mercoledì 12 giugno 2019

PRIMA LETTERA DI PIETRO



Scritta in greco raffinato, la prima lettera di Pietro è probabilmente composta a Roma, menzionata come Babilonia (5,13), secondo un uso caro all’Apocalisse, e destinata ai cristiani perseguitati dell’Asia Minore. Lo scritto, più che direttamente all’apostolo Pietro, viene attribuito dagli studiosi alla tradizione petrina e si dirige alla seconda generazione dei cristiani. Essi sono quelli che amano Cristo, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credono in lui (1,8).

Alcuni hanno individuato nella lettera i toni di un’omelia per il battesimo cristiano o addirittura lo schema della liturgia battesimale così come veniva celebrata a Roma, oltre a citazioni di inni e di professione di fede. Siamo, dunque, in presenza di uno specchio del Cristianesimo delle origini, quale era proclamato e vissuto nel cuore dell’impero romano, nella consapevolezza di essere “pellegrini” verso un altro regno (1,17) e di essere una “fraternità” sparsa nel mondo (5,9).

Al centro dello scritto domina la figura di Cristo, che è raffigurato come l’agnello sacrificale senza macchia, il cui sangue è versato per il nostro riscatto; egli è la pietra vivente scartata dagli uomini, ma scelta da Dio come fondamento per la sua Chiesa; egli è il Servo sofferente del Signore cantato dal profeta Isaia (capitolo 53) ed è il pastore delle nostre anime. Accanto a Cristo appare la Chiesa, che è rappresentata con due simboli a prima vista contrapposti.

Da un lato, essa viene descritta come una casa, una famiglia, un tempio. Su di essa si abbatte «l’incendio» della persecuzione (4,12): necessaria è, allora, la costanza, consapevoli di essere «la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato» (2,9). Dall’altro lato, la Chiesa è nomade, è “fuori casa” (come si dice letteralmente in 1,17 e 2,11), è pellegrina verso la pienezza della vita, nella patria celeste della perfetta comunione con Dio.

Nota Finale

Questa prima lettera delle due attribuite a Pietro è sicuramente autentica, data la grande somiglianza nella forma e nei contenuti con la catechesi dell’apostolo, nota attraverso il libro degli Atti e il vangelo di Marco. Viene spedita probabilmente da Roma (chiamata nel testo “Babilonia”), qualche anno prima della morte di Pietro, che la tradizione più attendibile colloca nel 64 o nel 67 d.C., sotto Nerone. I destinatari sono le comunità cristiane di alcune regioni della zona centrale e settentrionale dell’Asia Minore (odierna Turchia). La finalità è il conforto e il sostegno dei fedeli che stanno passando in mezzo al “fuoco” della prova, anche se forse non si tratta ancora delle vere e proprie persecuzioni ufficiali. Qualche studioso considera questa lettera una omelia battesimale, nella quale viene dapprima riaffermata la dignità del battezzato e poi sviluppata una catechesi sugli impegni della vita cristiana, soprattutto come partecipazione alla storia di dolore e di gloria del Cristo morto e risorto.



venerdì 7 giugno 2019

LETTERA DI GIACOMO



Dopo l’epistolario paolino e la lettera agli Ebrei, sono raccolti nel Nuovo Testamento sette scritti che la tradizione ha chiamato “Lettere cattoliche”, cioè destinate all’intera Chiesa diffusa per il mondo. In realtà, nonostante l’aspetto esteriore, più che lettere in senso stretto, questi testi sembrano omelie o catechesi destinate a varie comunità cristiane, soprattutto di origine giudaica.

La prima che incontriamo ha come autore dichiarato «Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo» (1,1): si è pensato, soprattutto in passato, all’apostolo Giacomo, fratello di Giovanni, oppure potrebbe trattarsi di quel Giacomo «fratello del Signore», cioè membro del parentado nazaretano di Gesù, che fu vescovo di Gerusalemme ed è presente con un certo rilievo negli Atti degli Apostoli (vedi At 12,17; 15,13). Certo è che noi siamo in presenza di un maestro cristiano che vuole indicare ai suoi ascoltatori-lettori- probabilmente di origine giudaica – un itinerario di vita spirituale che ha come sorgente la «sapienza», dono perfetto che viene dall’alto e discende dal Padre della luce (1,17).

Tuttavia quell’itinerario si svolge anche con l’impegno umano che si deve manifestare nelle «opere», senza le quali la fede è morta. C’è chi ha pensato che una simile dichiarazione (2,14-24) voglia essere polemica nei confronti di Paolo, il quale aveva esaltato il primato assoluto della fede e della grazia. In realtà si tratta di sottolineature differenti di aspetti entrambi rilevanti, cioè il dono divino e la risposta libera dell’uomo. In ciò, Giacomo e Paolo si completano a vicenda. Questo impegno del credente è rappresentato da Giacomo in una serie di temi morali.

