sabato 29 ottobre 2016

SOCRATE


L’indomabile oscillare delle parole tradisce gli uomini più di quanto gli uomini non giochino con le parole. I sofisti tennero testa a quest’emergenza. Tuttavia, per dominarla sino in fondo era necessario che le parole fossero disciplinate, che fossero sottoposte a controlli reiterati e precisi. Solo così, si poteva sfuggire al reciproco scambiarsi delle parti tra “verosimiglianza” e “verità”. Socrate, che appartiene indubbiamente alla cultura dei sofisti, si è fatto carico di questo destino della “parola” e, almeno secondo quanto ci raccontano Platone ed Aristotele, egli fu lo scopritore del “concetto”. 

Socrate, fedele alla sua istanza di principio che è quella di «sapere di non sapere», approda al “concetto” per via negativa, vale a dire prendendo avvio dalla distruzione delle «opinioni correnti». Per far questo egli non espone una dottrina, ma demolisce quelle comunemente invalse (affermate), così come esse si presentano nei discorsi dei più e nelle più svariate occasioni. In una parola, Socrate dialoga. Il “dialogo” è la via regia per acquisire il “concetto” e si articola in «Due» momenti fondamentali, l’«ironia» e la «maieutica», distruttiva la prima, costruttiva la seconda. 

Il metodo socratico è un metodo dialettico d'indagine filosofica basato, dunque, sul “dialogo”. Viene descritto per la prima volta da Platone nei “Dialoghi”. Data la sua natura è chiamato anche "maieutico". Il termine “maieutica” viene dal greco maieutiké (sottinteso: téchne) e significa "arte della levatrice" (o "dell'ostetricia"). L'espressione designa il metodo socratico così come è esposto da Platone nel “Teeteto”. L'arte dialettica, cioè, viene paragonata da Socrate a quella della levatrice: come quest'ultima, il filosofo di Atene intendeva "tirar fuori" all'allievo pensieri assolutamente personali, a differenza di quanti volevano imporre le proprie vedute agli altri con la retorica e l'arte della persuasione (Socrate, e attraverso di lui Platone, si riferiscono in questo senso ai Sofisti). Parte integrante del metodo è il ricorso a battute brevi e taglienti - ovvero la brachilogia - in opposizione ai lunghi discorsi degli altri e la rinomata “ironia” socratica

Nel racconto dello stesso Socrate, l'ispirazione per questo tipo di dialettica derivava dall'esempio che il filosofo aveva tratto da sua madre, la levatrice Fenarete. La “maieutica” comincia dopo le fasi del rapporto maestro-discepolo e dell' “ironia”. In Socrate, l’«ironia» fu strumento per liberare il suo interlocutore dalle credenze acquisite e per avviarlo ad una considerazione critica del mondo. L’«ironia» è la tecnica attraverso cui Socrate mette alle corde gli avversari. Egli conduce un’interrogazione serrata, mostrando, patentemente, di «non sapere» e simulando nel contempo una fiducia nella sapienza dell’interlocutore. A costui la domanda è, per lo più, rivolta nella forma di una richiesta d’informazione. Così facendo, egli conduce l’avversario alla paralisi, all’antilogia (doppio discorso) come situazione inestricabile, e da cui non ci si può in alcun modo districare. 

L’antilogia si profila come una situazione in cui nulla può più essere affermato o negato, poiché tutto può essere ugualmente detto. Ma ciò equivale a dir niente. Si profila già qui, nel dialogo socratico, la genesi retorica del “principio di non contraddizione”. Socrate getta l’avversario in un vicolo cieco e, di fatto, lo intorpidisce, confondendolo, annebbiandolo. La “verità”, se in qualche modo è attingibile, passa dunque per il dubbio e la ricerca. Ma la ricerca è possibile, ed è possibile attingere un risultato solo perché l’uomo possiede in stesso la “capacità” di conoscere. Tutte le esperienze si disperderebbero se non fossero tratte in unità nel “concetto”, se non si fosse capaci di riconoscere il comune nel differente, vale a dire quell’«entità propria» per cui ogni cosa che è, «è quello che è». 

