martedì 30 dicembre 2014

L'AMICIZIA, SECONDO ARISTOTELE


Quante volte ci è capitato di sentirci traditi da quelli che pensavamo fossero nostri amici? Quante volte abbiamo investito sentimenti ed energie in un rapporto che poi si è rivelato avere un peso ben diverso per l’altra persona? Più spesso di quanto si creda, nelle opere dei filosofi antichi vengono prese in considerazione tematiche che si rivelano fortemente attuali e, nonostante la distanza temporale, le «lucide analisi e i consigli» di questi pensatori sono più che mai moderni ed applicabili nella nostra vita. E’ il caso di Aristotele, che affronta il tema dell’ «Amicizia» nell’ambito di una serie di riflessioni sull’«etica» e sulla «politica», a riprova del fatto che nell’antichità l’«Amicizia» veniva considerata come fonte di arricchimento personale e come bene per l’intera comunità, tanto che il filosofo afferma che anche l’uomo felice ha bisogno di amici: sembra assurdo attribuire all’uomo felice tutti i beni e non attribuirgli gli amici, il che è ritenuto generalmente il più grande dei beni esteriori.

Aristotele classifica minuziosamente le «forme» di amicizia, i motivi che portano al «crearsi» di nuove amicizie e quelli che ne determinano la «rottura». La prima forma di amicizia tra due persone è quella che nasce a causa dell’«utilità», che porta a ricercare la compagnia dell’altro in quanto questi ci permette di raggiungere un determinato fine; la seconda è quella che nasce a causa del «piacere», per cui la compagnia dell’altro ci è gradevole; la terza, quella che si fonda sulla «bontà», è definita come amicizia perfetta, poiché in questo caso due persone si amano per se stesse, per il loro intrinseco valore morale.

Nei primi due casi, Aristotele parla di «Amicizia accidentale», poiché la piacevolezza e l’utilità del rapporto ne rappresentano «qualità temporanee e mutevoli». Dunque , coloro che amano a causa dell’ «utile», amano a causa di quello che è bene per loro, e quelli che amano per il «piacere» lo fanno per ciò che è piacevole per loro, e non in quanto l’amato è quello che è, ma in quanto è utile o piacevole. Per conseguenza queste amicizie sono «accidentali». Per conseguenza le amicizie di tale natura si dissolvono facilmente. Al contrario se l’«Amicizia» si fonda sulla «bontà», allora il rapporto sarà durevole e profondo. L’«Amicizia» perfetta, invece, è l’amicizia degli uomini buoni e simili per virtù: costoro, infatti, vogliono il bene dell’altro, in modo simile in quanto sono buoni, ed essi sono buoni per se stessi. Coloro che vogliono il bene degli amici per loro stessi sono i più grandi amici.

Parole come queste ci inducono a riflettere sui legami che abbiamo attualmente. Prima di tutto per prendere coscienza di quelle persone che possiamo realmente definire nostri amici e chiederci se ci stiamo comportando correttamente, coltivando l’amicizia verso di loro come una virtù, assumendoci la responsabilità di mostrare loro dove sbagliano e cercando noi stessi per primi di trarre dai loro pregi nuovi stimoli per migliorarci.

Essere amici non significa far credere all’altro che abbia sempre ragione, ma cercare insieme di prendere atto dei propri limiti e dei propri sbagli per evitare, se possibile, di ripeterli in futuro!


Viceversa dobbiamo anche prepararci ad affrontare eventuali allontanamenti da parte di persone con cui abbiamo condiviso un certo tratto della nostra vita, ma con le quali eravamo legati solo dalla piacevolezza della loro compagnia, magari dalle uscite del fine settimana, ma con cui non abbiamo intrapreso un percorso di evoluzione intellettuale o spirituale.

Ancora una volta Aristotele ci viene in aiuto. Innanzitutto ricorda che l’«Amicizia» implica la consapevolezza del tipo di rapporto da parte di entrambi i membri e spesso è proprio una mancanza di chiarezza circa i motivi che ci legano all’altra persona che può dar luogo a fraintendimenti e delusioni; quindi ci fa riflettere sul fatto che le vere amicizie, quelle perfette, si possono coltivare solo con un «ristretto numero di persone», con le quali instaurare un legame autentico e profondo, che implica anche lo stimolarsi e il crescere insieme: si ritiene poi che diventino anche migliori col mettere in atto l’«Amicizia», cioè correggendosi a vicenda.

Proprio per questo il filosofo afferma che la vera amicizia possa essere rotta solo se le due persone arrivano a livelli di maturazione molti diversi, per cui risulta difficile mantenere una comunanza di intenti e favorire la crescita reciproca. D’altra parte è dovere del «buon amico», nel rispetto dell’amicizia stessa, fare ogni sforzo per aiutare l’altro nel suo percorso evolutivo. Non così negli altri due casi, poiché se l’amico non è più in grado di offrire «utilità o piaceri», causa dell’«Amicizia» stessa, questa sarà destinata a finire naturalmente.

All'amicizia sono interamente dedicati «l'ottavo e il nono libro dell'Etica Nicomachea», uno dei capolavori di Aristotele. Il filosofo la considera «non solo necessaria, ma anche bella», al punto che «nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se fosse provvisto in abbondanza di tutti gli altri beni». L'amicizia, che è «una virtù» o s'accompagna alla «virtù», è dunque indispensabile in ogni fase della vita umana. Ma, mentre l'amicizia fondata sul «piacere» e sulla «convenienza» inevitabilmente finisce, quella fondata sulla «virtù» è destinata a durare e i suoi effetti benefici si fanno sentire anche nella comunità politica, il cui solo scopo è il «Bene comune».





