sabato 13 aprile 2019

PRIMA LETTERA A TIMOTEO



A partire dal XVIII secolo, le due lettere a Timoteo e quella a Tito sono state definite come “Lettere pastorali”, a causa del loro contenuto ecclesiale e dei destinatari, che erano importanti collaboratori di Paolo. Le profonde variazioni nei temi e nello stile hanno fatto ipotizzare da parte di molti studiosi la presenza di una mano diversa da quella dell’apostolo, che avrebbe scritto in suo nome e nel suo spirito: questo, però, non toccherebbe minimamente la qualità “ispirata” e “canonica” delle lettere. Altri, invece, pensano che i mutamenti indicati siano dovuti all’evoluzione della vita e del pensiero di Paolo, che in questi scritti si sentirebbe ormai vicino alla fine della vita e al suo martirio.

Timoteo (in greco, “colui che onora Dio”) era nato a Listra (nell’attuale Turchia centrale) da padre greco e da Eunice, una donna giudeo-cristiana. Tra l’altro nella seconda lettera, oltre al nome della madre, si evoca anche quello della nonna, Loide (1,5). Divenuto collaboratore di Paolo, fu da lui fatto circoncidere «per riguardo ai Giudei che si trovavano in quelle regioni: tutti infatti sapevano che suo padre era greco» (Atti 16,1-3). Egli rimarrà sempre il compagno intimo e fidato dell’apostolo, fino a divenire il modello di chi è posto a capo della comunità.

La prima lettera a lui indirizzata alterna alla denuncia polemica di forme deviate, presenti nelle comunità cristiane (capitoli 1,4, e 6), una serie di ritratti dei vari ministeri ecclesiali (capitoli 2,3 e 6). Emergono in particolare le figure degli “episcopi” – che non sono del tutto identificabili con i “vescovi” –, dei presbìteri, dei diaconi e delle vedove. È questo il segno di una Chiesa strutturata, affidata a responsabili ufficiali e articolata in varie funzioni ben definite.

È, quindi, la Chiesa il centro dello scritto, sia nell’aspetto più tormentato della crisi di fede con l’irrompere delle prime “eresie”, sia nella forma molteplice e ricca dei vari doni e ministeri da adempiere con fedeltà e dignità. Nelle doti richieste a chi ha questi compiti da esercitare nella Chiesa, uno spazio molto rilevante è riservato alle virtù umane, alla maturità e all’equilibrio secondo un modello noto anche al mondo greco-romano circostante. Le verità di fede da tutelare sono, invece, evocate attraverso una serie di citazioni di affermazioni teologiche presentate come già note e accolte: è questo il segno della presenza di una vera e propria tradizione della fede, ormai radicata nella comunità cristiana.

Nota Finale

L’epistolario paolino conta quattro lettere indirizzate non a delle Chiese ma a delle persone singole. Sono le due lettere a Timoteo, quella a Tito e il bigliettino a Filemone. Le prime tre sono usualmente denominate “Pastorali”, perché i destinatari sono due tra i discepoli più fedeli di Paolo, lasciati come “pastori” a dirigere rispettivamente la Chiesa di Efeso e quella di Creta. Gli studiosi sono incerti sulla loro sicura attribuzione a Paolo e sulla loro datazione. La maggioranza le fa risalire a dopo la prima prigionia romana dell’apostolo, tuttavia sembrano formare un blocco omogeneo che può essere collocato fra il gruppo delle lettere ai Galati, ai Romani e ai Corinzi e quello delle lettere agli Efesini e ai Colossesi, quindi tra il 58 e il 61 d.C.

Il tema dominante è la dottrina sulla Chiesa, che per Paolo è mistica e apostolica nello stesso tempo: comunità spirituale e universale, continuamente generata dallo Spirito Santo, e comunità visibile basata sull’apostolato e sulla gerarchia. Questo spiega l’insistenza dell’apostolo nella prima lettera a Timoteo a “custodire il deposito” della verità rivelata e a organizzare con sapiente prudenza la disciplina della “casa di Dio”, nella quale e con la quale Dio vuole che tutti siano salvati.






venerdì 5 aprile 2019

SECONDA LETTERA AI TESSALONICESI



Questo secondo scritto indirizzato ai cristiani della città greca di Tessalonica, situata nella regione della Macedonia, a causa di alcune variazioni notevoli di stile e di pensiero riguardo a temi già trattati nella prima lettera, ha fatto pensare ad alcuni studiosi che non sia di Paolo, ma di un suo discepolo o del suo ambito. Certo è che la situazione ecclesiale presentata da questa missiva è differente rispetto a quella registrata nella precedente e può darsi che rimandi a un periodo successivo. La finale della lettera, comunque, insiste sull’autenticità paolina dello scritto (3,17), che è sempre sotto il sigillo dell’ispirazione divina.

Due sono le parti della lettera. Nella prima, che occupa il capitolo 2, si affronta nuovamente la questione della “parousìa” o «venuta» finale di Cristo: a Tessalonica, anche attraverso lettere falsamente attribuite all’apostolo, si è creato un clima di attesa spasmodica. Paolo ribadisce la necessità di evitare questi eccessi e di essere fedeli all’impegno quotidiano nella storia, ove si svolge la lotta tra bene e male, che solo alla fine avrà il suo compimento.