L’uomo è capace del “concetto” poiché sa cogliere l’uno nel molteplice, sa afferrare e trattenere la qualità propria in forza della quale si può dire, ad esempio, che le cose sante sono sante, quelle giuste, giuste, quelle vere, vere, e così per ogni atto e fatto. L’identificazione delle qualità proprie si muterà in Platone nell’identificazione delle proprietà essenziali, e su questa base sarà poi sviluppata l’organizzazione  generale del reale diviso per “generi” e “specie”. Il “concetto”, come il significato stesso della parola rivela, equivale a “prendere insieme”, “raccogliere”. In ciò, è sottolineato il doppio valore del conoscere, che “raccoglie” le diverse esperienze, ma nel contempo le “organizza”, tenendole insieme in base ad unità proprie. Il termine “concetto” deriva, infatti, dal latino “concipio” che, a sua volta, è un composto di “cum e capio” dove la preposizione allude al «tenere insieme» ed il verbo all’«afferrare». Il “concetto”, in effetti, afferra l’unità del molteplice. 

Socrate scopre per primo che l’uomo è detentore di una facoltà capace di astrazione e di sintesi, e perciò è nelle condizioni di attingere l’unità nel diverso, e di distinguere le diverse unità in relazione a differenziate proprietà. Tutto questo s’intende dire quando si sostiene che Socrate è lo scopritore del “concetto”. L’uomo è capace di concettualizzare. Proprio per questo il “conoscere” non si può identificare con un “apprendere” passivo o con una mera recezione dall’esterno, bensì con un esercizio attivo del soggetto conoscente. La ricerca socratica si concentra, dunque, sull’analisi di quest’esercizio, e si assume come compito quello di liberare questo lato attivo del soggetto conoscente. Socrate vuole far giungere a realizzazione piena la capacità di “verità” che è insita negli uomini per natura, anche se è sollecitata dall’esperienza esterna. A partire da quest’acquisizione, si sviluppa il «secondo» momento del dialogo socratico: quello “maieutico”. Il rapporto tra adulto e ragazzo (Socrate-discepolo) in Grecia era una cosa lecita anche dal punto di vista erotico (in una persona si ammiravano non l'aspetto fisico, ma l'intelligenza e la raffinatezza spirituale). Socrate «non» arrivava al sesso. Il discepolo a quel punto era “libero” di scegliere se continuare il rapporto da un punto di vista ideologico oppure andarsene. 

Continuando questo rapporto subentrava la fase dell' “ironia” (finzione). Socrate fingeva di abbassarsi al livello culturale del discepolo ponendogli domande e rendendolo partecipe delle proprie. Solo in questo modo e mediante il dialogo Socrate riusciva a fare il lavoro della levatrice. Come la levatrice porta alla luce il bambino, Socrate portava alla luce le piccole verità dal discepolo. La “maieutica” quindi non è l'arte di insegnare ma l'arte di aiutare. La “verità” non è insegnabile perché è un sapere dell'anima; per questo Socrate non inculcava nei suoi "discepoli" le proprie idee, ma li aiutava a "partorire la loro verità". 

Il metodo socratico, basato su domande e risposte tra Socrate e l'interlocutore di turno, procede per confutazione, ossia per eliminazione successiva delle ipotesi contraddittorie o infondate. Esso consiste nel portare gradualmente alla luce l'infondatezza delle convinzioni che siamo abituati a considerare come scontate e che invece ad un attento esame rivelano la loro natura di “opinioni”. Tale metodo è detto “maieutico” (ostetrico) perché conduce per mano l'interlocutore con brevi domande e risposte per indurlo ad accorgersi della propria ignoranza e a riconoscere il criterio della “verità” rispetto alla falsità delle sue presunzioni. 

