martedì 22 gennaio 2019

LETTERA AI ROMANI



A Roma la comunità cristiana si era già costituita, collegandosi inizialmente alla forte presenza giudaica che comprendeva 50000 membri e ben 13 sinagoghe. Paolo, forse nell’inverno 57-58, indirizza a questa Chiesa prestigiosa una lettera che è anche il suo capolavoro teologico e che sarà un punto riferimento capitale nella storia della cristianità, come affermava un commentatore, Paul Althaus: «Le grandi ore della storia della Chiesa sono state le grandi ore della lettera ai Romani». Basti solo pensare al rilievo che questo scritto paolino ebbe nella riforma di Lutero.

Abbozzata nei suoi termini fondamentali già nella lettera ai Galati, che cronologicamente la precede, l’opera si distende in una riflessione molto intensa e impegnativa che occupa i primi 11 capitoli, mentre il resto della lettera (capitoli 12-16) è di taglio più pastorale, morale e concreto (suggestiva, ad esempio, è nel capitolo 16 la lista degli amici, collaboratori e collaboratrici che vengono salutati e che costituivano le comunità cristiane). La tesi dominante della lettera è formulata attraverso una frase del profeta Abacuc citata in 1,17: «Il giusto vivrà mediante la fede». Due sono le componenti della citazione che verranno sviluppate.

Innanzitutto, la cosiddetta «giustificazione per la fede», presentata e approfondita nei capitoli 1-5, a cui seguirà la «vita secondo lo Spirito», delineata nei capitoli 6-8. L’uomo è sulle sabbie mobili della «carne», cioè della sua radicale debolezza peccatrice. Vano è il suo tentativo di uscirne attraverso le opere della «legge», cioè con le sue sole forze. È necessario che Dio dall’alto stenda la mano della sua «grazia» e che l’uomo l’afferri con la «fede»: solo così egli sarà «giustificato», cioè diverrà giusto e salvato. Questa vicenda si attua attraverso l’esperienza battesimale, che coinvolge tutta la vita della persona, unendola a quella di Cristo.

Nasce, così, la “nuova creatura”, animata dallo Spirito Santo, figlia adottiva di Dio, partecipe di una redenzione che coinvolge tutto l’essere e che è cantata da Paolo nella stupenda pagina del capitolo 8. Su questo, che è il nucleo teologico centrale della lettera, si innestano altri temi rilevanti come quelli del rapporto tra cristianesimo e giudaismo (capitolo 9-11), un argomento particolarmente caro a Paolo, del rapporto dei cristiani tra loro (capitolo 12), del rapporto con il potere politico imperiale (13,1-7), del rapporto con i deboli nella fede (capitolo 14). L’apostolo chiude il suo scritto presentando i suoi progetti missionari, che comprendono anche un viaggio in Spagna, passando per Roma (15,28).

Nota Finale

Con questo scritto si apre, nel Nuovo Testamento, la raccolta delle lettere di Paolo, che sono ordinate in base alla loro importanza e alla dignità della Chiesa alla quale sono indirizzate e non secondo la data di composizione. Per questo la lettera ai Romani occupa il primo posto, anche se scritta verso la primavera del 58 d.C., dopo le lettere ai Tessalonicesi, ai Corinzi e ai Galati. Da Corinto viene portata a Roma dalla diaconessa Febe, quasi credenziale per la comunità cristiana di Roma, non fondata da Paolo, ma che l’apostolo intende visitare in occasione di un progettato viaggio in Spagna.

