sabato 2 aprile 2016

LE QUATTRO CONTROVERSIE CON I GRUPPI POLITICO-RELIGIOSI


La tensione tra Gesù e i suoi interlocutori gerosolimitani, che aveva avuto un’espressione velata nelle parabole, si fa ora diretta. Infatti, il capitolo 22,15-46 di Matteo – nella parte che ora meditiamo – è dominato da «quattro» controversie che oppongono Gesù e i rappresentanti dei vari gruppi politico-religiosi del giudaismo ufficiale. Il primo contrasto è con i “farisei” e riguarda il tributo da versare all’imperatore romano. E’ uno dei rari pronunciamenti politici di Cristo, che riesce a evitare la trappola tesa dai suoi interlocutori. Egli, infatti, rimandando all’«immagine», fa un’allusione al passo della Genesi (1,26-27), in cui si presenta l’uomo come «immagine e somiglianza di Dio». Perciò, la moneta che reca l’immagine di Cesare indica l’orizzonte economico-politico che ha una sua «autonomia». Tuttavia questa «autonomia» deve sempre confrontarsi ed essere condizionata dall’orizzonte dell’uomo che dipende direttamente da Dio come sua immagine e che, quindi, è tutelato dal Signore stesso nella sua dignità superiore alle leggi economiche. Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (versetto 21). 

Questo significa che a Cesare (lo Stato) non solo non si deve dare quel che è di Dio, ma nemmeno quel che è contro Dio; e che dunque Cesare (lo Stato) non deve essere in contrapposizione a Dio, al Dio di Gesù (vedi post pubbl. Marzo 2013 “Fede e Ragione”). E perché ciò avvenga, la gente deve aprire la porta delle sue camere, uscir fuori, radunarsi e agire affinché lo Stato non sia contrario a Dio.

La vocazione «Politica» della Chiesa risale a Gesù. Come risale a lui il contrasto tra «Interiorità della vita religiosa» e «Politicità» della Chiesa (vedi anche post pubbl. Maggio 2014 “Il carattere politico della Chiesa”)

La seconda controversia vede come protagonisti i “sadducei”, un gruppo sacerdotale conservatore aristocratico, che negava la risurrezione perché non presente esplicitamente nelle Scritture. Essi pongono a Gesù un caso ipotetico, legato alla legge biblica del levirato, per cui il fratello era costretto a sposare la cognata vedova per dare un figlio al fratello defunto, così da perpetuarne il nome e l’eredità. Il caso limite della donna che sposa sette fratelli vuole dunque banalizzare la «vita eterna», rappresentandola in modo materialistico come quella terrena. Gesù spazza via questa visione superficiale ed esalta la vita purissima di Dio a cui noi saremo chiamati oltre la nostra morte (versetti 30,31,32). 

La terza polemica è con un esperto della legge biblica che pone la questione del primato nei vari precetti religiosi, che il giudaismo aveva catalogato in 613 comandamenti: 365 negativi e 248 positivi (secondo computi simbolici, condotti sulla base dei testi legislativi dell’Antico Testamento). Gesù ricorre a due passi biblici – Deuteronomio 6,5 e Levitico 19,18 – non tanto per mettere in ordine quel catalogo, ma per indicare l’atteggiamento generale con cui osservare i precetti, cioè «la via dell’amore totale per Dio e per i fratelli». In questo impegno è riassunta tutta la legge biblica (versetti 37,38,39,40). 

L’ultimo contrasto è di taglio esegetico e riflette lo stile delle discussioni rabbiniche. Si tratta di definire il messianismo davidico: è Gesù stesso a interpellare i “farisei” sulla base del Salmo messianico 110. Il Messia è figlio di Davide, secondo l’interpretazione comune; e, allora, osserva Gesù, come mai in quel Salmo Davide lo chiama «Signore?» Si vuole, così, far balenare l’origine trascendente di Cristo, il quale attua in pienezza il dettato di quel Salmo perché, pur essendo discendente di Davide secondo la carne, lo supera nella sua dignità di Figlio di Dio, divenendo così suo Signore (versetti 41,42,43,44,45,46).   




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