sabato 16 aprile 2016

IL RACCONTO DELLA PASSIONE

Il racconto matteano (cap. 26) presenta un Cristo solenne, che va incontro in modo consapevole alle vicende terribili che lo attendono, vicende che l’evangelista spesso illustra attraverso citazioni dell’Antico Testamento, così da mostrare che tutti gli eventi fanno parte di un progetto divino "trascendente" e già "configurato". Come abbiamo visto, Matteo ama ricorrere a queste citazioni bibliche, che gli studiosi chiamano “profezie di compimento”. Queste sono presenti soprattutto nei capitoli 1-2 del suo vangelo. 

Nella casa di un certo Simone il lebbroso (Giovanni, invece, parlerà della casa di Lazzaro), a Betania, sobborgo di Gerusalemme, si consuma invece un atto d’amore e di venerazione: una donna innominata (per Giovanni è Maria, sorella di Lazzaro) versa un profumo prezioso su Gesù, sollevando la reazione gretta dei discepoli (Giovanni farà reagire solo Giuda, il traditore). Questo gesto d’amore è letto e interpretato da Cristo come un segno profetico della sua "sepoltura" e “imbalsamazione” e come una prefigurazione dell’annunzio universale del vangelo. 


Frattanto si consuma il tradimento: Giuda riceve «trenta monete d’argento» per la consegna di Gesù. La cifra vuole rimandare ai trenta sicli d’argento versati al pastore nel racconto del profeta Zaccaria (11,12), ma anche al prezzo della vita di uno schiavo, secondo Esodo 21,32. Si avvicina, così, il momento del tradimento che Gesù – con quella consapevolezza già indicata – delinea ai Dodici durante la cena pasquale che egli sta celebrando. Non entriamo nel merito della complessa questione cronologica riguardante la Pasqua di quell’anno, anche perché i dati offerti da Matteo, Marco e Luca non coincidono con quelli di Giovanni. Certo è che l’evangelista vuole sottolineare un nesso tra la Pasqua e la cena e la morte di Cristo. 

Per quattro volte Gesù parla del tradimento che si sta per consumare. Ma il centro della scena è rappresentato dalle parole che Cristo pronunzia sul pane azzimo e sulla coppa di vino che facevano parte del rituale della cena pasquale ebraica. Sul pane egli dichiara  che esso «è il mio corpo», mentre sul calice di vino afferma che esso «è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati». Si rimanda, dunque, al rito dell’alleanza tra Dio e Israele celebrato sul Sinai proprio nel sangue sacrificale (Esodo 24,6-8). Si ha poi un preciso riferimento alla morte di Cristo «per molti», cioè per tutta l’umanità secondo il linguaggio semitico, con un rimando al Servo sofferente cantato da Isaia (53,11). E questa morte è destinata a rimettere il peccato del mondo.


Conclusa la celebrazione della cena pasquale, che è l’inizio dell’eucarestia cristiana, cantato l’Hallel pasquale (i Salmi 113-118), Gesù s’avvia con i suoi discepoli verso il monte degli Ulivi, a est della città santa. Egli annunzia lo “scandalo”, cioè l’inciampo nella fede che avranno i suoi discepoli, compreso Pietro, che – nonostante le sue proteste di assoluta fedeltà – rinnegherà il suo Signore. Come sempre in Matteo, la figura di Cristo si erge solenne ed è capace di attraversare gli eventi, dominandoli e giudicandoli. Frattanto il piccolo corteo raggiunge il Getsemani, cioè “frantoio per l’olio”, un podere coltivato a ulivi. Qui Gesù, colpito dall’angoscia per ciò che l’attende, inizia una preghiera drammatica, isolandosi dagli altri, tranne Pietro, Giacomo e Giovanni, i testimoni dei momenti più alti della sua esistenza terrena. 


La preghiera rivolta al padre implora che «il calice passi»: si tratta di un’espressione biblica per indicare la sorte terribile che Dio riservava in particolare ai suoi avversari. Gesù, quindi, sente il peso terribile della morte a cui è destinato «in remissione dei peccati» (26,28). Egli appare anche come il modello del perfetto orante che si affida alla volontà divina nel momento della prova (la «tentazione»). Un modello che non è compreso e imitato dagli apostoli, ormai immersi nel sonno. È per questo che alla fine li scuote dalla loro inerzia, persino con un tocco d’ironia: «Dormite ormai e riposate!... Alzatevi, andiamo!» (26.45-46). 