Dopo l’indirizzo iniziale, Paolo espone un “compendio del suo vangelo”: prima in una parte dottrinale dove dimostra che la salvezza proviene solo dalla giustizia di Dio e dalla fede in Lui, che ama senza pentimenti tutti, siano essi pagani o Ebrei; e poi in una seconda parte esortativa dove illustra le conseguenze pratiche. La lettera costituisce uno dei vertici del pensiero paolino e conserva un’importanza decisiva per la vita della Chiesa e per l’ecumenismo. È stato scritto giustamente che “le grandi ore della storia della religione cristiana sono anche le ore della lettera ai Romani”.




sabato 19 gennaio 2019

ATTI DEGLI APOSTOLI



Dedicata ancora a Teofilo, personaggio prestigioso ma a noi non meglio conosciuto, come il vangelo, questa è la seconda opera dell’evangelista Luca, che l’ha composta in un greco accurato e con indubbie capacità narrative (basterebbe leggere l’emozionante racconto della tempesta e del naufragio di Paolo presente nel capitolo 27). Gli Atti degli Apostoli uniscono con sapienza al loro interno una serie di memorie storiche, riguardanti la diffusione del cristianesimo delle origini attraverso la testimonianza e l’attività dei primi missionari, tra i quali naturalmente spiccano Pietro e Paolo, a una vera e propria riflessione teologica sulla Chiesa e sulla sua anima, che è la parola di Cristo e lo Spirito Santo.

Proprio per questa fusione tra storia e interpretazione religiosa il libro degli Atti degli Apostoli è stato considerato come una specie di quinto vangelo, che traccia il diffondersi della parola di Cristo da Gerusalemme fino a Roma. Il racconto, infatti, si apre proprio con la stessa scena gerosolimitana dell’ascensione di Gesù al cielo con cui si era chiuso il vangelo. Il “testamento” del Risorto è il progetto dell’opera stessa di Luca: «Mi sarete testimoni in Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8).

Gli Atti degli Apostoli sono divisi in due grandi parti dal capitolo 15, che descrive il cosiddetto concilio di Gerusalemme. Nella prima sezione (capitoli 1-15) si parte da Gerusalemme e dal grande evento della Pentecoste, che muove la Chiesa verso l’esterno. È nella città santa che si ha la prima predicazione di Pietro (capitoli 1-5). Ben presto, però, la scena si allarga in Giudea e Samaria ed emerge la figura di Saulo-Paolo, il persecutore convertito. Pietro stesso, con l’annunzio di Cristo al centurione romano Cornelio, e Paolo, con l’impegno tra i pagani di Antiochia, aprono il cristianesimo all’orizzonte universale.

Le tensioni con i giudeo-cristiani, che vorrebbero un passaggio previo dei pagani nel giudaismo con la circoncisione prima dell’ingresso nel cristianesimo, sono risolte dal concilio di Gerusalemme. Ha inizio così la seconda sezione (capitoli 16-28), in cui il protagonista è Paolo con i suoi tre viaggi missionari che lo portano in Asia Minore e in Grecia, ma che lo conducono all’arresto in Gerusalemme e a Cesarea Marittima, sede del procuratore romano. Avendo avanzato l’appello al tribunale supremo imperiale, in quanto cittadino romano, l’apostolo raggiunge Roma, ove è posto agli arresti domiciliari, ma con la possibilità di annunziare il vangelo a quanti lo visitano. Con questa scena si chiude il secondo libro lucano.

Nota Finale

Dopo il vangelo, è il secondo libro attribuito a Luca. Il titolo fa capire che vi si narrano le gesta di alcuni apostoli. Difatti si tratta di un saggio storico-teologico sui primi trent’anni di vita della Chiesa, dall’ascensione di Gesù fino all’arrivo di Paolo a Roma nel 61 d.C. Nella prima parte il protagonista è Pietro e il centro geografico Gerusalemme; nella seconda il protagonista è Paolo ed epicentro sono le città di Efeso e di Corinto. Tra queste due parti è collocata l’assemblea di Gerusalemme, che potrebbe essere considerata il primo Concilio della storia della Chiesa.

