Anassagora di Clazomene tiene fermo il principio
di Parmenide secondo cui l’«essere»
non può generarsi dal niente e risolversi nel niente, pertanto non solo i «quattro» elementi, ma «tutte le cose» persistono nell’unità originaria
dell’«essere». Di nessuna di esse si
può propriamente dire che nasca o muoia, ma solo che si compone e si separa.
«Ma il nascere e il morire non considerano
correttamente i Greci: nessuna cosa, infatti nasce e muore, ma a partire dalle
cose che sono si produce un processo di composizione e divisione; così dunque
dovrebbero correttamente chiamare il nascere “comporsi” e il morire “dividersi”»
(frammenti 17).
Non solo, ma
poiché un ente può diventare qualsiasi altro ente, ad esempio il cibo diventa
carne, e la carne, con la morte, diventa acqua e terra, è allora necessario
affermare, proprio in forza del principio della permanenza dell’«essere», che in ogni ente vi è già tutto
ciò che esso può diventare, e quindi che in ogni ente vi è il «Tutto».
Come Empedocle, anche Anassagora
ammette che gli elementi sono “qualitativamente”
distinti l’uno dall’altro, ma, a differenza di Empedocle, ritiene che gli
elementi non siano solo le «quattro
radici», ma tutte le cose presenti in ogni cosa sotto forma di particelle
invisibili che Anassagora chiama «semi» (spérmata).
La differenza tra le cose è determinata dal prevalere dei semi di un certo tipo
rispetto ad altri tipi, per questo un pezzo di ferro è diverso da un pezzo di
legno. Questi semi Aristotele li chiama “omeomerie”
in quanto sono simili (ómoios) al
tutto che costituiscono.
Spiegata
la “molteplicità” con la “prevalenza” di “omeomerie” dello stesso tipo, Anassagora spiega il “divenire” come “dispersione e ricomposizione” delle unioni di “omeomerie”. Così, nutrendosi di pane, questo diventa carne, sangue
e ossa solo perché nel pane ci sono le “omeomerie” di carne, sangue e ossa che
si separano dal pane per congiungersi a ciò a cui sono congeneri. Il «divenire» delle cose non è dunque la
nascita o la morte dell’«essere», ma
il raccogliersi e il disperdersi delle eterne “omeomerie” dell’«essere».
Quando le “omeomerie” si raccolgono
sono visibili ai nostri sensi, quando invece si disperdono si sottraggono alla
visione. In gioco non è l’«essere»,
ma l’apparire e lo sparire di ciò che sempre permane.
A presiedere il gioco della composizione e della
scomposizione delle “omeomerie”, da
cui dipende l’apparire e lo sparire delle cose, Anassagora pone una «Mente» (Noús) che è l’unico ente in cui non vi è mescolanza e, per questa
sua purezza, può conoscere e dominare tutto.
«Tutte le altre cose hanno parte di ogni cosa, ma l’intelligenza è
illimitata, indipendente e non mescolata ad alcuna cosa, ma sta sola in sé. Se
infatti non stesse in sé, ma fosse mescolata a qualche cosa d’altro, parteciperebbe
di tutte le cose, se fosse mescolata a qualcuna. In tutto si trova infatti
parte di ogni cosa, come ho detto prima, e le cose mescolate le sarebbero di
ostacolo, si che non avrebbe potere su alcuna cosa, come lo ha stando sola in
sé» (frammenti 12).
Platone loda
Anassagora per aver affermato un «principio» intelligente come causa
dell’ordine del mondo, e Aristotele, per lo stesso motivo, afferma: «Chi disse che c’è un “intelletto” anche
nella natura, così come negli esseri viventi, causa della bellezza e
dell’ordine dell’universo fece la figura di un uomo assennato e i predecessori,
al confronto, parvero gente che parla a caso» (Metafisica, I 3, 984b).
Ma
Platone confessa la sua delusione nel constatare che Anassagora non si
serve dell’«intelletto» per spiegare
l’ordine delle cose e ricorre agli «elementi naturali», e, analogamente,
Aristotele dice che Anassagora fa uso dell’«intelletto»
come di un “Deus ex machina” tutte le
volte che si trova nell’imbarazzo a spiegare qualcosa per mezzo delle cause
naturali, mentre negli altri casi a tutto ricorre fuorché all’«intelletto».
Nota finale: In questo modo sia Platone sia Aristotele hanno indicato
l’importanza e i limiti della concezione di Anassagora.
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