sabato 27 dicembre 2014

SENSO COMUNE E NUOVO REALISMO


il «Senso Comune» non è la conferma filosofica del «Senso Comune». Anche per le scienze della natura la Realtà esiste indipendentemente dall'uomo. Da qualche millennio questo è anche il comune modo di pensare dei popoli, il loro «Senso Comune». Ma ben prima della Scienza è la Filosofia, sin dai suoi inizi, a riflettere sul rapporto tra l' «Essere umano e la Realtà» , e sul significato di queste due dimensioni. Prevale, con la grande Filosofia classica (Platone, Aristotele) la conferma del «Senso Comune». E più tardi tale conferma sarà chiamata «Realismo».
La prospettiva espressa dal principio di Protagora che l' uomo è la misura di tutte le cose (e che quindi la «Realtà» dipende dal modo in cui l' individuo pensa e vuole) resta a lungo emarginata. Ma, proprio perché conferma il «Senso Comune», il «Realismo» filosofico non è il «Senso Comune». La Filosofia, infatti, viene alla luce evocando un «Senso» prima sconosciuto della parola «Verità» , il «Senso» che domina l' intera tradizione dell' Occidente dai Greci a Hegel, ad Einstein; cioè la «Verità» come Scienza (Epistéme) Incontrovertibile, fondata su principi primi innegabili e per sé evidenti ; e il «Realismo» filosofico ritiene che il «Senso Comune» abbia «Verità».
Ma è la Filosofia a conoscere la «Verità» del «Senso Comune», non il «Senso Comune». Per avere un esempio della «Potenza» e complessità concettuale del «Realismo» filosofico si tenga sott'occhio questo passo dell' Etica nicomachea di Aristotele: Ciò di cui abbiamo Scienza non può essere diversamente da come è; le cose che possono essere diversamente, invece, quando siano fuori della nostra osservazione, ci rimane nascosto se esistano o no. (La parola osservazione traduce la parola «Theoréin», che significa la manifestazione del mondo, che accade con l' esistenza dell'uomo).
Si può dire che in questo passo sia addirittura anticipato quell'importante atteggiamento del pensiero contemporaneo che è la Fenomenologia fondata da Edmund Husserl, per la quale è «Verità» Tutto, ma anche solo ciò che è osservabile (manifesto, immediatamente presente, sperimentabile); e quindi non è possibile che, con «Verità», venga affermato qualcosa intorno a ciò che non è osservato. Proprio per questo la Fenomenologia non è una conferma del nostro «Senso Comune».
Aristotele non riconoscerebbe ciò che pure si è sviluppato dal proprio seme; eppure la sua è una critica radicale del «Senso Comune» in quanto sussistente al di fuori della conferma che l' «Epistéme» gli dà: tutto ciò che esso dice non è Scienza ( Epistéme ). Inoltre, per Aristotele, la «Realtà» di cui c' è Scienza e che quindi esiste indipendentemente dall'uomo è più ampia della «Realtà» di cui, secondo la Fenomenologia, c' è Scienza (e anche Husserl intende la Filosofia come Scienza rigorosa). La Scienza è infatti per Aristotele (come per l'intera tradizione occidentale) anche Scienza di Dio, Metafisica. Il «Realismo» filosofico greco si è sviluppato nella Filosofia patristica e scolastica (Agostino, Tommaso, ecc.), e quindi nella dottrina della Chiesa cattolica e delle altre Chiese cristiane, e poi nel Rinascimento e nella stessa Filosofia moderna pre kantiana, che però procede a una forma più elaborata di conferma del «Senso Comune».
E il «Realismo» è stato messo in questione da Kant e dall' idealismo, per poi riaffacciarsi in varie correnti della Filosofia degli ultimi due secoli, Marx e marxismo compresi. Si continua a dire che ci si è liberati della cultura idealistica. Ma quanti conoscono l' idealismo da cui ci si deve liberare? Per l' Idealismo (e il Neoidealismo italiano) è fuori discussione (come per il Realismo) che la natura esiste indipendentemente dalle singole coscienze degli individui umani. È dalla coscienza Trascendentale (liquidata con troppa disinvoltura) che la natura non è indipendente.
La Scienza, si diceva sopra, è realista. E la Filosofia analitica sostiene per lo più che per sapere come sia fatto il mondo bisogna rivolgersi alla Scienza moderna (che non è più Epistéme ). Sennonché, se il Realismo della Scienza moderna non vuol essere semplice, ingenuo «Senso comune», allora è una tesi filosofica, è cioè quel realismo filosofico la cui «Potenza» e complessità concettuale e i cui rapporti con le concezioni non realistiche sfuggono completamente al moderno sapere scientifico , e sarebbe un peccato se sfuggissero anche al Nuovo Realismo, stando al modo in cui esso è stato presentato. Si aggiunga che la Scienza intende fondarsi sull' Osservazione. Ma la gran questione è che la «Realtà», che per la Scienza esisterebbe egualmente anche se l' uomo non esistesse (l' uomo, dice la Scienza, compare soltanto a un certo punto dello sviluppo dell' universo), è per definizione ciò che non è osservato dall'uomo, ciò di cui l'uomo non fa esperienza. Ciò significa: non può esserci esperienza umana di ciò che esiste anche quando l' umano non esiste; e quindi l' affermazione che la «Realtà» è indipendente dall'uomo finisce anch' essa con l'essere una semplice «Fede» o quella forma di «Fede» che è il grado anche più alto di Probabilità.
Ora, la Filosofia , come il mito e poi la Scienza moderna , è nata per difendere l'uomo dal dolore e dalla morte dovuti alla natura e alla lotta tra gli uomini. In questo «Senso» la Filosofia (come il Mito e la Scienza), nascendo dalla paura, è mossa da un' istanza Politico-Morale. Ma la Filosofia si accorge che il rimedio non può essere quello inaffidabile del Mito, ma deve avere «Verità» e la «Verità» non può fondarsi sulla dimensione Politico-Morale. Per la sua assoluta spregiudicatezza la «Verità» deve chiedersi perché la violenza dei più forti debba essere bandita. E deve saper rispondere. Altrimenti essa è semplice edificazione.

Un' ultima osservazione su Nietzsche: la sua tesi che non esistono fatti ma solo interpretazioni non va intesa in «Senso» assoluto: riguarda solo un certo insieme di eventi. Infatti, che il Divenire del mondo esista non è per Nietzsche un'interpretazione affidata da ultimo alle decisioni storiche e quindi cangianti dell'uomo: che il Divenire (la storia, il tempo) esista è per Nietzsche, anche per Nietzsche, l' Incontrovertibile «Verità» fondamentale in base a cui è necessario negare ogni «Realtà» Eterna, Immutabile, Divina che sovrasti il Divenire e lo domini e guidi. Questa «Verità» è la Grande «Fede» al cui interno cresce l' intera storia dell' Occidente e, ormai, del Pianeta. 

