Accanto ed in sinergia al filone “empirico-pragmatico”, detto così per
ragioni di comodo, se ne sviluppa un altro che, per le stesse ragioni, verrà
chiamato “dialettico-retorico”.
Rappresentante eminente di questa tendenza è Gorgia. La sua opera maggiore è “intorno al non ente o intorno alla natura”.
Quel che ci pare di poter condividere è la circostanza che vede in Gorgia il
definitivo venir meno della “coalescenza
arcaica” (specie di fusione di linguaggio) tra “parola-realtà-verità”. Questo venir meno comporta una radicale
ristrutturazione del linguaggio. Tutto ciò equivale ad una diversa
determinazione del senso delle parole in relazione agli oggetti, e ad un
diverso modo di configurarsi del rapporto tra proposizioni, asserzioni,
enunciati e i contenuti da essi espressi.
In
quest’opera, “Intorno al non ente”,
Gorgia sostiene che : 1) nulla esiste; 2) se anche vi è esistenza non può venir
rappresentata; 3) se anche può venir rappresentata non può essere comunicata e
spiegata agli altri. Nella sua argomentazione Gorgia prende avvio
dall’ontologia di Parmenide e, soprattutto, dalle difficoltà e dalle
contraddizioni che si erano sviluppate all’interno della tradizione eleatica.
Detto altrimenti, la filosofia
di Gorgia si sviluppa all’interno del lessico pamenideo e porta alle estreme
conseguenze le difficoltà insite nell’impostazione “logico-verbale” del grande eleate. Così, infatti, si legge nel
poema di Parmenide: «Del “non-essere” non
ti permetterò né di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può dire né pensare
ciò che non è» (frammenti 7). In forza di quest’asserzione, Parmenide
negava l’esistenza del «molteplice» poiché il «molteplice» è “non-essere”. La cosa risulta chiara se
si pone mente al fatto che ogni singola determinazione è “se stessa” perché “non è le altre”.
Parmenide dice appunto che il “non-essere” non può essere né detto, né pensato. Ne segue allora
che il «molteplice» non può esistere, e se c’è non è altro che apparenza o appartiene
al mondo dell’opinione entro cui si muovono i mortali.
Per capire la filosofia di Gorgia bisogna prendere le mosse
dalla formula di Parmenide: «Non si può
dire né pensare ciò che non è». Il sofista siciliano radicalizza questa
proposizione e la svolge in questa forma. Dire che il “non-essere” non si può dire né pensare equivale a dire che solo
l’essere si può dire e pensare. Se ciò è vero ne segue che nominare il “non-essere” vuol dire appunto dirlo;
d’altra parte si può dire solo ciò che è. Da tutto ciò consegue che basta “nominare” il “non-essere” per affermarne l’esistenza. Dire il “non-essere”, sia pure per vietare di
dirlo, equivale ad affermarlo, ponendo così una equivalenza tra “essere” e “non-essere”.
In tale
circostanza, l’ “essere” non
è poiché il “non-essere” è, e il “non-essere” è l’affermazione della
negazione, ossia il “non” dell’essere.
Questo modo di trattare il linguaggio fa si che l’ “essere” ed il “non-essere”
divengano convertibili l’un l’altro e quindi interamente scambiabili. Il testo
di Gorgia è chiaro: «Se infatti il “non-essere”
è (ésti) non esistere il non ente non sarà per nulla meno dell’ente…cosicché in
nessun modo le esperienze sono più di quel che non siano» (Intorno al non ente). Data la
convertibilità di “essere” e “non-essere”, vale la conseguenza che di
tutte le cose non si può dire che siano più di quanto non siano.
Se l’uso del linguaggio dà luogo
a tale convertibilità, ne segue che di ogni esperienza non si può dire che è
più di quanto non sia o, altrimenti espresso, tutto essendo e insieme non
essendo, di nulla si può dire propriamente che è. Lo spazio problematico di
Gorgia coincide quindi con la crisi dell’ontologia parmenidea, ossia con la
convertibilità di “essere” e “non-essere” e quindi con la loro
reciproca elisione (annullare, eliminare). Quest’esito non consente un’univoca
applicazione dei termini. Untersteiner sintetizza bene l’argomentazione di
Gorgia quando nota come, in base ad essa, di tutte le cose «è pensabile tanto l’attributo del “non-essere”,
quanto quello dell’ “essere”, quanto, infine, quello dell’essere del loro
non-essere». Quanto accade a livello ontologico si riproduce a livello
gnoseologico e comunicativo.
