La tensione tra Gesù e i
suoi interlocutori gerosolimitani, che aveva avuto un’espressione velata nelle
parabole, si fa ora diretta. Infatti, il capitolo 22,15-46 di Matteo – nella
parte che ora meditiamo – è dominato da «quattro» controversie che oppongono
Gesù e i rappresentanti dei vari gruppi politico-religiosi del giudaismo
ufficiale. Il primo contrasto è con i “farisei” e riguarda il tributo da
versare all’imperatore romano. E’ uno dei rari pronunciamenti politici di
Cristo, che riesce a evitare la trappola tesa dai suoi interlocutori. Egli,
infatti, rimandando all’«immagine», fa un’allusione al passo della Genesi
(1,26-27), in cui si presenta l’uomo come «immagine e somiglianza di Dio».
Perciò, la moneta che reca l’immagine di Cesare indica l’orizzonte
economico-politico che ha una sua «autonomia». Tuttavia questa «autonomia» deve
sempre confrontarsi ed essere condizionata dall’orizzonte dell’uomo che dipende
direttamente da Dio come sua immagine e che, quindi, è tutelato dal Signore
stesso nella sua dignità superiore alle leggi economiche. Allora disse loro: «Rendete
dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (versetto
21).
Questo significa che a Cesare (lo Stato) non solo non si deve dare
quel che è di Dio, ma nemmeno quel che è contro Dio; e che dunque Cesare
(lo Stato) non deve essere in contrapposizione a Dio, al Dio di Gesù (vedi post pubbl. Marzo 2013 “Fede e Ragione”).
E perché ciò avvenga, la gente deve aprire la porta delle sue camere, uscir
fuori, radunarsi e agire affinché lo Stato non sia contrario a Dio.
La vocazione «Politica» della Chiesa
risale a Gesù. Come risale a lui il contrasto tra «Interiorità della
vita religiosa» e «Politicità» della Chiesa (vedi anche post pubbl. Maggio 2014 “Il carattere politico della
Chiesa”).
La seconda controversia
vede come protagonisti i “sadducei”, un gruppo sacerdotale conservatore
aristocratico, che negava la risurrezione perché non presente esplicitamente
nelle Scritture. Essi pongono a Gesù un caso ipotetico, legato alla legge
biblica del levirato, per cui il fratello era costretto a sposare la cognata
vedova per dare un figlio al fratello defunto, così da perpetuarne il nome e l’eredità.
Il caso limite della donna che sposa sette fratelli vuole dunque banalizzare la
«vita eterna», rappresentandola in modo materialistico come quella terrena.
Gesù spazza via questa visione superficiale ed esalta la vita purissima di Dio
a cui noi saremo chiamati oltre la nostra morte (versetti 30,31,32).
La terza polemica è con un
esperto della legge biblica che pone la questione del primato nei vari precetti
religiosi, che il giudaismo aveva catalogato in 613 comandamenti: 365 negativi
e 248 positivi (secondo computi simbolici, condotti sulla base dei testi
legislativi dell’Antico Testamento). Gesù ricorre a due passi biblici –
Deuteronomio 6,5 e Levitico 19,18 – non tanto per mettere in ordine quel
catalogo, ma per indicare l’atteggiamento generale con cui osservare i
precetti, cioè «la via dell’amore totale per Dio e per i fratelli». In questo
impegno è riassunta tutta la legge biblica (versetti 37,38,39,40).
L’ultimo contrasto è di taglio esegetico
e riflette lo stile delle discussioni rabbiniche. Si tratta di definire il
messianismo davidico: è Gesù stesso a interpellare i “farisei” sulla base del
Salmo messianico 110. Il Messia è figlio di Davide, secondo l’interpretazione
comune; e, allora, osserva Gesù, come mai in quel Salmo Davide lo chiama
«Signore?» Si vuole, così, far balenare l’origine trascendente di Cristo, il quale
attua in pienezza il dettato di quel Salmo perché, pur essendo discendente di
Davide secondo la carne, lo supera nella sua dignità di Figlio di Dio,
divenendo così suo Signore (versetti 41,42,43,44,45,46).
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