martedì 23 dicembre 2014

SCETTICISMO E FILOSOFIA CONTEMPORANEA



La ricerca della felicità e l’elaborazione di regole di saggia condotta sono i temi propri della filosofia scettica, così come lo furono di quella stoica ed epicurea. Tuttavia andremmo del tutto fuori strada e perderemmo di vista lo spessore filosofico e la portata storica di queste scuole se ci limitassimo a considerare solo i criteri di comportamento e gli stili di vita. Ontologia, teoria della conoscenza, fisica ed etica sono dimensioni integrate l’una nell’altra e tale densità non viene meno neppure nelle scuole anche se risulta più pragmatica e plurale che nei grandi ed individuati sistemi come quelli di Platone ed Aristotele. 
La filosofia degli scettici è una critica radicale, poiché “azzera” ogni pretesa di verità. Ma quale verità azzera lo scetticismo? Certamente quella del senso comune che si accontenta dell’ovvio e confonde l’immediato e l’ingenuo con il vero; azzera, inoltre, la pretesa di verità delle filosofie, mostrandone l’infondatezza e l’arbitrio coperti ambedue dalla presunzione dell’assoluta certezza. 
Lo scetticismo si sviluppa come grande corrente critica sia del comune intelletto, vale a dire delle credenze dei più, che dell’intellettualismo dei filosofi. Gli scettici mostrano come le diverse opinioni si contraddicano e come siano insostenibili. Così facendo essi riprendono la tradizione dei sofisti, di Socrate e di alcune scuole socratiche, ma con un diverso taglio e una diversa intenzione. 
Nei filosofi dell’età classica il gioco delle apparenze si risolveva prioritariamente nell’azione: proprio perché non si dà verità, la verità si risolve nell’efficacia. Per gli scettici, al contrario, poiché non è formulabile alcuna verità bisogna astenersi sia dai giudizi che dalle decisioni, perfino da quelle utili e necessarie nella vita pratica e quotidiana.
Il nucleo della dottrina scettica è l’ “indifferenza” sia nell’accezione teorica che pratica. È improprio ritenere che la filosofia scettica neghi “categoricamente” ogni verità. Su questo punto è illuminante Emanuele Severino quando scrive: «Se per “scetticismo” s’intende la negazione categorica di una qualsiasi verità (e quindi di una qualsiasi epistéme), già da questi primi tratti appare l’estraneità di Pirrone allo scetticismo. Ma è probabile che quella negazione categorica di ogni verità non sia mai stata una filosofia storicamente reale, ma piuttosto un’idea limite, giacché ben presto il pensiero filosofico si è accorto che la negazione categorica di ogni verità pretende valere essa come verità assoluta. Gli scettici, infatti, non presentano il loro pensiero come una negazione della verità, ma come la constatazione che ad ogni tesi filosofica si contrappone un’antitesi che mostra ugual peso e valore, e che dunque il pensiero si trova in una contraddizione dalla quale esso non è capace di uscire, ma “cerca” di uscire. In greco “ricerca” si dice sképsis; e skeptikósscettico” è colui che ricerca». 
Lo scetticismo dunque è piuttosto un prospettivismo che prende atto di come la realtà sfugga ad ogni giudizio e tutte le cose siano mobili, dubbie, incerte. Proprio per questo non si può dare credito né alle sensazioni, né alle opinioni, né ai giudizi. L’atteggiamento che l’uomo deve guadagnare nei confronti del mondo è quello del “non parlare” (aphasía) e dell’ “imperturbabilità” (ataraxía). In Pirrone ciò conduce più che all’elaborazione di una dottrina, ad uno stile di vita, ad una condotta. Egli non scrisse opera alcuna, ma visse e praticò la più totale “apátheia” (cioè apatia o assenza di passioni) ed indifferenza verso il mondo.     

Per «Scetticismo» s'intende  dunque qualsiasi atteggiamento Filosofico che implichi la Negazione o il Dubbio intorno «Alla possibilità della conoscenza Umana» .Lo «Scetticismo» filosofico  è la posizione filosofica fondata sull’analisi critica di quella conoscenza e di quelle percezioni che in un certo momento vengono ritenute vere, e sulla questione della possibilità di ottenere una conoscenza assolutamente vera. 
Lo scettico è colui che nega la possibilità di conoscere la «Verità» o più specificatamente non nega di possedere l'Idea della cosa pensata ma, poiché la nozione dell'oggetto reale si basa sui «Sensi», che danno percezioni ingannevoli e mutabili nel tempo, dubita che al pensiero della cosa corrisponda la realtà fisica dell'oggetto pensato. Lo «Scetticismo» si sviluppa in Grecia dal IV secolo a.C. al II secolo d.C. Il «Pirronismo», appunto, deriva la sua denominazione da Pirrone di Elide (360-275 a.C.) e fa capo a lui e al suo discepolo Timone di Fliunte (circa 320 a.C. - circa 230 a.C.). 
La corrente filosofica, che si sviluppa tra la seconda metà del IV secolo a.C. e il III secolo a.C., afferma l'impossibilità di conoscere una realtà sempre contingente e mutevole per cui al Saggio non resta che l'«aphasía», restare come muto e rinunciare ad ogni affermazione qualificante. 
La Filosofia Contemporanea rifiuta la pretesa di conoscere Verità Universali e Incondizionate; ma si chiede anche che «Senso» e valore abbia questo suo rifiuto. Già la Filosofia Antica sapeva che lo «Scetticismo», cioè la negazione di ogni «Verità Assoluta», si presenta come una «Verità Assoluta» e quindi smentisce se stesso. E la Filosofia Contemporanea sta rendendosi conto che per non soccombere di fronte a questo argomento (l' «argomento contro lo scettico») deve differenziarsi dallo «Scetticismo» in genere. A tal fine, essa va sempre più riconoscendo che le proprie tesi , innanzitutto il rifiuto della tradizione filosofica , non sono «Verità Incondizionate». 
Colui che vuole imboccare la strada dello «Scetticismo» lo deve necessariamente fare solo se crede che il Pensiero Contemporaneo sia il rifiuto di ogni «Verità Assoluta». Ma la Filosofia del nostro tempo non e' uno «Scetticismo assoluto»: essa e' la Fedeltà estrema al principio fondamentale di tutto il pensiero dell'Occidente, ossia alla persuasione che l' «Evidenza Suprema» e la «Verità Incontrovertibile» e' l' Instabilità e il «Divenire» del mondo in cui viviamo (Vedi post Febbr. e Marzo 2014 Tecnica e senso greco della cosa,  Il Divenire e Relativismo e Verità Assoluta) , e tale riconoscimento del «Divenire» e' lo stesso riconoscimento che l' unica «Verità Immutabile» e' la «Negazione» (ossia il Divenire) di ogni «Verità Immutabile». 

giovedì 18 dicembre 2014

FILOSOFIA STOICA E DESTINO



Nella filosofia antica, la dottrina e la tradizione, che, rifacendosi ai principi di Zenone di Cizio (III-II sec. a.C.), considerava il "cosmo" come un ordine razionale e provvidenziale, identificando la vera felicità nella virtù e la sapienza nella serena accettazione degli eventi e in  particolare del “dolore” e della “morte”, la quale poteva essere volontariamente ricercata quale mezzo per l’affermazione della dignità e della libertà spirituale. 

