sabato 5 novembre 2016

PLATONE E LA DOTTRINA DELLE IDEE (PREMESSA)


La “Dottrina delle Idee” costituisce indubbiamente il nucleo filosofico di tutto il pensiero di Platone, quello da cui si diramano tutte le altre sue dottrine, cioè la “visione dell’uomo”, dell’ “anima”, dello “Stato” e dell’ arte. La parola greca “idéa”, così come il suo equivalente “éidos”, è stata introdotta nel linguaggio filosofico dallo stesso Platone. Essa esisteva già nel linguaggio comune e stava a significare, in conformità con la sua etimologia (dal verbo “idéin” = vedere, da cui il latino “vidêre”), ciò che si vede, cioè l’aspetto visibile delle cose, la loro forma percepibile alla vista. 

Platone ne mutò lievemente il significato, sostituendo al riferimento al vedere corporeo il riferimento al vedere intellettuale, cioè all’intendere, al comprendere mediante il pensiero. “Idéa” venne così a significare l’aspetto, o forma, intelligibile delle cose, ossia quella realtà che è oggetto del pensiero. Tutto ciò è ben diverso, come si può notare, dal significato moderno del termine «idea», che è quello di nozione o rappresentazione mentale, esistente soltanto nel pensiero. 

L’origine della dottrina platonica delle idee va ricercata nell’insegnamento socratico, secondo il quale, per praticare le singole virtù (coraggio, giustizia, saggezza, ecc.), è necessario conoscere, a proposito di ciascuna di esse, il suo «che cos’è», cioè la sua definizione universale, riferibile a tutti i casi particolari. Questa è la caratteristica comune di ciascuna azione riconducibile a quella determinata virtù, la causa per cui essa è tale ed insieme il criterio per distinguerla da altre azioni che tali non sono. Platone estende questa concezione a tutte le cose e indica il «che cos’è» di ciascuna cosa con il termine, appunto, di “idéa”. L’idea è la causa per cui certe azioni hanno una determinata caratteristica ed il criterio unico e immutabile che consente di distinguere tali azioni dalle altre. 

In Platone tuttavia l’«idea» si carica di una serie di altri significati che nella concezione socratica del «che cos’è» non erano ancora presenti. Essa diventa l’essenza immutabile delle cose sensibili, considerate come continuamente mutevoli, e dunque la vera realtà, quella che è veramente perché è sempre ciò che è, l’unica che può venire conosciuta con «verità». Come tale, l’idea è la condizione della possibilità della scienza (epistéme), ossia della conoscenza vera. Solo, infatti, se c’è qualcosa che è sempre quello che è, è possibile conoscere che cosa esso è; se invece tutto mutasse continuamente, non si potrebbe mai conoscere che cosa una cosa è, perché un momento dopo essere stata conosciuta come una certa cosa, la cosa muterebbe e non sarebbe più quale l’abbiamo conosciuta. 

Alla Base di questa concezione (la ricerca del criterio assoluto e la possibilità della scienza), c’è la persuasione, derivata probabilmente dall’interpretazione platonica di Eraclito, che le cose sensibili siano tutte mutevoli, come pure la persuasione, derivata invece da Socrate e dall’esistenza, al tempo di Platone, di scienze già pienamente sviluppate (come le matematiche e la medicina), che la scienza, ossia la conoscenza vera, sia possibile. 

La funzione «epistemologica», cioè di giustificazione della scienza intesa come conoscenza di oggetti universali e immutabili, attribuita da Platone alla “Dottrina delle idee”, è confermata da un noto esempio di idea addotto nel “Fedone”, l’idea dell’uguale. Noi sappiamo, afferma Platone, che cos’è l’uguale in sé, ossia che cosa significa esattamente il termine «uguale»: evidentemente egli pensa all’uso che del concetto di uguale fanno le scienze matematiche, cioè l’aritmetica e la geometria. Tuttavia, prosegue Platone, nessuna delle cose che vediamo nel mondo sensibile è perfettamente uguale ad un'altra, perciò la conoscenza dell’uguale perfetto, che noi possediamo, non può esserci derivata dall’esperienza delle realtà sensibili. Dunque, poiché la scienza è conoscenza di un oggetto, e questo oggetto, come dimostra l’esempio dell’uguale, non esiste nella realtà sensibile, bisogna ammettere che esso esista in una realtà diversa da quella sensibile, ossia nel cosiddetto «mondo delle idee», e che l’esperienza delle realtà sensibili sia solo l’occasione per ricordare un’idea appresa dall’anima prima di incarnarsi nel corpo, cioè prima di nascere (teoria della conoscenza come reminiscenza: Fedone, 73 a – 75 c). 