Quindi non si basa sul tentativo di vincere l'interlocutore con la propria abilità retorica, così come facevano i sofisti. Socrate non contestava il fatto in sé che si potessero avere verità definitive, ma che venissero spacciate per tali delle convinzioni che non lo erano. Aristotele, a dir la verità in maniera poco chiara, avrebbe attribuito a Socrate la scoperta del “concetto” e del “metodo induttivo”, sostenendo però al contempo la loro inadeguatezza al trattamento dei problemi dell'etica. In realtà il dialogo socratico ha un valore morale basato sul rispetto dell'interlocutore

Dunque, Socrate «paragona» la sua arte alla “maieutica” che è l’arte delle “levatrici”, che, appunto, hanno il compito di aiutare la donna nel parto. Ora Socrate che era figlio «di una molto brava e vigorosa levatrice, Fenarete», come egli stesso dice nel “Teeteto” platonico, si «paragona» appunto alle detentrici di quest’arte: «La mia arte di ostetrico, in tutto il rimanente rassomiglia a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che opera sugli uomini e non sulle donne, e provvede alle anime partorienti e non ai corpi. E la più grande capacità sua è ch’io riesco, per essa, a discernere sicuramente se fantasma e menzogna partorisce l’anima del giovane, oppure se cosa vitale e reale. Poiché questo ho di comune con le levatrici, che anch’io sono sterile… di sapienza; e il biasimo che già tanti mi hanno fatto, che interrogo si gli altri, ma non manifesto io stesso su nessuna questione il mio pensiero, ignorante come sono, è verissimo biasimo. E la ragione è appunto questa, che il dio mi costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare» (Teeteto, 150 c-d). 

Socrate aiuta quindi coloro che lo frequentano ad attingere il “concetto”, ossia il “che è” delle cose, l’idea che le unifica e perciò l’«unità» di cui “esse” partecipano. Questo significa attingere la “verità”. Ma che significa propriamente “verità”? Questa resta una questione aperta. Si può dare credito alla tradizione secondo cui Socrate ha scoperto il “concetto”, ossia la capacità di ridurre il diverso all’uno, e quindi la possibilità di distinguere e di giudicare: in una parola, di porre l’identico e il diverso. Ma questa capacità di concettualizzazione coincide con l’elaborazione di una nuova tecnica definitoria, e perciò con l’invenzione di un più scaltrito artificio retorico, oppure quel che il “concetto” attinge è la “verità” dell’«essere?» 

Detto altrimenti, Socrate mette in opera regole di discussione nuove, ben ordinate, capaci di organizzare in modo meno aleatorio il reale, pur nella convinzione di non poterlo dominare, oppure l’uomo è capace di dire il vero perché è capace di riconoscere l’assolutezza della “verità” in sé, e di cui le cose, in modi e gradi diversi, partecipano? In questi interrogativi si cela un grande passaggio della filosofia occidentale e, più precisamente, quello che va dal dominio della “retorica” (da intendere nel suo spessore filosofico) a quello “logico-ontologico”. 

Questo passaggio sarà definitivamente compiuto da Platone. A questo punto, l’esegesi storica del socratismo diventa difficile, poiché non risulta del tutto chiaro quanto è da attribuire a Socrate e quanto a Platone. È noto, infatti, che Platone pone sulle labbra di Socrate discorsi che sono suoi pensieri. D’altra parte, i dialoghi di Platone sono la fonte più ricca e robusta per la ricostruzione dell’immagine di Socrate. Di più: il platonismo rappresenta la linea vincente della filosofia occidentale. Quel che comunque è certo è il fatto che Socrate si pone come punto discriminante tra la crisi sofistica, e la soluzione pragmatico-retorica che ad essa compete, e l’ontologia platonica. Tutto ciò assegna a Socrate la funzione storica di ponte verso la filosofia come scienza, vale a dire come “teoria della verità”. 

Nota finale: 

Impegnato entro i termini dell’orizzonte umano, definito da Platone «nobile sofista», Socrate appare nella storia del pensiero come una delle più inquietanti ed enigmatiche figure di filosofo e di uomo. Come per i sofisti, anche per Socrate l’«individuo» è il centro logico del mondo e la «misura di tutte le cose» ma solo in quanto riconosce in sé la presenza illuminante di un «logos» universale, con cui giudica e la cui scoperta è il suo compito supremo. Radicalizzando la critica dei sofisti nei confronti della società del suo tempo, Socrate si pose come soggetto eversivo da cui la nuova democrazia ateniese di Trasibulo (Uomo politico e generale ateniese) fu costretta a difendersi. Di qui la condanna a morte consumatasi nel periodo di crisi istituzionale e politica di Atene, alla fine della lunga guerra del Peloponneso. 

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