Gli Stoici sostennero le Virtù dell'autocontrollo e del distacco dalle cose terrene, portate all'estremo nell'ideale dell'«Atarassia», (la perfetta pace dell’anima che nasce dalla liberazione delle passioni) come mezzi per raggiungere l'integrità morale e intellettuale. Nell'ideale stoico è il «dominio» sulle passioni o «Apatìa» che permette allo Spirito il raggiungimento della saggezza. Riuscire è un compito individuale, e scaturisce dalla capacità del saggio di disfarsi delle idee e dei condizionamenti che la società in cui vive gli ha impresso. Lo stoico tuttavia non disprezza la compagnia degli altri uomini e l'aiuto ai più bisognosi è una pratica raccomandata.

L’assunto centrale e la proposizione decisiva di tutta la filosofia stoica fu il seguente: vivere conformemente al “Logos (omologouménos zén). Il “Logos” degli stoici non si deve intendere secondo un’accezione semplicemente logica, vale a dire come retto ragionamento, né tanto meno in un’accezione gnoseologica, vale a dire come teoria della conoscenza, ma al contrario lo si deve intendere come legge generale dell’universo e come principio immanente del suo essere e del suo prodursi. Il “Logos” permea l’universo.

Tuttavia, la dottrina del “Logos” si specifica in ambiti particolari a seconda degli aspetti con cui il “Logos” si considera. «Era compito della “fisica” dimostrare come il “Logos”, in quanto principio creativo, dà forma al cosmo; dell’ “etica”, come esso indichi all’uomo la meta della vita e costituisca la norma dell’agire. La base della “fisica” e dell’ “etica”, come di ogni altro lavoro scientifico, doveva però essere posta da una dottrina specifica, la “Logica”, la quale indaga il “Logos” in quanto principio della nostra esistenza spirituale, esamina le forme e le leggi secondo cui si attuano il pensare e il conoscere e utilizza i risultati ottenuti per elaborare una propria metodologia».

Il pensiero si manifesta attraverso il linguaggio. Per altro verso il linguaggio reagisce sul pensiero e l’influenza. Per esprimere quindi la verità del “Logos” è necessario un linguaggio trasparente e senza equivoci. Era necessario dunque controllare tutto il sistema delle espressioni e perciò il loro valore di verità. Da qui la centralità che la “Logica” assume nella filosofia degli stoici.     

Gli stoici dividevano la Filosofia in tre discipline: la «Logica», che si occupa del procedimento del conoscere; la «Fisica», che si occupa dell'oggetto del conoscere; l'«Etica», che si occupa della condotta conforme alla natura razionale dell'oggetto. Essi portavano un esempio: la «Logica» è il recinto che delimita il terreno, la «Fisica» l'albero e l'«Etica» è il frutto. 

In riferimento alla «Fisica», l'ordine presente all'interno del cosmo è inoltre qualcosa di «Necessario»: una necessità che non è da intendersi meccanicamente alla maniera degli atomisti, bensì in un'ottica finalistica. Nulla infatti avviene per caso: è il «Fato», o il «Destino», a guidare gli eventi. E poiché tutto accade secondo «Ragione», il Logos divino è anche «Provvidenza» (prònoia), in quanto predispone la realtà in base a criteri di giustizia, orientandola verso un fine prestabilito. La «Fisica» stoica aderisce pertanto alla convinzione giusnaturalista che esista un diritto di natura, al quale è giusto conformarsi, e di cui le diverse legislazioni dei singoli Stati sono solo imperfette imitazioni.

Dunque , In questo grande universo spirituale campeggia la dottrina secondo cui tutto ciò che accade e' conforme al «Destino» al «Fato»: La si ritroverà nella Filosofia e nella Scienza Moderna (Spinoza, Schopenhauer, Determinismo).  Uno dei bersagli principali della Cultura Cristiana e, insieme, ma per motivi diversi, di quella Contemporanea. 

In gioco e' il «Senso» della «Libertà» dell' uomo. Gli avversari di questa dottrina l'hanno spesso trasformata in caricatura. Quante volte abbiamo sentito dire che «gli uomini non sono burattini nelle mani di un burattinaio»! Come se con questa affermazione si avesse partita vinta sulla Dottrina Stoica e classica del Fato! 

Già il grande Origene inveiva in modo improprio contro gli stoici: ma non vedete che siamo noi uomini a decidere, a scegliere, a volere questo invece di quest' altro; non vedete che mangiamo e ci muoviamo perché vogliamo mangiare e muoverci? O non siete piuttosto degli «spudorati» a negare tutto questo? Gli stoici vedono quel che vedono tutti gli altri. E non sono spudorati. 

Certo, i Greci muovono contro Troia perché vogliono vendicarsi del rapimento di Elena. Senza questa Volontà sarebbero rimasti a casa. In questo «Senso» non erano burattini. Ma da dove viene la loro Volontà di far guerra a Troia? Con questa domanda gli stoici sollevano il problema della «Libertà» e del «Fato» a un livello più alto. E rispondono che anche quella Volontà dei Greci (come la tempesta che avrebbe distrutto la loro flotta al ritorno ) e' opera del «Destino». 

Non e' così evidente, infatti, che le decisioni degli uomini siano libere, cioè che invece di esse si sarebbero potute realizzare le decisioni opposte. Kant lo sapeva molto bene. Sapeva che la «Libertà» non e' qualcosa che si possa vedere, non e' un fatto che si mostra nell'esperienza. L' uomo non e' visibilmente libero: si decide di considerarlo tale. Ma, daccapo, a che cosa e' dovuta questa decisione? Gli stoici pensavano che anch'essa e' opera del «Fato»; e che dunque chi decide così non conosce la Verità .









giovedì 11 dicembre 2014

FILOSOFIA «SENSO» DELLA VERITA'


L’idea centrale, e nel contempo il grande «Senso» tradizionale della parola «Filosofia» mi sembra essere l’idea di sforzo verso la sintesi totale. La «Filosofia» mi pare essere essenzialmente, ed anche, se si vuole che la parola abbia un «Senso» proprio e preciso, esclusivamente, la «Metafisica»; e la «Metafisica» è, secondo la definizione di Aristotele, la scienza dell’esistente in quanto esistente; o piuttosto, andando un poco al di là, dal pensiero di Aristotele, la Scienza delle condizioni a «priori» dell’«Esistenza» e della «Verità», la scienza della «Ragione» e della «Razionalità» universali, la scienza del «Pensiero» in sé medesimo e nelle «cose». 

