sabato 10 dicembre 2016

LA FILOSOFIA PLATONICA DELL’ARTE


Alla filosofia platonica della politica è strettamente connessa la filosofia platonica dell’«arte», cioè quella che, con termine moderno, potrebbe essere chiamata l’«estetica» di Platone e che fa di questo filosofo il fondatore dell’«estetica». Nel celebre libro X della “Repubblica”, Platone dichiara infatti di voler bandire dal suo Stato ideale i poeti e gli artisti in genere, e spiega le ragioni di quest’ultima stranezza del suo pensiero politico. La poesia, il cui massimo rappresentante è Omero, padre dei grandi tragici, così come l’arte in generale, per esempio la pittura, sono, secondo Platone, essenzialmente imitazione (mímesis). 

Questa è la prima definizione dell’«arte» che sia mai stata data ed è la causa del giudizio negativo, come vedremo subito, che Platone pronuncia su di essa. Un pittore, spiega il filosofo, quando dipinge, ad esempio, un letto, imita con il disegno e con i colori il letto che esiste nella realtà, cioè il letto costruito dal falegname. Ma questo, in base alla “Dottrina delle idee”, è a sua volta imitazione, cioè copia, dell’idea del letto, vale a dire di quel letto ideale, unico e immutabile, che è stato costruito, per così dire, dal Dio (X, 597 a-d). Ora, poiché per Platone il vero letto, cioè la vera realtà, è quest’ultimo, e quello sensibile è soltanto una realtà apparente, il pittore, imitando il letto sensibile, cioè la realtà apparente, si occupa di una realtà non di secondo ordine, ma addirittura di terzo ordine, che è ancora meno vera della realtà sensibile (X, 598 a – 599 a). 

Dal punto di vista della verità dunque, cioè della conoscenza, l’«arte» non ha nessun valore, non ci fa conoscere nulla. Ad esempio, dalla poesia di Omero non si impara né come devono essere fatte le leggi né come si fa la guerra, benché Omero parli di Stati e di guerre. Gli artisti, insomma, non si intendono veramente di nulla, non hanno nulla da insegnare. La facoltà che essi adoperano per produrre le loro opere non è l’intelligenza, cioè la parte razionale dell’anima, ma un’altra, ad essa inferiore (probabilmente l’anima impulsiva o appetitiva) (X, 604 b – 605 b). Si vede in tal modo come questo primo giudizio negativo, che Platone dà dell’«arte», sia formulato da un punto di vista non specificatamente estetico, bensì conoscitivo: l’«arte» non ha valore se presume di essere conoscenza della realtà, cioè scienza.

Da ciò consegue anche il secondo giudizio negativo che Platone pronuncia sull’«arte», quello che viene formulato dal punto di vista etico e politico. In quanto non ci fa conoscere la verità e si rivolge alle parti non razionali dell’anima, l’«arte» – afferma Platone – è immorale, cioè alimenta tendenze irrazionali, passioni, desideri impuri. Per esempio, la tragedia fa provare compassione, piangere e lagnarsi per le sventure altrui, inducendo in tal modo l’anima a fare altrettanto per le proprie, mentre sarebbe meglio imparare a controllarsi ed a frenare tali tendenze. 

Analogamente la commedia fa divertire e ridere per le buffonate altrui, inducendo l’anima a comportamenti ridicoli, che invece bisognerebbe evitare. «Simili effetti produce in noi – scrive Platone – l’imitazione poetica anche rispetto ai piaceri amorosi, alla collera e a tutti gli “appetiti” dolorosi e piacevoli dell’anima nostra, quelli che, come diciamo, accompagnano ogni nostra azione. Li fomenta e li nutre, mentre bisognerebbe disseccarli. Affida loro il governo delle nostre persone, mentre dovrebbero essi venire governati, affinché potessimo divenire migliori e più felici anziché peggiori e più disgraziati» (X, 605 a-e). Si tratta, come si vede, di una condanna esplicitamente morale. Per tutti questi motivi Platone propone di bandire dal suo Stato ideale artisti e poeti, trasformando in tal modo la condanna conoscitiva ed etica in condanna anche politica. 

Tuttavia, proprio il vigore di queste condanne rivela che il filosofo ha compreso la potenza suggestiva dell’«arte», cioè la sua capacità di influire sull’anima, facendo leva sulla parte non razionale di essa. Si può dire pertanto che Platone si è avviato a riconoscere lo specifico dell’«arte», ciò che la fa essere un’attività distinta sia da quelle di tipo conoscitivo che da quelle di tipo pratico. Di tale consapevolezza è prova anzitutto il fatto che, nella stessa “Repubblica”, dove illustra l’educazione dei guardiani, Platone raccomanda che si faccia ricorso, per la formazione dell’anima, alla musica, mostrando in tal modo di riconoscere all’«arte» un potere di suggestione non soltanto negativo, ma anche positivo. 

Non altrettanto, però, Platone dice della musica, cioè del canto e della melodia, che non è propriamente una forma di imitazione. In essa possono essere negative certe parole, o certe forme di armonia, come quelle lamentose e quelle molli (cioè le armonie “ionica” e “lidia”), ma ne andranno conservate altre, che suscitano fermezza o serenità (cioè quelle “dorica” e “frigia”). Anche tra i ritmi ve ne sono alcuni di ineleganti, perché irregolari, ed altri di eleganti, perché regolari. Dunque è possibile orientare la musica e l’educazione che su di essa si fonda verso un ideale di bellezza, euritmia, armonia ed eleganza (III, 398 c – 403 c). 

Ma il documento più chiaro della percezione che Platone ha avuto dello specifico estetico è un breve dialogo, lo “Ione”, concernente l’arte dei “rapsodi”, cioè di quanti andavano cantando la poesia di Omero e di altri poeti. Colui che canta i versi di Omero, afferma Platone in questo dialogo, non lo fa in virtù di un’arte, ma di un «potere divino», simile a quello proprio del “magnete”, che trasmette la forza di attrazione ai successivi anelli di una catena. La fonte di questo potere è la “Musa”, cioè la divinità stessa, la quale lo trasmette ai poeti ispirandoli, cioè penetrando in essi, rendendoli invasati dalla divinità (questo è il significato del termine «entusiasmo»). 

Il carattere positivo dell’ispirazione divina in genere, e quindi anche di quella artistica, è ribadito da Platone nel “Fedro”. Qui egli fa l’elogio dell’amore, considerato come una specie di delirio (manía), che è dono degli dei. Altre forme di delirio sono la capacità di profetizzare, che è ugualmente un’ispirazione divina, e la capacità di poetare. Infine, nel “Simposio”, Platone sembra quasi intuire il carattere creativo dell’«arte», quale sarà scoperto e messo in evidenza dalla moderna estetica romantica. Qui, infatti, egli afferma che, come l’amore per i bei corpi si esprime nella tendenza a generare “sessualmente”, così l’amore per le belle anime si esprime nella tendenza a generare “spiritualmente”, cioè l’amore per il bello è «generazione nel bello» (Simposio, 206). 

Nota finale: L’«arte», non più divina manía (Ione e Fedro) e neppure creazione «nel» bello (Simposio), si è trasformata nella “Repubblica” platonica in «imitazione del modo sensibile», copia di una copia. Da ciò la condanna conoscitiva e morale di ogni espressione artistica in quanto allontana l’uomo dalla vera realtà, impedendogli l’ascesa alla bellezza intelligibile.


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