Protagora può essere ritenuto il
rappresentante eminente del filone «empirico-pragmatico» della sofistica. Due
sono le sue opere fondamentali: le “Antilogie”, e la “Verità”. La prima di tali opere
conteneva probabilmente «quattro» tipi di problemi: intorno agli dei; intorno
all’essere; intorno alle leggi e a tutti i problemi che riguardano la vita
della città; intorno alle arti. Il secondo scritto, “Verità”, ha preso tale titolo
probabilmente da Platone, ma in esso si vuole comunque proclamare il vero stato
delle cose contro le «opinioni». Le «opinioni» sono qui da intendere come le incerte ed approssimative
convinzioni dei «mortali» circa la realtà. Il titolo dell’opera, “Verità”, è già in se stesso un programma
di battaglia ed una provocazione.
La
dottrina di Protagora può essere distinta in «due» fasi: una fase
critico-negativa in cui, come dice Untersteiner, vengono dissolte le esperienze
nella loro immediatezza, e una fase costruttiva in cui il filosofo si «avvia alla conquista conoscitiva e pratica
delle cose». Le “Antilogie”
prende in considerazione i “discorsi
doppi”, o, più propriamente, lo sdoppiarsi dei discorsi, vale a dire il
fatto che del medesimo può esser detto il diverso.
Tutto ciò comporta che intorno ad una qualsiasi realtà, sia
che riguardi il mondo fisico che quello estetico o morale, può esser fatta
valere ora una tesi ora l’altra, a seconda delle prospettive e delle
circostanze. Il “punto di vista” che
si assume ed il “tempo” decidono
della “Verità”. Se queste premesse
risultano plausibili, se ne può riassumere il senso in una formula sola: di
tutto ciò che è, si può dire che è “al
modo” in cui se ne fa “esperienza”.
In tal modo, al centro della problematica filosofica sta l’esperienza come
capacità del “rendersi esperti” e
perciò del farsi pratici.
Esperienza
e praticità si stringono così in un nodo solo e in questa luce comincia
a guadagnar senso la celebre formula di Pitagora: «Di tutte le cose misura è l’uomo: di quelle che sono, per ciò che sono,
di quelle che non sono, per ciò che non sono». In sostanza, poiché intorno
ad una stessa realtà si danno diversi discorsi, la “Verità” di essa dipenderà unicamente dal modo secondo cui se ne fa
esperienza. Solo in questo senso l’uomo è misura di tutte le cose.
La posizione di Protagora è
certamente relativistica, ma è tutt’altro che scettica: l’intento del sofista
non è quello di mostrare l’impossibilità del vero o, peggio, l’universalità del
falso, ma la forma entro cui si dispiega la “Verità”. Vero è dunque ciò che cade nell’orizzonte dell’esperienza,
ossia si fa “manifesto” all’uomo ed è
“disponibile” al suo dominio. Per
questa ragione la formula di Protagora, «Di
tutte le cose misura è l’uomo» è meglio tradotta secondo quest’altra
formula: «L’uomo è dominatore di tutte le
esperienze». Infatti, la parola greca impiegata per dire «cosa» è “chrématon”, ma essa significa pure “affare”, “sostanza”, “denaro”.
La “Verità” delle cose
coincide quindi con il modo secondo cui se ne fa esperienza e quindi con la
capacità stessa di manipolarle. La “Verità”, allora, non è separabile dalla
pratica e le cose sono dunque vere in relazione al modo secondo cui si
manifestano. Se così è, la seconda parte della formula di Protagora può essere
tradotta dicendo che l’uomo è dominatore delle esperienze «in relazione alla “fenomenalità” di quanto è reale e alla “non
fenomenalità”di quanto è privo di realtà».
Il modo di sperimentare le cose si sviluppa a partire da
come esse appaiono, ed esse consistono unicamente nel loro apparire, che è poi
la loro “Verità”. Il rapporto tra “Realtà-Verità-Parola” si svolge per
Protagora all’interno della circolarità di esperienza e prassi dove il
conoscere è un fare ed il dare un conoscere.
Untersteiner riassume bene il pensiero di Protagora quando
scrive: «Vera è, dunque, la coincidenza
tra sensazione e l’oggetto della sensazione. Ciò si ottiene quando l’uomo
riesce a “dominare” le cose, quando cioè egli, a seconda degli stati in cui il
suo stesso essere “scorrevole” viene a trovarsi, trova nella materia tra i vari
“lógoi” (discorsi) che sono immanenti in essa, quello che corrisponde al suo
modo di essere». In questo quadro, risulta evidente come la doppiezza delle
opinioni è poco rilevante per la definizione della realtà: la “Verità” del reale,
infatti, non è data dalla corrispondenza fra l’anima e le cose, come si crederà
a partire da Platone, bensì dall’istantanea inerenza di “sensazione” ed “oggetto”,
che è, in assoluto, “esperienza”.
Su questa base, si producono
decisioni pratiche: da un lato, esse dominano ciò che si manifesta; dall’altro,
è attraverso tale dominio che si ottengono controprove di verità. L’uomo è
dunque misura di tutte le cose non tanto perché dispone di un astratto criterio
di verità, sussistente fuori dallo spazio o dal tempo, ma perché sperimenta e
realizza. L’etimologia stessa della parola “métron”
conferma questa interpretazione, poiché deriva dal verbo “médo” che significa “mi
prendo cura, proteggo, regno su”.
In
Protagora, il nesso “Verità-Esperienza”
si sviluppa secondo una direzione prevalentemente pragmatica e proprio per
questo il reale non può essere inteso come qualcosa di inerte, stabile o, come
diremmo noi moderni, oggettivo, bensì come qualcosa di prodotto. Tale
produzione produce anche l’«esser vero»
di ciò che è reale. Nell’ordine di questo produrre è da includere anche la
capacità di produrre idee o opinioni produttive.
Nota
finale:
Sotto questo aspetto,
i sofisti furono i primi grandi inventori di ciò che, in termini moderni,
possiamo definire cultura e dei modi della sua produzione. Non è un caso, infatti,
ch’essi furono precettori e maestri.
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