L'Empirismo è una «Filosofia»? Si, nel «Senso» che pone e non può non porre il problema della razionalità universale; ma poiché la risolve negativamente, deve essere chiamato una «Filosofia» negativa, o anche una negazione della «Filosofia».

La Morale fa parte della «Filosofia»? No, ma ne è il principale corollario, la maniera con cui dobbiamo concepire e condurre la nostra vita nella sola dipendenza dell'idea che ci facciamo dei rapporti dello «Spirito» con la «Natura», sia in generale, sia, particolarmente, in noi. 
La «Filosofia» studia lo «Spirito», non solo nella misura in cui si distingue dai suoi oggetti, ma anche nella misura in cui è un elemento costitutivo dell’universo. Mentre la scienza ha per oggetto la realtà in quanto materiale (è per questo che la scienza tende alle matematiche, che sono la scienza della materia pura, o per lo meno della spazio), la «Filosofia» ha per oggetto la realtà in quanto «Spirito». La parte più alta della «Filosofia», come diceva Aristotele, è una «Teologia»; il suo oggetto non è altro che lo «Spirito assoluto», Dio. 
La «Ragione» dei Greci e' innanzitutto «Ragione» Filosofica; ossia che il pensiero geometrico-matematico dei Greci sorge all'interno del loro pensiero filosofico: all'interno della «Volontà» di aprire e stabilire la dimensione originariamente evidente della «Verità», su cui fondare ogni sapere e ogni agire dell'uomo, e appunto il rapporto della «Democrazia» con questa Suprema forma di razionalità, in cui la Filosofia consiste. E non si tratta di un rapporto accidentale, perché la «Politica» fa la sua comparsa, nella storia dell' Occidente, come «Volontà» di conformare l'agire della polis, l'agire dello Stato, l'agire Comune, al «Senso» inaudito della «Verità», portato per la prima volta alla luce dalla Filosofia. 
Agire Politicamente e Eticamente significa per i Greci agire alla luce della «Verità». L'influenza di Anassagora su Pericle e' emblematica. La «Libertà», dice Anassagora, scaturisce dalla Filosofia (theoria). Noi filosofiamo, dice Pericle al popolo. Sin dall' inizio la Filosofia e' il grembo di ciò che, a partire dai Greci, chiamiamo «Politica», e dunque anche della grande forma di «Politica» che e' la «Democrazia». Non solo la Filosofia di Pericle sta più in alto dell'apprezzamento della quotidianità, del lavoro e della gente comune, ma già Eschilo e' il filosofo che indica esplicitamente e potentemente l' essenziale dipendenza della «Democrazia» dalla «Verità» che si mostra nel culmine della «Sapienza», ossia ciò che verrà chiamato «Filosofia». I Greci non hanno una «Teoria Democratica», bensì una «Teoria filosofica della Democrazia». 

venerdì 5 dicembre 2014

PENSIERO E LINGUAGGIO


Proprio perché afferma l' inseparabilità di «Pensiero» e «Linguaggio», la Filosofia contemporanea e' spinta ad attribuire al «Linguaggio» i caratteri che la Filosofia moderna, da Cartesio a Hegel, ha attribuito al «Pensiero». Heidegger scrive che dappertutto ci si fa incontro il «Linguaggio». La grande scoperta di Cartesio e' che dappertutto ci si fa incontro il «Pensiero», giacché il «Pensiero» e' tutte le cose, in quanto sono in noi, accadono in noi e in noi vi e' coscienza di esse. Quel che dappertutto ci viene incontro, anche il dolore, il piacere, le cose sensibili, sono cioè «Idee». 
Aristotele non lo avrebbe mai detto, perché per lui quel che dappertutto incontriamo sono «Cose», «Enti». La casa, l' albero, il monte sono «Cose»; e le nostre «Idee», per Aristotele, sono la via lungo la quale le «Cose» ci vengono incontro. 
Ma Cartesio scopre che l' albero, il monte e tutte le «Cose» di cui abbiamo coscienza sono appunto qualcosa di «Pensato», di «Conosciuto», e quindi non possono essere le «Cose» reali che esistono indipendentemente dal «Pensiero». Alberi, monti e tutto il resto sono cioè soltanto «Idee» (sì che l' Idea non e' più ciò mediante cui si conosce, ma e' ciò che si conosce). Da qui prende inizio il grande sviluppo del Pensiero moderno, che conduce a Kant e poi all'Idealismo. 
Il rifiuto della separazione di «Pensiero» e «Linguaggio» e' continuamente ribadito dalla Filosofia contemporanea. Ma nella Filosofia contemporanea la fondazione di tale rifiuto tende a restare in ombra. Cioè l' inseparabilità di «Pensiero» e «Linguaggio» può essere mostrata con una radicalità superiore a quella messa in atto dalla stessa Filosofia che oggi pone il «Linguaggio» al centro dell'attenzione. La Necessità non resta cioè travolta dal divenire del «Linguaggio», a differenza di quanto afferma la Filosofia contemporanea. 
Proviamo dunque, volgendoci al «Linguaggio», a non dimenticare Cartesio e quel che ne e' seguito. La separazione di «Realtà» e «Linguaggio» (sostenuta dall' intera tradizione filosofica) sembra la cosa più evidente del mondo. Le «Cose» non sono le parole con cui le indichiamo. Per il «Pensiero» pre-moderno e' altrettanto evidente che le «Cose» non sono le «idee» con cui le pensiamo. Ma poi, si e' visto, Cartesio scorge che queste «Cose» sono «Idee». Ebbene, per quanto possa sembrare strano e assurdo, si tratta di rendersi conto che tutte le «Cose» che ci vengono incontro sono «Parole». 
Ma come e' possibile dir questo? Questa casa non sta forse qui davanti in tutta la sua massiccia consistenza, e quindi come qualcosa di ben diverso da una semplice «parola»? Si , certamente. Eppure noi comprendiamo di aver a che fare con questa consistenza massiccia della casa , comprendiamo di aver a che fare con una casa , solo se quanto ci sta dinanzi si presenta come casa, cioè come un significato che appare all' interno di una «Parola» ben determinata, una «Parola» della lingua italiana: la «Parola» casa. Se facciamo a meno di questa «Parola», quanto ci sta dinanzi non e' più una casa, ma qualcosa d' altro , che però può venirci incontro e farsi comprendere solo presentandosi a sua volta all'interno di un'altra «Parola». Certo, la casa non viene sempre incontro come casa, ma, presso i Greci antichi, come «Oikia», e ai Latini come «Domus», e come «Haus» e «Maison» per Tedeschi e Francesi; ma, sempre, la massiccia consistenza della casa si fa incontro nella luce di una «Parola», e' una «Parola». 
Se si ritiene che la Realtà non sia fatta di «Parole», si dovrà dire allora che la Realtà vera , il vero «Essere», e' indicibile, inesprimibile, ineffabile. In modi diversi, Schlick, Wittgenstein, Heidegger sono giunti ad affermarlo. Ma come l'affermazione che la «Cosa» si identifica alla «Parola» ripete, sul piano del «Linguaggio», l' affermazione cartesiana che la «Cosa» e' «Idea», così l' affermazione che la «Cosa» e' indicibile ripete, su quel piano, la tesi kantiana che la «Cosa» in sé , cioè come distinta dalle nostre «Idee» (o fenomeni), e' inconoscibile. 
L' idealismo, poi, si e' reso conto che anche la «Cosa» in sé  e' pur sempre qualcosa di conosciuto, di pensato, e che dunque non se ne sta chiusa in sé al di là del «Pensiero». Non esiste Nulla al di là del «Pensiero», e quindi ciò che il «Pensiero» Pensa non e' più una semplice Idea o immagine della Realtà vera, ma e' esso stesso la Realtà vera e propria, la «Cosa» in sé. 
Ma non accade lo stesso per il «Linguaggio»? In relazione alla tesi di Wittgenstein e Heidegger che l' «Essere» e' indicibile, ci si deve render conto che l' indicibile e' pur sempre qualcosa di detto e che dunque non può costituirsi al di là del «Linguaggio»: così come l' idealismo aveva visto che la «Cosa» non può costituirsi al di là del «Pensiero». Il «Linguaggio» non può essere oltrepassato, perché non e' più semplice «Parola», ma e' l' «Essere» stesso.

