Che Cristo conosca lo
sdegno risulta chiaro proprio leggendo questo capitolo (23,1-39) di Matteo. Esso
contiene una veemente requisitoria profetica contro l’ipocrisia religiosa che
si annidava nelle guide spirituali del giudaismo di allora. L’apostrofe
polemica inizia con un insegnamento rivolto al popolo e ai discepoli sul
pericolo della discrepanza tra il dire e il fare, cioè la scissione tra
l’insegnamento e il comportamento. L’osservanza di norme rituali, come quello
delle «frange» dei manti di preghiera o delle teche e dei legacci di cuoio
contenenti scritte bibliche da indossare durante il culto («filattèri»), i
titoli di prestigio, l’adempimento esteriore solenne possono nascondere un
vuoto interiore. E’, invece, l’umiltà del cuore e l’amore generoso ad essere la
vera anima della religione.
Si ha,
quindi, un attacco all’ipocrisia, nello spirito della tradizione
profetica. Ma il discorso di Gesù si fa ancora più teso e, imitando Isaia
(5,8-25), egli scaglia “sette” «Guai!», cioè “sette” invettive sdegnate contro
“scribi e farisei”. Il primo attacco riguarda l’ostacolo che essi creano
per un’autentica religiosità del popolo (versetto 13). Il secondo
ironizza sull’attività missionaria (i “proseliti”) che non converte, ma riduce
in schiavitù chi si avvicina a questa religiosità solo rituale (versetto 15). La
terza condanna tocca la questione del giuramento, come già in 5,33-37, così
da rivelare la minuzia di certe norme, capaci solo di nascondere ed evadere il
vero comandamento divino e il relativo genuino impegno morale (versetto 16).
Il quarto e il quinto «Guai!» si
muovono nella stessa direzione e segnalano la vanità di osservanze legalistiche
e rubricistiche, come pagare la decima anche sugli erbaggi rari e secondari
(menta, anèto e cumino) o rispettare norme di purità esteriore sulle stoviglie in
forma quasi maniacale. Sono norme pur legittime, ma prive di valore quando sono
disgiunte dalla giustizia, dalla misericordia e dalla fedeltà, i veri e
fondamentali precetti (versetti 23 e 25). Il sesto attacco tocca ancora
l’ipocrisia, che rende i fedeli simili a sepolcri imbiancati, di apparenza
nobile ma all’interno covi di impurità e marciume (versetto 27). L’ultimo
«Guai» (versetti 29,30,31,32,33,34,35), prendendo spunto dalle tombe, denuncia
la falsa venerazione di quei profeti che, in realtà, erano stati uccisi proprio
dagli stessi Ebrei, come attesta la storia di Israele e di tutta l’umanità, a
partire da Abele per giungere sino a Zaccaria, un sacerdote giusto ucciso dal
re Ioas, come è narrato nel secondo libro delle Cronache (24,20-22).
Il grido di Gesù raggiunge in
quest’ultima invettiva il tono più alto, ma nel paragrafo finale di questo
discorso fremente di sdegno c’è un passaggio di tonalità. In forma quasi di
lamento affettuoso Cristo piange sull’ostinazione di Gerusalemme, che egli
avrebbe voluto proteggere dalla rovina incombente come fa una chioccia che
raccoglie sotto le ali i suoi pulcini. Ma essa non ha ascoltato e, in finale,
Gesù fa balenare il giorno del suo ritorno conclusivo nella storia umana alla
fine dei tempi (versetti 36,37,38,39).
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