La stessa funzione «epistemologica» viene riconosciuta alla “Dottrina delle idee” nella “Repubblica”, dove Platone afferma che la conoscenza, per poter sussistere, deve essere conoscenza di qualcosa che è. Ora ciò che perfettamente è, è l’idea, la quale è oggetto di conoscenza perfetta, cioè di scienza (epistéme); ciò che invece è intermedio tra l’essere e il non-essere, è la realtà sensibile, in quanto diviene, ossia ora è ed ora non è, e questa è oggetto di opinione (dóxa). L’opinione, poi, è una forma intermedia fra la scienza (conoscenza di ciò che è) e l’ignoranza (non conoscenza o conoscenza di nulla) (Rep. , V, 476 d – 477 b). 

La “Dottrina delle idee” quindi serve fondamentalmente a salvaguardare la possibilità della scienza intesa come conoscenza dell’universale e dell’immutabile, ossia di ciò che è e non può non essere, di ciò che è necessario, perché non può stare diversamente da come è. In questa sua concezione della scienza come conoscenza dotata di assoluta necessità, la quale poi si identifica con la filosofia, Platone mostra di considerare la filosofia come la forma più alta di sapere, superiore alle stesse scienze matematiche, che a quel tempo realizzavano il massimo rigore scientifico possibile. Sempre nella “Repubblica”, infatti, egli distingue la filosofia dalla matematica, chiamando la prima «scienza» o «intellezione» (nóesis) e la seconda semplicemente «pensiero dianoetico» (diánoia), cioè discorsivo, per il fatto che la prima sale fino alla conoscenza del principio non ipotetico, cioè non soltanto presunto vero, ma realmente vero, mentre la seconda si limita ad assumere delle ipotesi come se fossero principi (ed invece non lo sono) e a dedurre le conseguenze che da queste necessariamente derivano (Rep., VI, 510 b – 511 a). 

Mentre la filosofia possiede una necessità assoluta, tale per cui non solo le cose stanno come essa dice, ma non possono stare diversamente, la matematica possiede invece una necessità solo ipotetica, che si riduce alla pura coerenza tra le conclusioni e le premesse, per cui le conclusioni sono vere solo se sono vere le premesse. Gli stessi oggetti della matematica, ossia i numeri e le figure geometriche, non sono che immagini, afferma Platone, degli oggetti della filosofia, cioè delle idee: tanto gli uni quanto gli altri, tuttavia, appartengono al mondo intelligibile, cioè ad una sfera di realtà superiore al mondo sensibile. Quest’ultimo è l’oggetto dell’opinione, la quale comprende anch’essa «due» gradi: il più alto, ossia la conoscenza degli oggetti sensibili veri e propri, è chiamato da Platone «credenza», mentre il più basso, ossia la conoscenza delle immagini degli oggetti sensibili, è chiamato «immaginazione». Quattro sono dunque i gradi della conoscenza, che Platone paragona ai quattro segmenti consecutivi in cui può essere divisa una linea: “immaginazione”, “credenza”, “pensiero dianoetico” e “intellezione” (Rep., VI, 511 a – e). 