Il disegno teologico sottolinea la chiamata alla salvezza di tutti, anche dei pagani. Essa è voluta da Dio, che porta a compimento ciò che dicevano le profezie dell’Antico Testamento. Protagonista di questa storia teologica è lo “Spirito Santo”, che fa sì che la Chiesa continui la missione di Gesù. Luca, infatti, è attento a mettere in risalto le coincidenze fra i gesti di Gesù e quelli dei suoi discepoli. Redatto fra gli anni 70-80 d.C., il libro degli Atti degli Apostoli, che narra la diffusione del vangelo da Gerusalemme a Roma, resta un libro aperto. La sua storia continua ancora.  

   


venerdì 18 gennaio 2019

IL NUOVO TESTAMENTO CI RIVELA GESÙ CRISTO



Il Nuovo Testamento è costituito da 27 scritti di diversa estensione, composti con poco più 140.000 parole greche (il più lungo dei vangeli, quello di Luca, contiene 19.404 parole). Se volessimo ordinare questi libri in settori definiti da elementi comuni, potremmo rimandare sostanzialmente a tre aree. Ci sono innanzitutto i “quattro vangeli” – che assommano in sé 64.327 parole greche – che dalla tradizione sono riferiti a quattro autori con caratteristiche proprie: Matteo, Marco, Luca, Giovanni.

La collocazione cronologica più certa è quella che va dalla fine degli anni 60 allo scorcio del I secolo. Il più antico è quasi certamente il vangelo di Marco, seguito da Matteo, Luca e Giovanni. Il “vangelo” costituisce un vero e proprio genere letterario, cioè un modello di composizione che non ha paralleli prima del cristianesimo, e nel valore del termine stesso – in greco “euanghelion”, «buona novella», «annunzio di bene» – contiene la caratteristica fondamentale che lo definisce. Infatti, i racconti evangelici si preoccupano di riferire gli eventi storici e le parole di Gesù di Nazaret, l’indiscusso protagonista di queste pagine.

Gli Evangelisti illuminano quei dati, che tra l’altro sono stati da loro selezionati, alla luce della fede e, più precisamente, dall’esperienza vissuta dalla Chiesa delle origini, quella della Pasqua di Cristo. Perciò, se da un lato è possibile compiere una ricerca sul Gesù storico presente nei vangeli, d’altro lato la testimonianza evangelica si propone la finalità di far comprendere ai lettori il mistero di Cristo, Figlio di Dio, e di condurre il lettore all’adesione nella fede: «[Queste cose sono state scritte] perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Giovanni 20, v.31).

Storia e fede, eventi e interpretazione, «carne» e «parola» (per usare il linguaggio del prologo di Giovanni) si intrecciano in modo stretto, proprio come accade in Cristo che è uomo e Dio. Si può, allora, dire che «il cristianesimo è nato due volte» (Lucien Cerfaux): la prima nascita avviene con la predicazione, l’azione e la storia di Gesù; la seconda con la sua gloriosa risurrezione che diventa il cuore e la chiave di interpretazione dell’intero Nuovo Testamento. Ogni evangelista, che respira la fede della Chiesa e che si rivolge alla Chiesa (anzi, a una precisa comunità ecclesiale), rivela un suo personale approccio alla figura di Cristo.

Matteo (vedi post pubblicazione 07-01-2016) sembra privilegiare le parole di Cristo, distribuendo nella sua opera cinque solenni discorsi; ma al tempo stesso rivela un’attenzione particolare a raccordare la figura e l’insegnamento di Gesù all’Antico Testamento. È, questa, una consapevolezza della sua comunità, costituita da cristiani provenienti dall’ebraismo, ma è anche la coscienza di tutta la Chiesa, come testimonia l’apostolo Paolo: «Tutto quanto è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza» (Romani15,4).