La Filosofia contemporanea tende a questo risultato. Ma nel carattere storico del «Linguaggio» essa vede il segno inequivocabile del «Divenire» al quale l' «Essere» e l' uomo sarebbero definitivamente consegnati. Ma e' così indiscutibile che il «Linguaggio» dica solo «Cose» che vengono da esso continuamente trasformate, prodotte dal «Nulla» e risospinte nel «Nulla»? Che l' «Essere» sia «Divenire» e' la Fede fondamentale dell'Occidente (Vedi Post Marzo 2014 Il Divenire evidenza suprema e Post Maggio 2014 la Fede nel Divenire)  e dunque anche della riflessione contemporanea sul «Linguaggio», che identifica l' «Essere» e il «Linguaggio». Mettere in discussione questa Fede significa dunque mettere in discussione il modo in cui il «linguaggio» e' inteso dalla Filosofia contemporanea. Solo scendendo nel cuore più profondo del «Linguaggio» dell'Occidente e' possibile stare oltre il «Linguaggio».

sabato 29 novembre 2014

ERESIA-UTOPIA-FILOSOFIA: L'INTRECCIO


Usata nella cultura cristiana per indicare una dottrina che si allontana dalla predicazione apostolica, «Eresia» (hàiresis) è parola costruita sul verbo «hairèin», che nell'antica lingua greca significa «prendere una cosa trattenendola nel proprio ambito e, quindi, togliendola via dal luogo in cui si trovava, sì che questo prendere è uno scegliere, avendo la forza di mandare a effetto ciò che è scelto». Per il Cristianesimo l' «Eresia» è la scelta con cui si toglie via, alterandola, una cosa che appartiene al messaggio autentico di Gesù. Ma, già prima di questo messaggio, gli uomini vivono per millenni nel mondo del mito, che domina e regola la loro esistenza. E sei secoli prima di Cristo il popolo greco, per la prima volta, prende le cose del mondo, togliendole via dal loro essere interpretate dal mito e le trattiene all'interno di una «Sapienza» che non intende imporsi come abitudine sociale e istinto, ma per la sua «Verità», cioè per l'impossibilità di essere negata dalla mente dell'uomo. La «scelta» di questa sapienza, che è libera da tutto ciò che non sia la «Verità», è l' «Eresia» da cui nasce la civiltà occidentale e che ben presto prende il nome di «Filosofia». La «Verità» si impadronisce delle cose. La Filosofia è l' «Eresia» originaria. Il Rinascimento ripropone, rispetto al mito cristiano, l' atteggiamento originario della Filosofia.
Telesio, Bruno e Campanella sono appunto accusati di «Eresia» e la società cristiana prende posizione rispetto a essi in modo analogo a quello in cui la democrazia ateniese, ancora avvolta dal mito, condanna Socrate. Muoiono, Socrate e Bruno, per aver «scelto» di farsi guidare non dal mito, ma dalla «Verità». Anche Tommaso Moro viene ucciso per lo stesso motivo. Egli è un santo della Chiesa cattolica. Ma la sua opera più celebre è intitolata «Utopia», una parola da lui coniata per indicare che gli Stati esistenti, in particolare quello inglese, non sono ancora guidati dalla «Verità» quale appare all'interno della sapienza filosofica. Solo se le leggi che guidano lo Stato sono leggi della «Verità», lo Stato può esistere realmente e non in apparenza. Stati apparenti quelli che appaiono nella storia. Non Stati, ma instabilità. Come stabilità resa possibile dalla «Verità», lo Stato, ancora, non esiste, non ha ancora luogo, è ancora «senza luogo». Tommaso Moro vuole esprimere in greco questo concetto e conia la parola «Utopia», che egli ottiene unendo due parole dell'antica lingua greca: ou («non») e tòpos («luogo»). «Utopia» è il non aver ancora luogo, da parte della stabilità del vero Stato.
Anche Campanella e lo stesso Bruno procedono nella direzione di Tommaso Moro. Ma tutti insieme guardano e ripropongono il modo in cui il pensiero greco, sin dal suo inizio, e, nelle forme più splendenti e potenti, con Platone, intende il rapporto tra la «Verità» e lo Stato. La vera «Potenza» e stabilità dello Stato richiedono che esso, la «pòlis», sia guidato dalla «Verità», non dai miti e dalle fedi, come invece di fatto accade, e che dunque l'essenziale «Eresia» della Filosofia, in cui la «Verità» si manifesta, sia insieme la sua essenziale «Utopia». Questo, l' intreccio profondo di «Eresia», «Utopia», «Filosofia».