La “Dottrina delle idee” non ha solo una funzione «epistemologica»: essa, per Platone, ha anche un significato «etico», cioè serve a fornire all’uomo un criterio di comportamento in vista della realizzazione della sua perfezione, cioè della «virtù». Affinché sia possibile la «virtù», e quindi sia possibile un’«etica», è necessario, secondo Platone, che esistano dei valori oggettivi, come il “bene”, il “bello”, il “giusto”, i quali si mantengano sempre uguali anche in momenti diversi, cioè siano immutabili, e vengano riconosciuti come tali da tutti gli uomini, in altri termini siano universali. Tale carattere di «valore», proprio delle idee, è reso manifesto soprattutto dalla “Dottrina dell’idea del bene”, esposta da Platone nella “Repubblica”. 

In questo dialogo, chiarendo quale deve essere l’educazione da impartire ai reggitori della città, cioè ai filosofi, Platone afferma che essa deve consistere nell’insegnare loro una disciplina sublime, o massima, la quale ha come fondamento la conoscenza dell’«idea del bene», cioè del «bene in sé», di quel «bene» che rende buone tutte le azioni buone. Solo, infatti, chi conosce il «bene» sarà in grado di governare gli altri, indicando loro che cosa è «bene» e che cosa è «male» e consentendo loro in tal modo di diventare virtuosi. 

Questa idea, però, è talmente elevata che di essa non possiamo mai avere una conoscenza adeguata, perciò Platone la illustra ricorrendo ad un paragone con quello che egli chiama «la prole del bene», vale a dire la sua immagine. Il sole. Come il sole, afferma Platone, illumina con la sua luce le cose sensibili, cioè è causa della loro visibilità, e col suo calore le fa nascere e crescere, ossia è causa della loro vita, così l’«idea del bene» illumina tutte le altre idee, ovvero è causa della loro intelligibilità, ed insieme le fa essere ciò che sono, cioè è causa della loro esistenza e della loro essenza. Perciò si può dire che l’idea del bene «non è essenza, ma qualcosa che per dignità e potenza trascende l’essenza», ossia non è un’idea come le altre, ma è il principio di tutte le idee ed è quindi al di sopra di esse (Rep., VI, 504 c – 508 b). 

L’idea del bene, come si vede, è per Platone la più alta realtà esistente, il principio di ogni realtà, ossia l’assoluto, l’incondizionato: non si può chiamarla Dio solo perché essa non è un soggetto intelligente ed amante, ma è soltanto oggetto di intelligenza e di amore. Il fatto che un tale principio sia chiamato da Platone col nome di «bene» dimostra come la concezione platonica della realtà sia fondamentalmente di carattere «etico». Pertanto, i quattro gradi più alti della conoscenza (“immaginazione”, “credenza”, “pensiero dianoetico” e “intellezione”), sono il percorso progressivo di avvicinamento alla «virtù», cioè un progresso di tipo «morale». 

Ciò è confermato dalla dottrina contenuta in un altro celebre dialogo contemporaneo alla “Repubblica”, il “Convito”, dove Platone illustra un’altra idea di importanza fondamentale per la sua etica, l’«idea del bello». Quivi infatti egli definisce l’amore, tema del dialogo, essenzialmente come tendenza al possesso perpetuo del «bene» e del «bello» (questi due concetti per Platone ed in genere per la mentalità greca sono equivalenti). 

Per chiarire poi tale definizione, egli prende ad esempio l’amore sessuale, che è amore per un bel corpo e più precisamente desiderio di procreare nel «bello» mediante l’unione dei corpi, al fine di rendersi immortali (almeno nella specie); mostra poi che l’amore per un bel corpo può portare ad amare il «bello» che è comune a tutti i corpi, e che questo può portare successivamente ad amare una bella anima, perché la bellezza dell’anima è più preziosa della bellezza del corpo. Ma anche l’amore per una bella anima è desiderio di procreare nel «bello» cioè desiderio di produrre, mediante l’unione tra le anime, belle opere, come le opere di poesia e di arte in genere, o le buone leggi, che rendono buone le azioni degli uomini. L’amore diventa in tal modo educazione dell’anima a produrre azioni virtuose, ed anche a produrre le scienze, ed in particolare la scienza suprema, cioè la scienza del «bello in sé». Il famoso «amor platonico» è dunque desiderio di generare «virtù» nella contemplazione dell’«idea del bello» e di procurarsi in tal modo la vera «immortalità». 