Marco, il primo degli evangelisti in ordine cronologico, si preoccupa invece di avviare il suo lettore su un itinerario che procede dall’oscurità verso la piena rivelazione. Gesù appare innanzitutto come uomo che, però, compie atti sorprendenti di liberazione dal male nei confronti di malati fisici e spirituali. A metà strada è riconosciuto da Pietro come «Cristo», cioè Messia. Una lunga tappa che conduce da Gerusalemme mostra la qualità strana di questo Messia: egli non sarà un trionfatore ma uno sconfitto. Ma è proprio nel momento della sua morte in croce che un centurione romano scopre il segreto ultimo di Gesù, che verrà poi suggellato dalla risurrezione: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (15,39).

Un lungo viaggio è anche al centro del vangelo di Luca (vedi post pubblicazione 14-05-2016). Questa volta, però, è un vero e proprio percorso che si estende nello spazio che conduce a Gerusalemme (capitoli 9-19). Alle spalle ci sono le origini di Cristo e la sua prima predicazione nella regione settentrionale della Galilea; davanti vi sono la morte e la gloria che hanno come meta ultima l’ascensione al cielo, cioè il ritorno di Gesù nell’orizzonte divino, dopo essere stato una presenza viva e salvatrice nella storia umana. Nel viaggio verso Gerusalemme Luca colloca quei temi che più gli sono cari e che ai suoi occhi meglio raffigurano il volto di Cristo: l’amore, la gioia, la povertà, il distacco, la preghiera e la storia trasfigurata dal passaggio del Signore.

Verso la fine del I secolo, tenendo conto di una lunga predicazione della Chiesa e degli altri vangeli, fiorisce l’ultimo scritto, il più alto e originale, quello di Giovanni (vedi i tre post pubblicati il 02-01-2016; il 6 e 7-05-2016), aperto da uno stupendo inno che esalta Cristo come “Logos”, cioè come Parola, Verbo divino, entrato però nella “carne” dell’umanità. L’evangelista modella il linguaggio di Gesù in modo solenne; imposta la sua vicenda terrena immaginando una specie di processo nel quale Cristo è condannato eppure è vincitore; seleziona “sette” miracoli che presenta come “segni”, cioè come espressione di una realtà superiore a cui il Figlio di Dio ci vuole condurre; presenta la fine della vita terrena di Gesù come l’«Ora» per eccellenza della storia della salvezza, e la sua Pasqua come una “esaltazione” nella gloria per attrarre l’intera umanità a Dio.

Profili diversi, quindi, dell’unico Gesù Cristo, proprio perché ciò che gli evangelisti – e prima di loro i predicatori cristiani delle origini della Chiesa – vogliono rivelare non è solo la vicenda storica del nazareno, ma l’opera di salvezza che egli ha compiuto, deponendo un seme di eternità e di vita divina nell’umanità. Gli atti di Gesù sono spesso miracoli perché contengono in sé una forza trascendente; le sue parabole sono racconti affascinanti, ma rimandano al “Regno di Dio”; la sua morte approda a un orizzonte trascendente di luce e di vita, nella risurrezione e nella glorificazione, capace di svelare la divinità di Gesù, ma anche di fecondare e trasformare il dolore e la morte dell’umanità.

Da questa radice fondamentale dell’annunzio di «Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Marco 1,1), che si cristallizza nelle pagine dei vangeli, si dirama la riflessione di Paolo e della Chiesa. Giungiamo, così, alla seconda area del Nuovo Testamento, quella delle “Lettere”. Essa è occupata da due generi particolari di scritti che rivelano un aspetto epistolare: si hanno, infatti, indirizzo e saluti iniziali, dichiarazioni rivolte ai destinatari e raccomandazioni e saluti vari in finale.

Dapprima incontriamo il complesso delle Lettere di Paolo, ordinate secondo una sequenza tradizionale che, però, non corrisponde a quella cronologica. Si tratta di 13 scritti contrassegnati in modo esplicito dal nome dell’Apostolo e di un quattordicesimo che è a sé stante, la “Lettera agli Ebrei”. Questa è stata attribuita a Paolo fin dal II secolo, ma in modo esitante, e ora è considerata nettamente distinta dal resto dell’epistolario paolino.

