Usata nella cultura cristiana per indicare una dottrina che si
allontana dalla predicazione apostolica, «Eresia» (hàiresis) è parola costruita
sul verbo «hairèin», che nell'antica lingua greca significa «prendere una cosa
trattenendola nel proprio ambito e, quindi, togliendola via dal luogo in cui si
trovava, sì che questo prendere è uno scegliere, avendo la forza di mandare a
effetto ciò che è scelto». Per il Cristianesimo l' «Eresia» è la scelta con cui
si toglie via, alterandola, una cosa che appartiene al messaggio autentico di
Gesù. Ma, già prima di questo messaggio, gli uomini vivono per millenni nel
mondo del mito, che domina e regola la loro esistenza. E sei secoli prima di
Cristo il popolo greco, per la prima volta, prende le cose del mondo,
togliendole via dal loro essere interpretate dal mito e le trattiene all'interno
di una «Sapienza» che non intende imporsi come abitudine sociale e istinto, ma
per la sua «Verità», cioè per l'impossibilità di essere negata dalla mente
dell'uomo. La «scelta» di questa sapienza, che è libera da tutto ciò che non
sia la «Verità», è l' «Eresia» da cui nasce la civiltà occidentale e che ben
presto prende il nome di «Filosofia». La «Verità» si impadronisce delle cose.
La Filosofia è l' «Eresia» originaria. Il Rinascimento ripropone, rispetto al
mito cristiano, l' atteggiamento originario della Filosofia.
Telesio, Bruno e Campanella sono appunto accusati di «Eresia» e la
società cristiana prende posizione rispetto a essi in modo analogo a quello in
cui la democrazia ateniese, ancora avvolta dal mito, condanna Socrate. Muoiono,
Socrate e Bruno, per aver «scelto» di farsi guidare non dal mito, ma dalla «Verità».
Anche Tommaso Moro viene ucciso per lo stesso motivo. Egli è un santo della
Chiesa cattolica. Ma la sua opera più celebre è intitolata «Utopia», una parola
da lui coniata per indicare che gli Stati esistenti, in particolare quello
inglese, non sono ancora guidati dalla «Verità» quale appare all'interno della
sapienza filosofica. Solo se le leggi che guidano lo Stato sono leggi della «Verità»,
lo Stato può esistere realmente e non in apparenza. Stati apparenti quelli che
appaiono nella storia. Non Stati, ma instabilità. Come stabilità resa possibile
dalla «Verità», lo Stato, ancora, non esiste, non ha ancora luogo, è ancora
«senza luogo». Tommaso Moro vuole esprimere in greco questo concetto e conia la
parola «Utopia», che egli ottiene unendo due parole dell'antica lingua greca:
ou («non») e tòpos («luogo»). «Utopia» è il non aver ancora luogo, da parte
della stabilità del vero Stato.
Anche Campanella e lo stesso Bruno procedono nella direzione di Tommaso
Moro. Ma tutti insieme guardano e ripropongono il modo in cui il pensiero greco,
sin dal suo inizio, e, nelle forme più splendenti e potenti, con Platone,
intende il rapporto tra la «Verità» e lo Stato. La vera «Potenza» e stabilità
dello Stato richiedono che esso, la «pòlis», sia guidato dalla «Verità», non
dai miti e dalle fedi, come invece di fatto accade, e che dunque l'essenziale
«Eresia» della Filosofia, in cui la «Verità» si manifesta, sia insieme la sua
essenziale «Utopia». Questo, l' intreccio profondo di «Eresia», «Utopia», «Filosofia».
Scegliendo la «Verità» come luce delle cose, ci si propone di
dare un luogo, cioè di realizzare le cose della «Verità». In questo intreccio,
l' «Utopia» non ha nulla a che vedere con la fantasia irrealizzabile. Si può
dire che le stelle non si trovano in mezzo alle onde e alla sabbia, che tra le
onde e la sabbia non c' è un luogo per le stelle, e che, tuttavia, la loro luce
guida naviganti e carovane. Si può dirlo. Ma in questo modo si perde di vista
che la «Repubblica» di Platone, la res publica, la «cosa pubblica», lungi dall'esser
rimasta «senza luogo», semplice fantasia irrealizzabile di un «filosofo», è
divenuta invece la grande «Pòlis» in cui l' Occidente, e ormai l'intero
Pianeta, consiste.
Nell' «Eresia-Utopia» della Filosofia viene alla luce, una
volta per tutte, il «Senso» della parola più semplice ed essenziale, e più
terribile, il «Senso» presente in ogni luogo, il luogo di ogni luogo, il «tòpos»
più decisivo per ogni pensiero e per ogni agire dell' Occidente: il «Senso»
della «cosa». La «cosa» è ciò di cui ci si impadronisce per dominarla. Non dunque «la guerra è
madre di tutte le cose» come dice Eraclito, ma.. «la cosa è la madre di
tutte le guerre».
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