C’è la denuncia sferzante della ricchezza e delle ingiustizie sociali; c’è l’invito alla costanza e alla fedeltà nel momento della tentazione; c’è l’appello reiterato a controllare il linguaggio (particolarmente vivace è, al riguardo, il capitolo 3). C’è, infine, lo spazio riservato alla preghiera e, a questo proposito, è significativo il passo di 5,13-15, ove si parla della preghiera per i malati. Il Concilio di Trento ha attribuito a questo testo una rilevanza particolare, considerandolo come un’affermazione del sacramento dell’unzione degli infermi.

Nota Finale

Nella Bibbia, dopo le lettere di Paolo, sono collocate sette lettere che la tradizione attribuisce a diversi discepoli di Gesù. Solitamente sono riunite sotto il nome di “Lettere cattoliche”, cioè “universali”, perché sono destinate a un gruppo di Chiese o ai Cristiani in generale. Più che delle vere lettere, sono dei brevi codici di vita cristiana, da avvicinarsi ai libri sapienziali dell’Antico Testamento. La prima di queste lettere, che sono raccolte senza alcun ordine cronologico, è indirizzata “alle dodici tribù disperse nel mondo”, cioè a tutte le comunità giudeo-cristiane viventi fuori della Palestina. L’autore si presenta come “Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo”, ricordato anche da Paolo, nella lettera ai Galati, come “colonna” della Chiesa-madre di Gerusalemme insieme con Pietro e Giovanni. Per la data di composizione, vi sono ipotesi contrastanti; probabilmente la lettera risale agli anni 58-62 d.C. e si tratta di un intervento polemico nei riguardi di alcuni cristiani che deformavano l’insegnamento di Paolo sul problema della fede e delle opere. Ciò che salva, sottolinea l’autore, è la fede viva, quella che genera le opere della carità.



mercoledì 5 giugno 2019

LETTERA AGLI EBREI



Subito dopo l’epistolario paolino, è posto un lungo testo intitolato fin dall’antichità “Lettera agli Ebrei”. Già lo scrittore cristiano Origene nel III secolo si chiedeva: «Chi ha scritto questa lettera? Il vero, Dio solo lo sa!». Incerto è, dunque, l’autore: anche se non manca qualche legame con Paolo, la lingua, lo stile e il pensiero sono nuovi. Incerti sono anche i destinatari, certo non Ebrei, ma piuttosto giudeo-cristiani, e incerte sono pure le coordinate storiche e geografiche dello scritto.

L’unica cosa certa è che siamo in presenza di un capolavoro letterario e teologico (il suo è forse il greco più elegante dell’intero Nuovo Testamento). Si tratta di una grandiosa omelia, accompagnata da un biglietto (13,22-24), al cui centro domina la figura di Cristo, sacerdote perfetto della nuova alleanza tra Dio e l’umanità. Il profilo di questa immagine centrale è tracciato ricorrendo all’Antico Testamento, alle sue pagine sui sacrifici e sulla liturgia, e alla figura di Melchisedek, il re-sacerdote che incontra Abramo (Genesi 14).

Se la parte fondamentale dell’opera è dedicata a Cristo, Dio e uomo, superiore agli angeli e solidale con l’uomo, sommo sacerdote fedele e misericordioso, un’ampia sezione è riservata anche all’impegno del cristiano, soprattutto alla fede, che è cantata nel capitolo 11 attraverso una vera e propria galleria di personaggi biblici, proposti come modelli alla comunità, destinataria di questa intensa omelia.

La meta ultima dell’esperienza di fede è, però, l’incontro pieno e definitivo con Dio, seguendo Cristo che porta la croce: la patria del cristiano non è quaggiù, ma è oltre il tempo e lo spazio. È su questi “sentieri diritti” che dobbiamo avviarci, tenendo fisso lo sguardo su «Gesù Cristo, lo stesso ieri e oggi e sempre» (13,8).

Nota Finale

Più che una lettera vera e propria, questa agli Ebrei è lungo sermone scritto con una profonda conoscenza della Bibbia. Linguaggio, stile e dottrina inducono a pensare che l’autore non sia Paolo, ma qualcuno che si muove nella sua linea di influenza. Anche i destinatari restano nel vago: si pensa a comunità giudeo-cristiane molto disorientate dalle persecuzioni e forse tentate di tornare al giudaismo. La crisi di fede appare così forte che alcuni studiosi avanzano l’ipotesi che destinatari della lettera siano addirittura dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme, convertiti al Cristianesimo. Per ricondurli all’entusiasmo del primo amore per Gesù Cristo, l’unico vero eterno sacerdote-pontefice, mediatore della nuova e definitiva alleanza, si sottolinea la superiorità del sacerdozio di Cristo su quello di Aronne e del suo sacrificio sui sacrifici levitici. Incerta è anche la data di composizione della lettera, per quanto si possa collocarla qualche anno prima del 70 d.C.