sabato 15 dicembre 2018

MALACHIA



Posto alla fine della raccolta dei profeti, Malachia – il cui nome potrebbe essere anche uno pseudonimo, “messaggero di JHWH” (vedi 3,1) – visse forse nel V secolo a.C. e riflette il clima della comunità ebraica al tempo di Esdra e Neemia. Ma lo apre anche su altri orizzonti più vasti e protesi verso un futuro messianico: è per questo che Malachia è stato citato ben dodici volte dal Nuovo Testamento e un suo passo di sapore universalistico (1,11) è stato applicato, dai primi commentatori cristiani e dal Concilio di Trento, all’Eucarestia.

Dopo una celebrazione dell’amore di Dio che ha scelto Giacobbe-Israele e rigettato Esaù-Edom (1,2-5), Malachia polemizza con la freddezza e l’indifferenza dei sacerdoti nell’espletare le loro funzioni liturgiche (1,6-2,9) e con gli Israeliti che divorziano dalle loro mogli per sposare donne straniere (2,10-16). Si apre, così, una pagina grandiosa che dipinge il «giorno del Signore» nel quale si celebrerà un giudizio di purificazione dal male (2,17-3,5).

Si passa poi a una lezione concreta: le cavallette e la scarsità del raccolto sono viste come segno della punizione divina a causa dell’infedeltà nel versare le decime al tempio (3,6-12). Ai giusti scoraggiati il profeta annunzia l’irruzione di Dio nella storia umana per far finalmente trionfare le vittime delle prepotenze. Questa irruzione sarà preparata dal ritorno sulla terra di Elia, una promessa che Gesù applicherà alla figura di Giovanni Battista (3,6-24).

Pieno di Zelo per la santità dei sacerdoti e per il loro ideale di dedizione alla legge del Signore, impegnato nella perfetta osservanza del culto e nella moralità dei costumi, sostenitore della purezza del matrimonio, Malachia riflette un momento storico non facile, segnato da una pratica religiosa formalistica e da una vita morale in crisi. È questa l’atmosfera di torpore che egli vuole scuotere con l’annunzio del giudizio imminente di Dio e che anche Esdra e Neemia avevano cercato di vincere introducendo maggior rigore nell’osservanza della legge.

Nota Finale

Il nome ebreo Malachia, che significa “mio messaggero”, probabilmente è solo l’appellativo di un profeta rimasto anonimo. Chiunque sia il redattore del libro, egli – rivolgendosi agli Ebrei nel V secolo a.C., alcuni decenni dopo il loro ritorno dall’esilio babilonese e la ricostruzione del tempio – rimprovera non soltanto il popolo ma anche i sacerdoti per la rilassatezza dei costumi e per le infedeltà all’alleanza. 

Come Zaccaria, Malachia parla del giorno del Signore, in cui Dio benedirà i giusti e condannerà i malvagi. Il nuovo elemento introdotto dal vaticinio di Malachia è la promessa che nel grande giorno del giudizio finale sarà inviato un messaggero per preparare la venuta del Signore e purificare il culto, messaggero che gli evangelisti del Nuovo Testamento hanno identificato in Giovanni Battista. Un altro dato di questo profeta, riguardante “l’oblazione pura” offerta in ogni luogo della terra, è stato liberamente applicato dalla tradizione cattolica all’Eucarestia, il sacrificio perfetto e universale.



venerdì 7 dicembre 2018

ZACCARIA



Sotto l’unico nome di Zaccaria (che in ebraico significa: “Il Signore ricorda”) si raccolgono due profeti diversi, così come è accaduto al libro di Isaia che comprendeva gli scritti di almeno tre differenti profeti. Il cosiddetto Primo Zaccaria occupa i capitoli 1-8 del libro: egli inizia la sua predicazione nell’ottobre-novembre del 520 a.C. È quindi contemporaneo del profeta Aggeo, ma la sua scrittura riflette maggiormente quella di un grande profeta dell’esilio, Ezechiele.

Gli oracoli del Primo Zaccaria sono, perciò, da collegare ai primi anni della ricostruzione, dopo l’esilio babilonese, ed evocano i due personaggi principali, il capo politico Zorobabele e il sacerdote Giosuè.
Le sue pagine sono in prosa e sono dominate da otto visioni surreali (capitoli 1-6) poste in coppia tra loro, ma con la prima e l’ultima reciprocamente coordinate. Eccone, allora, la sequenza simbolica logica.

Prima visione: i cavalieri (1,7-17); a essa si associa l’ottava: i cocchi (6,1-8). La seconda visione delle corna e degli artigiani (2,1-4) si raccorda a quella del “geometra” (2,5-9). La quarta, che mette in scena le vesti sacerdotali di Giosuè (3,1-10), va insieme con la quinta del candelabro e degli olivi (4,1-14). La sesta, che introduce un rotolo volante (5,1-4), si connette con la settima, che presenta un moggio enorme da cui esce una donna, l’«iniquità» (5,5-11). Non mancano elementi suggestivi come quello del «servo Germoglio» (3,8), una figura di taglio messianico.