Scegliendo la «Verità» come luce delle cose, ci si propone di dare un luogo, cioè di realizzare le cose della «Verità». In questo intreccio, l' «Utopia» non ha nulla a che vedere con la fantasia irrealizzabile. Si può dire che le stelle non si trovano in mezzo alle onde e alla sabbia, che tra le onde e la sabbia non c' è un luogo per le stelle, e che, tuttavia, la loro luce guida naviganti e carovane. Si può dirlo. Ma in questo modo si perde di vista che la «Repubblica» di Platone, la res publica, la «cosa pubblica», lungi dall'esser rimasta «senza luogo», semplice fantasia irrealizzabile di un «filosofo», è divenuta invece la grande «Pòlis» in cui l' Occidente, e ormai l'intero Pianeta, consiste. 
Nell' «Eresia-Utopia» della Filosofia viene alla luce, una volta per tutte, il «Senso» della parola più semplice ed essenziale, e più terribile, il «Senso» presente in ogni luogo, il luogo di ogni luogo, il «tòpos» più decisivo per ogni pensiero e per ogni agire dell' Occidente: il «Senso» della «cosa». La «cosa» è ciò di cui ci si impadronisce per dominarla. Non dunque «la guerra è madre di tutte le cose» come dice Eraclito, ma.. «la cosa è la madre di tutte le guerre».

sabato 22 novembre 2014

SCIENZA E VERITA'


Le grandi scoperte della Biologia (Darwin ) , della Fisica (Einstein ) e della Psicoanalisi (Freud ) sono mosse dalla Falsa Convinzione che si possa tracciare un percorso con un inizio e una fine, dal «Nulla» al «Nulla». Eppure, proprio sbagliando, hanno aperto la via alla «Scienza». Per Hawking i buchi neri presenti nell'universo sono voragini in cui vanno definitivamente distrutte le cose che vi precipitano. Leonard Susskind vede in questa tesi la violazione del «Primo Principio della Termodinamica», per il quale la quantità totale di energia dell'universo rimane costante nella trasformazione delle sue forme. Ora la costanza dell'energia è il suo continuare a «Essere»; e l' incostanza delle sue forme è il loro venire a «Essere» e il loro ridiventare «Non Essere», «Nulla». Certo, il fisico si disinteressa del «Senso» dell' «Essere» e del «Nulla», ma il «Primo Principio della Termodinamica» non può disinteressarsene: lo ha dentro di sé, ne è animato. 

All'interno di quest'anima, a cui la Filosofia si rivolge sin dall'inizio, cresce la «Scienza». Si ritiene che la teoria generale della relatività di Einstein e la fisica quantistica di Heisenberg siano incompatibili. Ma si contrappongono mantenendosi entrambe all'interno del «Senso» Greco dell' «Essere» e del «Nulla»: per il determinismo di Einstein le forme di energia escono dal proprio «Esser Nulla» e vi ritornano seguendo un percorso inevitabile (determinato) e quindi prevedibile; per Heisenberg tale percorso non è né inevitabile né prevedibile; ma anche per lui le forme di energia escono e rientrano nel proprio «Nulla». Non è un caso che egli riconduca il concetto di onde di probabilità al concetto aristotelico di dynamis, «Potenza» (cioè alla possibilità reale che uno stato del mondo sia seguito da un cert'altro stato). La Filosofia sostiene spesso la tesi del carattere controvertibile della «Scienza». Anche al tema dell' in-contro-vertibilità la Filosofia si rivolge da sempre. 

Oggi, ciò che decide dove stia la «Verità» non è il costrutto concettuale delle teorie contrapposte, non è la loro incontrovertibilità ma... la loro maggiore o minore capacità di trasformare il mondo conformemente ai progetti che l' «Apparato Scientifico-Tecnologico» planetario si propone. Una «Scienza» che si affanni a dimostrare la «Verità Incontrovertibile» dei propri contenuti combatte una battaglia di retroguardia. E quanto si sta dicendo delle scienze della natura vale anche per quelle logico-matematiche. 

L'esistenza delle geometrie non euclidee, ad esempio, implica che la geometria euclidea sia una «Verità Incontrovertibile» solo in relazione ai postulati e agli assiomi su cui essa si fonda, e dunque non sia assolutamente ma relativamente «Incontrovertibile». Da quando nasce, la Filosofia pensa la «Verità» come in-contro-vertibilità, ossia come ciò contro cui non ci si può rivoltare (vertere), ma che non intende essere una costrizione transeunte e quindi violabile. La connessione tra la «Verità» e l'inviolabile «Principio di non Contraddizione» attraversa tutta la storia della cultura. 

La Filosofia ha voluto giungere in modo incontrovertibile all'affermazione dell' esistenza del «Principio», ma insieme ha reso estrema la «Fede» che è radicata nell'uomo più antico: la «Fede» che le «Cose» e l'uomo abbiano bisogno di qualcosa d'altro da esse, che le spinga sulla terra e le renda disponibili. Qualcosa d'altro che è il mondo degli antenati e dei fondatori della stirpe, il demonico, il divino : l' «Arché», il «Principio» , l’ «Origine» appunto. L' immenso e tremendo sottinteso di questa «Fede» è la convinzione che le cose, di per sé, sono incapaci di stare sulla terra, di per sé incapaci di essere sono preda del «Nulla». Cose morte. La «Morte» e il «Nulla» sono la loro culla naturale. Perché si alzino dal sepolcro occorre dar loro un' «Origine». 

Anche la «Scienza» si muove all'interno della «Fede» nell'«Origine» (ormai divenuta Fede filosofica). Dell'antica origine demonico-divina la concezione filosofica e scientifica sono trascrizioni mondane che di quell'«Origine» conservano l'essenziale. Così accade per l' «Arché» e l' origine della specie, per il «Big Bang» come origine dell'universo, per l' «Inconscio Freudiano» come origine della coscienza. E ancora: per «il lavoro, la storia, il linguaggio, il cervello», come origini della mente e della cultura. In generale, per le cause prossime e remote degli eventi. 

