Il racconto matteano (cap. 26) presenta un
Cristo solenne, che va incontro in modo consapevole alle vicende terribili che
lo attendono, vicende che l’evangelista spesso illustra attraverso citazioni
dell’Antico Testamento, così da mostrare che tutti gli eventi fanno parte di un
progetto divino "trascendente" e già "configurato". Come abbiamo visto, Matteo ama
ricorrere a queste citazioni bibliche, che gli studiosi chiamano “profezie di
compimento”. Queste sono presenti soprattutto nei capitoli 1-2 del suo vangelo.
Nella casa di un certo Simone il
lebbroso (Giovanni, invece, parlerà della casa di Lazzaro), a Betania,
sobborgo di Gerusalemme, si consuma invece un atto d’amore e di venerazione:
una donna innominata (per Giovanni è Maria, sorella di Lazzaro) versa un
profumo prezioso su Gesù, sollevando la reazione gretta dei discepoli (Giovanni
farà reagire solo Giuda, il traditore). Questo gesto d’amore è letto e
interpretato da Cristo come un segno profetico della sua "sepoltura" e
“imbalsamazione” e come una prefigurazione dell’annunzio universale del
vangelo.
Frattanto si consuma il
tradimento: Giuda riceve «trenta monete d’argento» per la consegna di
Gesù. La cifra vuole rimandare ai trenta sicli d’argento versati al pastore nel
racconto del profeta Zaccaria (11,12), ma anche al prezzo della vita di uno
schiavo, secondo Esodo 21,32. Si avvicina, così, il momento del tradimento che
Gesù – con quella consapevolezza già indicata – delinea ai Dodici durante la
cena pasquale che egli sta celebrando. Non entriamo nel merito della complessa
questione cronologica riguardante la Pasqua di quell’anno, anche perché i dati
offerti da Matteo, Marco e Luca non coincidono con quelli di Giovanni. Certo è
che l’evangelista vuole sottolineare un nesso tra la Pasqua e la cena e la
morte di Cristo.
Per quattro volte
Gesù parla del tradimento che si sta per consumare. Ma il centro della
scena è rappresentato dalle parole che Cristo pronunzia sul pane azzimo e sulla
coppa di vino che facevano parte del rituale della cena pasquale ebraica. Sul
pane egli dichiara che esso «è il mio
corpo», mentre sul calice di vino afferma che esso «è il mio sangue
dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati». Si rimanda,
dunque, al rito dell’alleanza tra Dio e Israele celebrato sul Sinai proprio nel
sangue sacrificale (Esodo 24,6-8). Si ha poi un preciso riferimento alla morte
di Cristo «per molti», cioè per tutta l’umanità secondo il linguaggio semitico,
con un rimando al Servo sofferente cantato da Isaia (53,11). E questa morte è
destinata a rimettere il peccato del mondo.
Conclusa la celebrazione della cena pasquale, che è l’inizio
dell’eucarestia cristiana, cantato l’Hallel pasquale (i Salmi 113-118), Gesù
s’avvia con i suoi discepoli verso il monte degli Ulivi, a est della città
santa. Egli annunzia lo “scandalo”, cioè l’inciampo nella fede che avranno i
suoi discepoli, compreso Pietro, che – nonostante le sue proteste di assoluta
fedeltà – rinnegherà il suo Signore. Come sempre in Matteo, la figura di Cristo
si erge solenne ed è capace di attraversare gli eventi, dominandoli e
giudicandoli. Frattanto il piccolo corteo raggiunge il Getsemani, cioè
“frantoio per l’olio”, un podere coltivato a ulivi. Qui Gesù, colpito
dall’angoscia per ciò che l’attende, inizia una preghiera drammatica,
isolandosi dagli altri, tranne Pietro, Giacomo e Giovanni, i testimoni dei
momenti più alti della sua esistenza terrena.
La preghiera rivolta al padre implora che «il calice passi»:
si tratta di un’espressione biblica per indicare la sorte terribile che Dio
riservava in particolare ai suoi avversari. Gesù, quindi, sente il peso
terribile della morte a cui è destinato «in remissione dei peccati» (26,28).
Egli appare anche come il modello del perfetto orante che si affida alla
volontà divina nel momento della prova (la «tentazione»). Un modello che non è
compreso e imitato dagli apostoli, ormai immersi nel sonno. È per questo che
alla fine li scuote dalla loro inerzia, persino con un tocco d’ironia: «Dormite
ormai e riposate!... Alzatevi, andiamo!» (26.45-46).
