
vede, di una condanna esplicitamente morale. Per tutti questi motivi Platone
propone di bandire dal suo Stato ideale artisti e poeti, trasformando in tal
modo la condanna conoscitiva ed etica in condanna anche politica.
Tuttavia, proprio il vigore di
queste condanne rivela che il filosofo ha compreso la potenza suggestiva
dell’«arte», cioè la sua capacità di influire sull’anima, facendo leva sulla
parte non razionale di essa. Si può dire pertanto che Platone si è avviato a
riconoscere lo specifico dell’«arte», ciò che la fa essere un’attività distinta
sia da quelle di tipo conoscitivo che da quelle di tipo pratico. Di tale
consapevolezza è prova anzitutto il fatto che, nella stessa “Repubblica”, dove illustra l’educazione
dei guardiani, Platone raccomanda che si faccia ricorso, per la formazione
dell’anima, alla musica, mostrando in tal modo di riconoscere all’«arte» un
potere di suggestione non soltanto negativo, ma anche positivo.
Non altrettanto, però, Platone dice
della musica, cioè del canto e della melodia, che non è propriamente
una forma di imitazione. In essa possono essere negative certe parole, o certe
forme di armonia, come quelle lamentose e quelle molli (cioè le armonie
“ionica” e “lidia”), ma ne andranno conservate altre, che suscitano fermezza o
serenità (cioè quelle “dorica” e “frigia”). Anche tra i ritmi ve ne sono alcuni
di ineleganti, perché irregolari, ed altri di eleganti, perché regolari. Dunque
è possibile orientare la musica e l’educazione che su di essa si fonda verso un
ideale di bellezza, euritmia, armonia ed eleganza (III, 398 c – 403 c).
Ma il documento più chiaro della
percezione che Platone ha avuto dello specifico estetico è un breve dialogo, lo
“Ione”, concernente l’arte dei
“rapsodi”, cioè di quanti andavano cantando la poesia di Omero e di altri
poeti. Colui che canta i versi di Omero, afferma Platone in questo dialogo, non
lo fa in virtù di un’arte, ma di un «potere divino», simile a quello proprio
del “magnete”, che trasmette la forza di attrazione ai successivi anelli di una
catena. La fonte di questo potere è la “Musa”, cioè la divinità stessa, la
quale lo trasmette ai poeti ispirandoli, cioè penetrando in essi, rendendoli
invasati dalla divinità (questo è il significato del termine «entusiasmo»).
Il carattere positivo
dell’ispirazione divina in genere, e quindi anche di quella artistica, è
ribadito da Platone nel “Fedro”. Qui
egli fa l’elogio dell’amore, considerato come una specie di delirio (manía),
che è dono degli dei. Altre forme di delirio sono la capacità di profetizzare,
che è ugualmente un’ispirazione divina, e la capacità di poetare. Infine, nel “Simposio”, Platone sembra quasi intuire
il carattere creativo dell’«arte», quale sarà scoperto e messo in evidenza dalla
moderna estetica romantica. Qui, infatti, egli afferma che, come l’amore per i
bei corpi si esprime nella tendenza a generare “sessualmente”, così l’amore per
le belle anime si esprime nella tendenza a generare “spiritualmente”, cioè
l’amore per il bello è «generazione nel bello» (Simposio, 206).
Nota finale: L’«arte», non più
divina manía (Ione e Fedro) e neppure creazione «nel» bello (Simposio), si è trasformata nella “Repubblica” platonica in «imitazione del
modo sensibile», copia di una copia. Da ciò la condanna conoscitiva e morale di
ogni espressione artistica in quanto allontana l’uomo dalla vera realtà,
impedendogli l’ascesa alla bellezza intelligibile.
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