E perfino il «Nulla» è un succedaneo dei vecchi e nuovi dei, il «Nulla» da cui i più oggi pensano, più o meno consapevolmente, che l' esistenza abbia l' «Origine» ultima. Sì, in queste forme dell' «Origine» è presente l' intera sapienza dell'uomo. Ma, proprio perché la «Fede» nell' «Origine» porta sulle proprie spalle un fardello così gravoso, siamo sicuri che non le si debba chiedere se sia in grado di reggerlo? 


martedì 18 novembre 2014

ETICA E SCIENZA


C’è una tendenza ad avere un’ immagine della «Scienza» come semplice fornitrice di occasioni, o come semplice strumento in vista della realizzazione di scopi che non appartengono allo strumento ma, al contrario, si vede una profonda solidarietà tra «Etica e Scienza». Bisogna cominciare a chiedersi il significato di queste parole. «Etica» è una parola greca. Non che prima dei Greci non vi fossero problemi di carattere morale, sebbene, col pensiero greco, l' «Etica» acquista una connotazione che potremmo dire inaudita. I popoli vivono e credono di poter vivere meglio se si alleano con ciò che essi ritengono sia per loro la «Potenza Suprema», e questo è abbastanza naturale, poiché per vivere mi appoggio a ciò che ritengo stabile, capace di reggere. Allora, questo agganciarsi a ciò che si ritiene la «Potenza Suprema» è il vivere in un ambiente rassicurante. 
La parola «Etica» indica appunto il luogo in cui si vive, la consuetudine. «Etica» vuol dire: vivere in un luogo rassicurante perché ci si trova in accordo e non in contrapposizione con la «Potenza». Se vivo in un luogo e so che è minacciato, e so di non avere strumenti per difendermi, vado altrove. Invece «Ethos» in greco indica la consuetudine, che è insieme l' ambiente in cui ci si può difendere. Ma difendersi da che cosa? Dal dolore, dalla morte, dall'angoscia, dalla sofferenza, dai pericoli. 
Ora, con il pensiero greco, questo atteggiamento assume una radicalità , appunto , inaudita: la «Potenza» con la quale ci si allea per sopravvivere e per difendersi dal pericolo è ciò che il pensiero greco chiama «Verità». Se ci si allea con una finta «Potenza», allora l'alleanza è insicura; è quindi inevitabile che emerga l'esigenza di allearsi con ciò che è la vera «Potenza», che l' «Ethos» sia l'alleanza con la vera «Potenza». Ma per fare questo bisogna che cominci a esserci l'idea o il significato della parola «Verità». È solo perché il pensiero greco porta alla luce il significato radicale della «Verità», che ci può essere un'alleanza con la «Potenza» vera
Ora, tutto quello che abbiamo detto dell' «Etica» dobbiamo dirlo anche per la «Scienza», che non è affatto quella semplice occasione di opportunità, quella neutralità di cui si parla. No, anche la «Scienza» merita che si dica di essa ciò che già aveva detto Nietzsche: la «Scienza» nasce dalla paura, così come l' «Etica», perché difendersi alleandosi alla «Potenza» vuole dire cercare di andare oltre la paura. Ciò che noi oggi diciamo «Scienza» è lo sviluppo di tutte le tecniche messe in atto dagli uomini per non avere paura e per riuscire a sopravvivere. Qual è l' «Etica» della «Scienza»? La «Scienza» ha ed è di per sé un' «Etica». Perché ha quell'insieme di procedure che, soprattutto oggi, dà agli uomini la «Fede», la convinzione che essa sia lo strumento che più efficacemente di altri consente di allontanare la paura. Allora «Etica» significa difendersi dalla paura alleandosi alla «Potenza», che oggi viene dalla «Scienza» identificata con la «Potenza» soprattutto Tecnologica; in questo «Senso» non c' è scissione tra «Etica e Scienza». 
Nella tradizione, la vera «Potenza» è quella «Verità» il cui contenuto è soprattutto il Dio, quindi la «Potenza» di una conoscenza indiscutibile che dice in modo indiscutibile: il vero potente è Dio. Oggi non si dice più così, anche se si dice una cosa simile; è cambiato il protagonista, è cambiata la qualifica del potente. 
Oggi il vero potente è la «Tecnica». La «Tecnica» è l' erede della funzione di rassicurazione che nella tradizione veniva compiuta da Dio (Vedi Pubbl. Genn. e Febbr. 2014 in merito alla Tecnica). Da sempre, ma soprattutto nell'età moderna, ciò che si dice «Scienza» è Specializzazione, che separa un certo campo di oggetti, o di cose, da tutti gli altri e lo analizza in base a precisi criteri e metodi. L’analisi appartiene, da sempre, alla Filosofia. Quando uno scienziato considera i rapporti tra il proprio campo e la Filosofia, non parla dunque in nome della propria disciplina. Si porta sul piano della Filosofia, con maggiore o minore coscienza; vi si porta inevitabilmente, e, d'altra parte, anche quando si chiude nel proprio terreno, si appoggia pur sempre a qualcosa che gli è esterno, cioè al «Senso» che il pensiero filosofico ha attribuito alla «Cosa», all'oggetto. 
Anche gli individui seguono (e tradiscono) certe specifiche regole di comportamento. In questo «Senso» delimitano a loro volta un dominio particolare di cose, sono essi stessi, gli individui, specializzazioni. Si muovono però sempre, volenti o nolenti, all'interno delle grandi regole etiche seguite (e tradite) dai popoli a cui appartengono. Ma se oggi nemmeno a uno scienziato è consentito dominare l'intera ricchezza della propria disciplina, come può pretendere la Filosofia di comprendere addirittura il fenomeno «Scienza» nel suo insieme? O di comprendere la storia dell'Occidente? 
La Filosofia del nostro tempo tende a rispondere che questo è impossibile. E, infatti, se le cose vengono dal «Nulla» e vi ritornano, sono essenzialmente estranee le une alle altre, cioè non può esistere né essere conosciuto alcun principio che le unifichi. Il «Senso» greco della «Cosa» sta al fondamento di ogni separare, isolare, specializzarsi dell'Occidente. Oggi quel «Senso» si esprime nell'affermazione che il mondo intero è un insieme di frammenti e che la conoscenza autentica è Specializzazione. Senonché , anche questa affermazione getta uno sguardo sul mondo e ne scorge l' Essenza unificante e vede che questa Essenza è la frammentarietà stessa del mondo, la stessa divisione delle «Cose». Ciò significa che, in qualche modo, la manifestazione del «Senso» unitario del mondo è inevitabile; e che tale manifestazione continua a essere il compito della Filosofia.