La seconda sezione della lettera è presente, invece, nel capitolo 3 e tocca ancora l’esperienza della comunità tessalonicese, che viene richiamata a una vita non illusoria, sospesa verso l’attesa di eventi straordinari, bensì impegnata nel lavoro, nella carità fraterna, nei propri doveri. Si respira in questa lettera un’atmosfera particolare, quella che lo stesso Paolo esprime ricorrendo al linguaggio apocalittico, soprattutto nei termini e nelle immagini presenti in 2,3-11. Questo linguaggio, già noto nell’Antico Testamento (ne sono un esempio alcune parti del libro di Daniele), era diffuso anche nel mondo giudaico.

È così che ci incontriamo con figure e segni negativi, posti sotto l’ “egida” (protezione, difesa, salvaguardia) del demoniaco, come l’«uomo dell’iniquità», «il figlio della perdizione», «il mistero dell’iniquità», «l’apostasia», «il giorno del Signore». Il male che imperversa nella storia rimane, però, sotto il controllo divino fino alla meta ultima, quando sarà definitivamente debellato. Il tema fondamentale è, perciò, quello del rapporto tra vicende storiche e il fine ultimo verso cui esse convergono secondo il piano di Dio.    

Nota Finale

Scritta soltanto due o tre mesi dopo la prima, questa seconda lettera ai Cristiani di Tessalonica ha un tono più preoccupato e deciso. Paolo deve reagire di fronte alla diffusione di fantasiose notizie sulla imminenza della fine del mondo, “propalate” (divulgate) anche con l’ausilio di lettere fatte passare per sue, e deve combattere le conseguenze pratiche che alcuni ne hanno subito dedotto, come l’inutilità del lavoro e dell’impegno. Paolo, richiamandosi alla dottrina autentica di Gesù e della tradizione apostolica, insiste sulla certezza che il Signore verrà e sarà Lui l’ultimo vincitore; ma – sia pure con un linguaggio un po’ ermetico, almeno per noi – ricorda che prima devono succedere diversi fatti anche dolorosi, da affrontare con fede e serenità. Nell’attesa non bisogna essere oziosi, ma perseveranti e vigilanti.



mercoledì 3 aprile 2019

PRIMA LETTERA AI TESSALONICESI



Questa lettera di Paolo è quasi certamente il primo scritto cristiano in ordine cronologico. Fu infatti composta attorno al 50-51 e fu destinata alla comunità cristiana dell’importante città commerciale di Tessalonica, posta in Macedonia e visitata dall’apostolo durante il suo secondo viaggio missionario. Lo scritto può essere seguito distinguendo tre fasi di sviluppo. Dopo l’indirizzo e il ringraziamento a Dio, che sono costanti nelle lettere paoline e che occupano il capitolo 1, si ha una prima parte di taglio autobiografico, in cui Paolo rievoca il suo soggiorno tessalonicese, allorché egli si era sentito come una madre e un padre per quei cristiani, pronto a donare anche la vita per loro (capitolo 2).

In un secondo momento, che possiamo far correre da 4,1 fino a 5,1, l’apostolo affronta alcune questioni specifiche che devono essere risolte perché travagliano la Chiesa tessalonicese. C’è innanzitutto il problema dei morti e dei vivi di fronte all’evento della risurrezione: i primi verranno da Dio riportati a nuova vita, i secondi saranno «rapiti sulle nubi, per andare incontro al Signore nell’aria» per essere sempre con lui (4,17). Si tratta, quindi, di una rappresentazione con elementi simbolici, destinata a illustrare la piena comunione finale del credente in Cristo.

Un altro tema che angoscia i cristiani di Tessalonica è quello della scadenza della “parousìa”: con questo termine greco si vuole indicare la venuta definitiva di Cristo a suggello della storia Umana. Alcuni pensavano che essa fosse imminente e si abbandonavano ad una vita disimpegnata nei confronti del presente. Paolo ribadisce l’indeterminatezza della data di quell’evento e invita alla vigilanza serena e operosa, nella dedizione quotidiana e nella santità della propria esistenza.

La lettera è conclusa da una terza parte (5,12-22), che si rivela come un’esortazione calorosa a offrire la propria testimonianza di fede e d’amore all’interno della comunità. In questa sezione si incontra una sequenza di quindici imperativi che illustrano i punti più rilevanti dell’impegno cristiano. La lettera è un testo illuminante per conoscere l’esperienza e l’atmosfera di alcune Chiese cristiane delle origini, le loro attese e speranze, le loro difficoltà e i loro progetti.

Nota Finale

Questa lettera è con tutta probabilità il primo documento scritto del Nuovo Testamento, anteriore persino ai vangeli. È inviata da Corinto verso la fine del 51 o l’inizio del 52 d.C., per sostenere la fede della giovanissima comunità di Tessalonica, capitale della provincia romana della Macedonia, che Paolo ha dovuto abbandonare dopo soltanto pochi mesi di predicazione per l’ostilità dei Giudei. L’apostolo, che ha suscitato nei Tessalonicesi una fede operosa e una carità disinteressata, chiarisce alcuni punti rimasti in sospeso: proclama la risurrezione dei defunti alla venuta gloriosa di Cristo e corregge certe indulgenze verso i costumi pagani, soprattutto in campo sessuale. Queste precisazioni dottrinali sono fatte con un vivo senso d’affetto, nell’evocazione commossa dei primi momenti della conversione. La lettera, che ha lo stile di una conversazione, dimostra che lo scritto non sostituisce la predicazione apostolica a viva voce, ma anzi la completa, come strumento integrante di evangelizzazione e di catechesi.