Gli studiosi prevalentemente riconducono a Paolo in modo diretto sette lettere, composte tra gli anni 50-60: 1Tessalonicesi, 1 e 2Corinzi, Galati, Filippesi, Romani, Filemone (Questo è il probabile ordine cronologico). Le altre sarebbero da riferire all’orizzonte paolino e forse riflettono la mano di discepoli, che si ispirano al loro maestro sviluppandone il pensiero (2Tessalonicesi, Colossesi, Efesini, 1 e 2Timoteo, Tito; le ultime tre vengono chiamate di solito “Lettere pastorali”).

Questa divisione non significa che le seconde non siano ispirate e canoniche: tutte portano in sé il sigillo della rivelazione divina, che si comunica attraverso uomini differenti, ma tutti segnati dallo Spirito di Dio. La “lettera agli Ebrei” è, in realtà, una splendida e complessa omelia della Chiesa delle origini, centrata sulla figura di Cristo sacerdote e sul significato del suo sacerdozio.

Difficile è riassumere in poche battute il sistema di pensiero di Paolo, un uomo che ebbe la vita attraversata dall’irruzione di Cristo (la celebre esperienza sulla via di Damasco narrata in Atti 9). Egli è profondamente ancorato alla matrice ebraica: «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto alla legge» (Filippesi 3,5). Tuttavia, la sua nascita a Tarso in Cilicia (attuale Turchia meridionale), città romana, e la sua formazione lo rendono aperto anche all’orizzonte greco-romano. Dopo la sua conversione, la sua grande sfida sarà quella di trascrivere e di comunicare il messaggio cristiano per quel nuovo orizzonte sul quale la nuova fede si stava affacciando.

In quest’opera egli ordina ed elabora il messaggio di Cristo in un nuovo progetto che ne conservi l’anima profonda, ma anche ne riveli le potenzialità e l’attualità. Usando un vocabolario greco molto personale, cioè scegliendo termini particolari e imprimendo ad essi nuovi significati, Paolo sviluppa la visione cristiana dell’uomo e della storia, tesa tra l’epifania della grazia divina offerta in Cristo e il peccato dell’umanità. L’abbraccio di salvezza tra Dio e la creatura avviene attraverso la fede che trasfigura l’uomo conducendolo a partecipare alla stessa vita divina.

I credenti divengono figli adottivi di Dio nel Figlio, Gesù Cristo. Ed è proprio la figura di Cristo a dominare gli scritti paolini; il nome ricorre, infatti, più di quattrocento volte. L’Apostolo confessa che per lui «il vivere è Cristo» (Filippesi 1,21). D’altronde tutti gli scritti neotestamentari potrebbero essere posti all’insegna di una frase della lettera agli Ebrei, che, pur non essendo paolina, ne riflette alcuni elementi: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (13,8).

Il secondo tipo di lettere raccoglie, invece, una serie di sette scritti attribuiti a vari apostoli – Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda – e oscillanti tra il testo teologico molto ampio e profondo (pensiamo, ad esempio, alla 1Pietro e alla 1Giovanni), l’omelia (Giacomo, ad esempio) e il biglietto breve ed essenziale (2 e 3Giovanni). La tradizione le ha chiamate “Lettere cattoliche”, cioè “universali”, considerandole un messaggio destinato a tutta la cristianità del I secolo, anche se in realtà esse sembrano riflettere l’ambito ecclesiale dell’Asia Minore. La celebrazione del Dio amore ha reso famosa soprattutto la 1Giovanni, ma non mancano spunti molto interessanti anche nelle lettere di Pietro e di Giacomo.




