Con il secondo Zaccaria (capitoli 9-14) si passa dalla prosa alla prevalenza di testi poetici e si giunge fino all’epoca ellenistica, come sembrerebbe attestato dal passo di 9,1-17 che mette in scena forse Alessandro Magno e la sua conquista delle città siro-palestinesi (fine IV secolo a.C.). Non mancano anche qui immagini curiose come nella parabola dei due pastori. Molti elementi di queste pagine sono stati riletti dal Nuovo Testamento in chiave cristiana: si ricordino il pastore trafitto, i trenta sicli d’argento e il celebre ingresso in Sion del re-Messia su un asino per annunziare a tutto il mondo il ristabilimento e il trionfo della pace (9,9-10). 

Nota Finale

Nella prima sezione di questo libro, Zaccaria sprona gli Ebrei tornati dall’esilio, e specialmente i loro capi Giosuè e Zorobabele, alla ricostruzione del tempio di Gerusalemme. Gli oracoli del profeta, databili intorno al 519 a.C., si differiscono notevolmente da quelli dei suoi contemporanei: consistono in visioni allegoriche e dialoghi esplicativi sul significato delle visioni. Le immagini, spesso oscure e barocche, sono entrate nel bagaglio tradizionale della letteratura apocalittica. Segue quindi un’esortazione a osservare i comandamenti del Signore e la promessa di un premio per coloro che li rispetteranno.

Nella seconda sezione il tono generale cambia e l’esposizione rispecchia un’età successiva a quella di Zaccaria. Lo sconosciuto compilatore di questa parte prevede per Israele guerre e patimenti, dopo i quali giungerà la redenzione. La descrizione della venuta del re vittorioso e umile è stata vista dagli scrittori del Nuovo Testamento come una prefigurazione dell’entrata di Gesù in Gerusalemme nella domenica delle Palme. Altri simboli, come i trenta denari, l’uomo trafitto e il pastore rifiutato dal suo popolo, serviranno agli evangelisti per interpretare le ultime ore della vicenda terrena del Cristo.

sabato 1 dicembre 2018

AGGEO



Insieme a Zaccaria, il profeta Aggeo (il cui nome rimanda in ebraico al termine “festa”) è il testimone partecipe della ricostruzione della città santa da parte degli Ebrei ritornati dall’esilio babilonese. Le date offerte dal libretto del profeta parlano di agosto-dicembre 520 a.C., allorché si erano intrapresi i lavori di ricostruzione del tempio di Sion (vedi Esdra 5,1 e 6,14, ove si citano Aggeo e Zaccaria).

Lo svolgimento dei due capitoli dell’opera di Aggeo è abbastanza netto. Si parte con un’esortazione rivolta al capo politico degli Ebrei rientrati dalla Babilonia, Zorobabele, e al sacerdote Giosuè, perché si impegnino ad accelerare i lavori di riedificazione vincendo gli egoismi e le inerzie (1,1-11). Rispondono Zorobabele, Giosuè e il popolo (1,12-15), assicurando il loro impegno. Aggeo si rivolge di nuovo ai suoi interlocutori esaltando l’opera da essi intrapresa: la gloria del secondo tempio supererà quella dell’edificio salomonico distrutto nel 586 a.C. dai Babilonesi (2,1-9). In esso confluirà la ricchezza dei popoli (2,7), cioè i contributi persiani e quelli degli Ebrei della diaspora (il passo è stato letto in chiave messianica e universalistica da san Girolamo nella sua versione latina della “Vulgata”).

Le difficoltà agricole che Israele sta attraversando – continua il profeta (2,10-19) – saranno risolte se si offriranno sacrifici puri e accettabili ritualmente, diversamente da quanto finora si è fatto. Rivolgendosi, infine, a Zorobabele, Aggeo annunzia che il Signore abbatterà presto i regni nemici e renderà lo stesso Zorobabele un “anello-sigillo” (2,20-23). È probabile che il profeta veda nel capo d’Israele di quegli anni una specie di figura messianica.

Breve scritto, l’opera di Aggeo è composta in un linguaggio di non alto livello letterario e risulta una testimonianza diretta della situazione difficile in cui si erano trovati i rimpatriati da Babilonia, una volta giunti nella terra dei padri e intrapresa la ricostruzione della città santa di Gerusalemme e del suo tempio.

Nota Finale

Nel 520 a.C., dopo il rientro in patria dall’esilio babilonese, Aggeo esorta il popolo a completare la ricostruzione del tempio di Gerusalemme, distrutto da Nabucodonosor circa settant’anni prima. Sono già passati quasi due decenni dal ritorno degli Ebrei in Palestina, in seguito all’editto di Ciro del 538 a.C., ma del nuovo tempio sono state poste soltanto le fondamenta. Aggeo invita allora i capi della comunità giudaica a impegnarsi con entusiasmo per completare l’opera. Il profeta chiama inoltre i sacerdoti a purificare il culto e sottolinea il legame fra le antiche tradizioni israelite e la promessa di un’età messianica. Il tempio, anche per merito delle insistenze di Aggeo, verrà definitivamente consacrato nel 515 a.C. Il libro, redatto probabilmente più tardi, contiene soltanto un estratto della vigorosa predicazione del profeta.