domenica 16 ottobre 2016

PROTAGORA


Protagora può essere ritenuto il rappresentante eminente del filone «empirico-pragmatico» della sofistica. Due sono le sue opere fondamentali: le “Antilogie”, e la “Verità”. La prima di tali opere conteneva probabilmente «quattro» tipi di problemi: intorno agli dei; intorno all’essere; intorno alle leggi e a tutti i problemi che riguardano la vita della città; intorno alle arti. Il secondo scritto, “Verità”, ha preso tale titolo probabilmente da Platone, ma in esso si vuole comunque proclamare il vero stato delle cose contro le «opinioni». Le «opinioni» sono qui da intendere come le incerte ed approssimative convinzioni dei «mortali» circa la realtà. Il titolo dell’opera, “Verità”, è già in se stesso un programma di battaglia ed una provocazione. 

La dottrina di Protagora può essere distinta in «due» fasi: una fase critico-negativa in cui, come dice Untersteiner, vengono dissolte le esperienze nella loro immediatezza, e una fase costruttiva in cui il filosofo si «avvia alla conquista conoscitiva e pratica delle cose». Le “Antilogie” prende in considerazione i “discorsi doppi”, o, più propriamente, lo sdoppiarsi dei discorsi, vale a dire il fatto che del medesimo può esser detto il diverso. 

Tutto ciò comporta che intorno ad una qualsiasi realtà, sia che riguardi il mondo fisico che quello estetico o morale, può esser fatta valere ora una tesi ora l’altra, a seconda delle prospettive e delle circostanze. Il “punto di vista” che si assume ed il “tempo” decidono della “Verità”. Se queste premesse risultano plausibili, se ne può riassumere il senso in una formula sola: di tutto ciò che è, si può dire che è “al modo” in cui se ne fa “esperienza”. In tal modo, al centro della problematica filosofica sta l’esperienza come capacità del “rendersi esperti” e perciò del farsi pratici. 

Esperienza e praticità si stringono così in un nodo solo e in questa luce comincia a guadagnar senso la celebre formula di Pitagora: «Di tutte le cose misura è l’uomo: di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono». In sostanza, poiché intorno ad una stessa realtà si danno diversi discorsi, la Veritàdi essa dipenderà unicamente dal modo secondo cui se ne fa esperienza. Solo in questo senso l’uomo è misura di tutte le cose. 

La posizione di Protagora è certamente relativistica, ma è tutt’altro che scettica: l’intento del sofista non è quello di mostrare l’impossibilità del vero o, peggio, l’universalità del falso, ma la forma entro cui si dispiega la “Verità”. Vero è dunque ciò che cade nell’orizzonte dell’esperienza, ossia si fa “manifesto” all’uomo ed è “disponibile” al suo dominio. Per questa ragione la formula di Protagora, «Di tutte le cose misura è l’uomo» è meglio tradotta secondo quest’altra formula: «L’uomo è dominatore di tutte le esperienze». Infatti, la parola greca impiegata per dire «cosa» è “chrématon”, ma essa significa pure “affare”, “sostanza”, “denaro”. 

La “Verità” delle cose coincide quindi con il modo secondo cui se ne fa esperienza e quindi con la capacità stessa di manipolarle. La “Verità”, allora, non è separabile dalla pratica e le cose sono dunque vere in relazione al modo secondo cui si manifestano. Se così è, la seconda parte della formula di Protagora può essere tradotta dicendo che l’uomo è dominatore delle esperienze «in relazione alla “fenomenalità” di quanto è reale e alla “non fenomenalità”di quanto è privo di realtà». 

Il modo di sperimentare le cose si sviluppa a partire da come esse appaiono, ed esse consistono unicamente nel loro apparire, che è poi la loro “Verità”. Il rapporto tra “Realtà-Verità-Parola” si svolge per Protagora all’interno della circolarità di esperienza e prassi dove il conoscere è un fare ed il dare un conoscere

Untersteiner riassume bene il pensiero di Protagora quando scrive: «Vera è, dunque, la coincidenza tra sensazione e l’oggetto della sensazione. Ciò si ottiene quando l’uomo riesce a “dominare” le cose, quando cioè egli, a seconda degli stati in cui il suo stesso essere “scorrevole” viene a trovarsi, trova nella materia tra i vari “lógoi” (discorsi) che sono immanenti in essa, quello che corrisponde al suo modo di essere». In questo quadro, risulta evidente come la doppiezza delle opinioni è poco rilevante per la definizione della realtà: la “Verità” del reale, infatti, non è data dalla corrispondenza fra l’anima e le cose, come si crederà a partire da Platone, bensì dall’istantanea inerenza di “sensazione” ed “oggetto”, che è, in assoluto, “esperienza”. 

Su questa base, si producono decisioni pratiche: da un lato, esse dominano ciò che si manifesta; dall’altro, è attraverso tale dominio che si ottengono controprove di verità. L’uomo è dunque misura di tutte le cose non tanto perché dispone di un astratto criterio di verità, sussistente fuori dallo spazio o dal tempo, ma perché sperimenta e realizza. L’etimologia stessa della parola “métron” conferma questa interpretazione, poiché deriva dal verbo “médo” che significa “mi prendo cura, proteggo, regno su”. 

In Protagora, il nesso “Verità-Esperienza” si sviluppa secondo una direzione prevalentemente pragmatica e proprio per questo il reale non può essere inteso come qualcosa di inerte, stabile o, come diremmo noi moderni, oggettivo, bensì come qualcosa di prodotto. Tale produzione produce anche l’«esser vero» di ciò che è reale. Nell’ordine di questo produrre è da includere anche la capacità di produrre idee o opinioni produttive. 

Nota finale: 

Sotto questo aspetto, i sofisti furono i primi grandi inventori di ciò che, in termini moderni, possiamo definire cultura e dei modi della sua produzione. Non è un caso, infatti, ch’essi furono precettori e maestri.  

Nessun commento:

Posta un commento