Giungiamo, così, al terzo e ultimo settore degli scritti neotestamentari. Esso comprende due opere profondamente differenti tra loro e originali nella loro qualità. La prima è il libro degli Atti degli Apostoli, un grande affresco della vita missionaria della Chiesa delle origini tratteggiato dall’evangelista Luca. Da Gerusalemme, il vangelo, predicato da Pietro, dagli altri testimoni e soprattutto da Paolo, raggiunge Roma, la capitale dell’impero, attraversando l’intera area del Mediterraneo. L’attenzione è riservata in particolare a Paolo e ai suoi viaggi missionari. Ma sono la parola di Cristo e lo Spirito Santo l’anima profonda che sostiene la storia della Chiesa e il suo slancio missionario.

A sé stante è anche l’Apocalisse attribuita a Giovanni, l’ultimo libro, che suggella non solo il Nuovo Testamento ma anche tutta la Bibbia. Anch’essa è una descrizione della Chiesa – quella dell’Asia Minore è al centro dei primi capitoli –, non solo nel suo itinerario travagliato nelle vicende storiche ma anche nel suo destino glorioso, raffigurato dalla Gerusalemme celeste, la città della speranza e dell’incontro pieno con Cristo, invocato con passione nell’ultima pagina («Vieni, Signore Gesù!»). L’opera, costellata di simboli gloriosi e terribili, affidata al linguaggio “apocalittico” che era presente già nell’Antico Testamento (Ezechiele e Daniele), si rivela perciò come un grandioso annunzio di fiducia rivolto alla Chiesa in crisi al suo interno e perseguitata all’esterno e come una vigorosa interpretazione della storia. Essa è apparentemente dominata dalle forze mostruose del male, ma la meta che l’attende è luminosa e segnata dalla vita e dal bene.

Abbiamo, così, tracciato la mappa essenziale della Scrittura sacra cristiana: essa, però, non si esaurisce in questi 27 scritti ma si unisce in un ideale abbraccio anche ai 46 libri dell’Antico Testamento e tutti insieme i 73 scritti compongono la Bibbia, il grande libro della parola di Dio. I due Testamenti, il Primo o Antico e il Nuovo, costituiscono non solo la Rivelazione del mistero di Dio ma anche la «lampada per i passi» dell’uomo nel cammino della storia (Salmo 119,105). Infatti, «tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (vedi 2Timoteo 3,16).

Cristo non è venuto per «abolire la legge o i profeti, ma per dare compimento» (Matteo 5,17). È per questo che egli costituisce la chiave d’interpretazione delle Scritture nel loro progetto unitario di salvezza, iniziato con Israele e condotto a sviluppo e a pienezza nel popolo di Dio, a cui tutta l’umanità è invitata a iscriversi e ad aderire attraverso la fede e la giustizia. Cristo, connettendosi ai profeti, continua a interpellare ogni uomo perché accolga e partecipi al Regno di Dio che egli annunzia ed edifica nella storia. La lettura del Nuovo Testamento non è, allora, soltanto la conoscenza della figura di Gesù e della sua realtà profonda e misteriosa né delle testimonianze che su di lui ci hanno lasciato coloro che lo videro e ascoltarono né delle vicende iniziali della cristianità.

Seguire accuratamente e penetrare le pagine neotestamentarie vuol dire anche essere provocati a una risposta personale, a un incontro con la figura di Cristo che ci ripete la domanda rivolta ai discepoli di allora: «Voi, chi dite che io sia?» (Matteo 16,15). La nostra risposta è possibile dopo averlo seguito nei percorsi di fede che queste pagine del Nuovo Testamento ci delineano, invocando la sua vicinanza, ma anche pregandolo di mettersi lui per primo a cercarci, come diceva il filosofo Soren Kierkegaard: «Gesù, vieni in cerca di me sui sentieri dei miei traviamenti ove io mi nascondo a te e agli uomini». Paolo, infatti, aveva scritto ai Romani: «Isaia arriva a dire: Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non si rivolgevano a me» (Rm10,20).