Si sta, infatti, per compiere il tradimento, segnalato
dall’avanzare di Giuda con una folla armata. Il “bacio”, che indicava il
rapporto di amicizia tra discepolo e maestro, si trasforma in un segnale di
inganno. Gesù, consapevole del suo destino, risponde con una frase che in greco
è così essenziale da essere simile a un soffio e che può essere così sciolta:
«Amico, fa’ ora quello per cui tu sei qui e per cui sei venuto!». Ora si deve
passare dall’annunzio alla sua attuazione. Cristo aveva a più riprese affermato
che questi eventi finali “dovevano” compiersi perché si realizzasse il piano
divino di salvezza.
La reazione di
difesa di uno dei discepoli (Giovanni nel suo vangelo lo identificherà
con Pietro) è condannata da Cristo sulla base di due motivazioni fondamentali.
Da un lato, c’è l’esaltazione della non violenza e del perdono, espressa con la
frase proverbiale su coloro che impugnano la spada, votati a morire di spada
(vedi anche Genesi 9,6 e Matteo 5,38-41). D’altro canto, c’è la certezza che
gli eventi che si stanno consumando fanno parte di un disegno che Dio ha
tracciato e che sfocerà nella “salvezza” e nella “gloria”. Per due volte, infatti,
si ripete la frase sull’«adempimento delle scritture» (vrs.54 e 56). Gesù
rivolge anche un monito amaro alla folla, sopraggiunta per l’atto infamante del
suo arresto (vrs.55). Poi, abbandonato dai suoi discepoli, si avvia per il
processo che verrà celebrato dinanzi al tribunale ufficiale giudaico.
Gesù è, dunque, trasferito nel palazzo
del sommo sacerdote Caifa, ove è convocata un’assemblea informale del sinedrio (vocabolo
greco che significa “consesso”, “consiglio”), il massimo organo
giuridico-religioso del giudaismo di quel periodo. Che si tratti di un’udienza
informale è da supporre sulla base di quanto è noto riguardo alle sedute di
quel consiglio: esse dovevano essere celebrate di giorno (e non di notte, come
accade per Gesù) e nell’«aula della pietra squadrata», una sala ufficiale,
diversa dalla sede del sommo sacerdote ove ora Gesù è giudicato. Inoltre, in
27,1, si menziona appunto una seduta formale del sinedrio per pronunziare la
sentenza contro Gesù ed essa si celebra al mattino del giorno dopo.
L’istruttoria cerca di trovare un
capo d’imputazione religioso così da permettere al tribunale giudaico di
emettere una sentenza compatibile con la sua giurisdizione. Alcuni testimoni
vengono spinti ad attestare che Gesù ha affermato di poter distruggere e
riedificare in tre giorni il tempio, il luogo sacro e inviolabile. È noto che
questa dichiarazione, riferita da Giovanni (2,19), aveva per Cristo un altro
significato spirituale, rimandando al suo corpo, presenza suprema di Dio. Ma è
sulla risposta di Gesù alla domanda di Caifa che si trova materia per un capo d’imputazione.
Infatti, di fronte all’interrogazione sulla sua messianicità, Cristo ricorre a
due passi biblici: il primo è il Salmo 110,1, un testo regale-messianico; il
secondo, desunto dal profeta Daniele (7,13), è più forte perché presenta un
aspetto divino che, applicato a un uomo, risulta blasfemo.
È per questo che Caifa incrimina Gesù per bestemmia e lo
sottopone alla pubblica detestazione. Frattanto, mentre Cristo appare come il
Messia deriso e umiliato, Pietro consuma il suo tradimento, precipitando sempre
più nell’abisso del "rifiuto" e del "rinnegamento": «cominciò a imprecare e a
giurare: non conosco quell’uomo!» (26,74). Il canto del gallo è per l’apostolo
una memoria viva del monito di Gesù e l’inizio del «suo pentimento».
L’indomani, dopo la seduta formale
del sinedrio, Cristo è deferito al tribunale romano, l’unico che poteva
emettere sentenze capitali. Ma, a questo punto, il solo Matteo introduce un
episodio riguardante Giuda. Colpito dal suo gesto, decide di restituire le
monete d’argento del tradimento ai sacerdoti, i quali destinano la cifra all’acquisizione
di un terreno da usare come area di sepoltura per gli stranieri. Il nome di
quel luogo diventa in aramaico “Akeldamà” (vedi Atti 1,19), cioè «campo di
sangue», e – come è suo uso – Matteo vede in questo evento l’attuazione di una
profezia attribuita a Geremia: in verità si tratta di Zaccaria 11,12-13. Inoltre
egli sottolinea il distacco, che perdura «fino al giorno d’oggi», tra Cristo e
il suo popolo, segno della tensione che si sperimentava al tempo di Matteo tra
la Chiesa e il giudaismo.
Nessun commento:
Posta un commento