La Dottrina platonica delle idee non si esaurisce nell’affermazione della necessità di queste entità al fine di assicurare la possibilità della scienza in generale e dell’etica: essa si estende sino all’illustrazione dei rapporti reciproci che intercorrono fra le idee, cioè di quella che potremmo chiamare la “Struttura interna del mondo intelligibile”, e dell’attività razionale cui compete l’indagine di tale struttura, vale a dire la «dialettica», che per Platone è la stessa filosofia. Il termine «dialettica», come quasi tutti i termini in uso nella filosofia occidentale, è di origine greca e significa originariamente l’arte del discutere fra due o più interlocutori (dialéghesthai), ciascuno dei quali cerca di far prevalere la propria tesi confutando, cioè riducendo a contraddizione, quella dell’avversario. 

Sia Platone che Aristotele considerano inventore di quest’arte Zenone di Elea, il discepolo di Parmenide, che con i suoi famosi argomenti cercò di difendere la dottrina del maestro, riducendo a contraddizione le obiezioni degli avversari. Ad essa diedero tuttavia contributi importanti anche i sofisti e Socrate, il quale ultimo fece della confutazione, cioè appunto della riduzione a contraddizione, il procedimento stesso della sua filosofia. Platone riprende la sua concezione socratica della «dialettica», applicandola al mondo delle idee e facendo in tal modo di quest’arte la conoscenza dei rapporti fra le idee, cioè la forma più alta della scienza, la Filosofia. 

Nota Finale: 

Con la Dottrina delle Idee, Platone darà una svolta determinante ai grandi temi della filosofia presocratica, superando definitivamente la negazione parmenidea della molteplicità dell’«essere». Libero dall’ipoteca dell’eleate, il pensiero filosofico dopo Platone potrà così affrontare i problemi della vita dell’uomo nel mondo del molteplice e diveniente. Dice Platone: «Filosofo è il perfetto amante e pone “Eros” come condizione di ogni esperienza. Amore esprime il senso stesso della filosofia perché tendenza al possesso perpetuo del “Bene” e del “Bello”, che ha in sé, nel suo appagamento, il suo fine assoluto: la “Felicità”». 

La grandiosa costruzione rappresentata dalla "Dottrina delle Idee" non era tuttavia esente da difficoltà e Platone stesso, rendendosene conto, le espose in alcuni suoi dialoghi, principalmente nel “Parmenide” e nel “Sofista”, che segnano la «svolta» del suo pensiero, cioè il passaggio dalla prima alla seconda fase della "Dottrina delle Idee". L’autocritica contenuta nel “Parmenide” ha fatto dire che con essa Platone stabilì «il record dell’onestà intellettuale». In questo dialogo, infatti, il filosofo anzitutto riespone la dottrina sviluppata nei dialoghi precedenti, portandola alle sue estreme, ma coerenti, conseguenze. 

Alla radice di queste difficoltà, che sono le difficoltà inerenti alla separazione tra idee e cose e che probabilmente indussero gli amici di Platone (Eudosso, Speusippo, Senocrate, Aristotele) a modificare o ad abbandonare la separazione, c’è un «errore» di logica commesso da Platone, come ormai riconoscono quasi tutti gli studiosi, il quale deriva proprio dal significato duplice, epistemologico ed insieme etico, e quindi ambiguo, attribuito da Platone alla sua dottrina. 

Le idee, infatti, non solo esprimono dei predicati universali, cioè comuni a molte cose, ma si predicano anche di se stesse, cioè si auto predicano, diventando in tal modo anche dei soggetti. Per esempio l’idea della «grandezza» è essa stessa «grande», l’idea della «bellezza» è essa stessa «bella», l’idea dell’«uomo» è essa stessa un «uomo». Ciò fa si che l’idea diventi una specie di cosa accanto alle cose, cioè sia separata dalle cose allo stesso modo in cui le cose sono separate l’una dall’altra, con tutte le difficoltà che ciò produce.   

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