Sul
piano della conoscenza Gorgia presenta questo tipo di problema: «Se anche qualcosa tuttavia esistesse non
potrebbe essere conosciuto». La tesi viene, a sua volta, così argomentata:
se ha ragione Parmenide quando dice che il “non-ente”
non può essere né detto, né pensato, «allora
tutto ciò che si pensa non può che essere». Tutto ciò che viene pensato
quindi è, ed allora non può più esistere distinzione tra il vero e il falso.
Venendo meno l’opposizione di “essere”
e “non-essere”, tutto il «molteplice»
contenuto d’esperienza si sottrae a tale distinzione. Di ogni rappresentazione
ed immagine mentale si può, a pari titolo, sostenere che esiste. Secondo questa
supposizione gli oggetti del vedere e del sentire esistono in quanto vengono
pensati.
Una volta sviluppata
la tematica gnoseologica Gorgia affronta quella comunicativa in questa forma: «ammesso che l’essere esista e sia
conoscibile non è significabile direttamente ad altri». Questa circostanza
è illustrata da Gorgia in questi termini: ammesso che le cose si conoscano,
come è possibile che ciò che uno “vede”
lo possa comunicare con le “parole”?
D’altra parte, come un qualsiasi contenuto può divenire manifesto a chi ascolta
senza che questi l’abbia veduto? Detto ciò Gorgia conclude: «Quello, dunque, che uno non concepisce, come
potrà mai concepirlo in seguito all’intervento di un altro per mezzo della
parola di costui o per mezzo di un segno generale diverso dall’esperienza?»
E poi chi garantisce che colui che ascolta abbia presente lo stesso oggetto di
colui che enunci?
Sono questi i
termini con cui Gorgia conduce alle estreme conseguenze l’ontologia
eleatica dissaldando definitivamente le “parole”
dalle “cose” e quindi il “linguaggio” dalla “realtà”. Le “parole” non
sono più “cose”, ma neanche le “cose” sono più “parole”. In tale circostanza, il discorso non morde più il reale e
dei fatti può essere detto tutto ed il contrario di tutto. Con la sofistica
entra definitivamente in crisi lo statuto arcaico della parola in forza del
quale “nominare” significava “essere”, senza che, così, si discernesse
tra designante e designato. L’indistinzione (mancanza di distinzione e di differenziazione, disordine,
confusione) faceva valere le “parole” come “cose” e le “cose” come “parole”.
Ma quando Parmenide identifica con la parola “essere” ciò che è, permane tuttavia
impregiudicata l’indistinzione tra “parola”
e “cosa”. Ne segue che l’ “essere” è proprio quella “cosa” (parola) che esclude il “non” di tutte le “cose”, ossia la molteplicità di ciò che è. In tal modo
l’indistinzione genera contraddizione, fino al punto che i discorsi non hanno
più la possibilità di stringere le “cose”.
Tutto ciò esplode nella sofistica, e Gorgia è l’espressione più alta di questa
crisi del linguaggio.
Nota finale:
Il senso complessivo della sofistica è perfettamente definito
da E. Severino quando scrive: «L’importanza
della sofistica risiede innanzitutto in questa “autocritica” esplicita e
radicale del sapere filosofico; dove, da un lato, l’idea della “verità” esige
la più inesorabile intransigenza verso ogni conoscenza che intenda proporsi
come “verità”; ma dove, dall’altro lato, diviene manifesto che la filosofia è
il luogo all’interno del quale, solamente, può essere esercitata ogni critica
al filosofare stesso. Inoltre, nella sofistica si annuncia per la prima volta
il tema che nella storia della cultura occidentale riceverà i più profondi
sviluppi: l’abbandono della “verità” per ottenere la “potenza” sulle “cose”».
La sofistica è “tragica” nel suo fondo, ma efficace nel
suo esercizio. “Retorica ed Eloquenza”
ne sono in un certo senso l’emblema, poiché sono arti del persuadere e perciò
del “sortire effetti”. La realtà è
dominata perché, tramite la persuasione, è prodotta. Solo così resta in qualche
modo catturabile il fondo sempre sfuggente delle “cose”. I sofisti furono signori della “parola”, ma padroneggiarono anche le tecniche in forza del loro
atteggiarsi “empirico” nei confronti
del reale e dello sfondo pragmatico della loro visione del mondo.
La sofistica, quindi, non è un
vano gioco di parole, non è un banale e spudorato mentire come l’opinione
comune da lungo tempo invalsa riteneva; al contrario, essa sorge dalla distanza
tra “parola” e “verità”, che
l’esercizio stesso della “parola” non
abbrevia, ma accentua. Ma la “parola-verità”
era una entità mitica che l’illuminismo dei sofisti distrugge: da questo punto
di vista, la sofistica si costruisce interamente nella produzione della “verità-realtà” attraverso le “parole”.
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