Si sta, infatti, per compiere il tradimento, segnalato dall’avanzare di Giuda con una folla armata. Il “bacio”, che indicava il rapporto di amicizia tra discepolo e maestro, si trasforma in un segnale di inganno. Gesù, consapevole del suo destino, risponde con una frase che in greco è così essenziale da essere simile a un soffio e che può essere così sciolta: «Amico, fa’ ora quello per cui tu sei qui e per cui sei venuto!». Ora si deve passare dall’annunzio alla sua attuazione. Cristo aveva a più riprese affermato che questi eventi finali “dovevano” compiersi perché si realizzasse il piano divino di salvezza. 


La reazione di difesa di uno dei discepoli (Giovanni nel suo vangelo lo identificherà con Pietro) è condannata da Cristo sulla base di due motivazioni fondamentali. Da un lato, c’è l’esaltazione della non violenza e del perdono, espressa con la frase proverbiale su coloro che impugnano la spada, votati a morire di spada (vedi anche Genesi 9,6 e Matteo 5,38-41). D’altro canto, c’è la certezza che gli eventi che si stanno consumando fanno parte di un disegno che Dio ha tracciato e che sfocerà nella “salvezza” e nella “gloria”. Per due volte, infatti, si ripete la frase sull’«adempimento delle scritture» (vrs.54 e 56). Gesù rivolge anche un monito amaro alla folla, sopraggiunta per l’atto infamante del suo arresto (vrs.55). Poi, abbandonato dai suoi discepoli, si avvia per il processo che verrà celebrato dinanzi al tribunale ufficiale giudaico. 

Gesù è, dunque, trasferito nel palazzo del sommo sacerdote Caifa, ove è convocata un’assemblea informale del sinedrio (vocabolo greco che significa “consesso”, “consiglio”), il massimo organo giuridico-religioso del giudaismo di quel periodo. Che si tratti di un’udienza informale è da supporre sulla base di quanto è noto riguardo alle sedute di quel consiglio: esse dovevano essere celebrate di giorno (e non di notte, come accade per Gesù) e nell’«aula della pietra squadrata», una sala ufficiale, diversa dalla sede del sommo sacerdote ove ora Gesù è giudicato. Inoltre, in 27,1, si menziona appunto una seduta formale del sinedrio per pronunziare la sentenza contro Gesù ed essa si celebra al mattino del giorno dopo. 

L’istruttoria cerca di trovare un capo d’imputazione religioso così da permettere al tribunale giudaico di emettere una sentenza compatibile con la sua giurisdizione. Alcuni testimoni vengono spinti ad attestare che Gesù ha affermato di poter distruggere e riedificare in tre giorni il tempio, il luogo sacro e inviolabile. È noto che questa dichiarazione, riferita da Giovanni (2,19), aveva per Cristo un altro significato spirituale, rimandando al suo corpo, presenza suprema di Dio. Ma è sulla risposta di Gesù alla domanda di Caifa che si trova materia per un capo d’imputazione. Infatti, di fronte all’interrogazione sulla sua messianicità, Cristo ricorre a due passi biblici: il primo è il Salmo 110,1, un testo regale-messianico; il secondo, desunto dal profeta Daniele (7,13), è più forte perché presenta un aspetto divino che, applicato a un uomo, risulta blasfemo.


È per questo che Caifa incrimina Gesù per bestemmia e lo sottopone alla pubblica detestazione. Frattanto, mentre Cristo appare come il Messia deriso e umiliato, Pietro consuma il suo tradimento, precipitando sempre più nell’abisso del "rifiuto" e del "rinnegamento": «cominciò a imprecare e a giurare: non conosco quell’uomo!» (26,74). Il canto del gallo è per l’apostolo una memoria viva del monito di Gesù e l’inizio del «suo pentimento». 


L’indomani, dopo la seduta formale del sinedrio, Cristo è deferito al tribunale romano, l’unico che poteva emettere sentenze capitali. Ma, a questo punto, il solo Matteo introduce un episodio riguardante Giuda. Colpito dal suo gesto, decide di restituire le monete d’argento del tradimento ai sacerdoti, i quali destinano la cifra all’acquisizione di un terreno da usare come area di sepoltura per gli stranieri. Il nome di quel luogo diventa in aramaico “Akeldamà” (vedi Atti 1,19), cioè «campo di sangue», e – come è suo uso – Matteo vede in questo evento l’attuazione di una profezia attribuita a Geremia: in verità si tratta di Zaccaria 11,12-13. Inoltre egli sottolinea il distacco, che perdura «fino al giorno d’oggi», tra Cristo e il suo popolo, segno della tensione che si sperimentava al tempo di Matteo tra la Chiesa e il giudaismo.   


    

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