sabato 9 aprile 2016

«GUAI A VOI, SCRIBI E FARISEI»


Che Cristo conosca lo sdegno risulta chiaro proprio leggendo questo capitolo (23,1-39) di Matteo. Esso contiene una veemente requisitoria profetica contro l’ipocrisia religiosa che si annidava nelle guide spirituali del giudaismo di allora. L’apostrofe polemica inizia con un insegnamento rivolto al popolo e ai discepoli sul pericolo della discrepanza tra il dire e il fare, cioè la scissione tra l’insegnamento e il comportamento. L’osservanza di norme rituali, come quello delle «frange» dei manti di preghiera o delle teche e dei legacci di cuoio contenenti scritte bibliche da indossare durante il culto («filattèri»), i titoli di prestigio, l’adempimento esteriore solenne possono nascondere un vuoto interiore. E’, invece, l’umiltà del cuore e l’amore generoso ad essere la vera anima della religione

Si ha, quindi, un attacco all’ipocrisia, nello spirito della tradizione profetica. Ma il discorso di Gesù si fa ancora più teso e, imitando Isaia (5,8-25), egli scaglia “sette” «Guai!», cioè “sette” invettive sdegnate contro “scribi e farisei”. Il primo attacco riguarda l’ostacolo che essi creano per un’autentica religiosità del popolo (versetto 13). Il secondo ironizza sull’attività missionaria (i “proseliti”) che non converte, ma riduce in schiavitù chi si avvicina a questa religiosità solo rituale (versetto 15). La terza condanna tocca la questione del giuramento, come già in 5,33-37, così da rivelare la minuzia di certe norme, capaci solo di nascondere ed evadere il vero comandamento divino e il relativo genuino impegno morale (versetto 16). 

Il quarto e il quinto «Guai!» si muovono nella stessa direzione e segnalano la vanità di osservanze legalistiche e rubricistiche, come pagare la decima anche sugli erbaggi rari e secondari (menta, anèto e cumino) o rispettare norme di purità esteriore sulle stoviglie in forma quasi maniacale. Sono norme pur legittime, ma prive di valore quando sono disgiunte dalla giustizia, dalla misericordia e dalla fedeltà, i veri e fondamentali precetti (versetti 23 e 25). Il sesto attacco tocca ancora l’ipocrisia, che rende i fedeli simili a sepolcri imbiancati, di apparenza nobile ma all’interno covi di impurità e marciume (versetto 27). L’ultimo «Guai» (versetti 29,30,31,32,33,34,35), prendendo spunto dalle tombe, denuncia la falsa venerazione di quei profeti che, in realtà, erano stati uccisi proprio dagli stessi Ebrei, come attesta la storia di Israele e di tutta l’umanità, a partire da Abele per giungere sino a Zaccaria, un sacerdote giusto ucciso dal re Ioas, come è narrato nel secondo libro delle Cronache (24,20-22). 

Il grido di Gesù raggiunge in quest’ultima invettiva il tono più alto, ma nel paragrafo finale di questo discorso fremente di sdegno c’è un passaggio di tonalità. In forma quasi di lamento affettuoso Cristo piange sull’ostinazione di Gerusalemme, che egli avrebbe voluto proteggere dalla rovina incombente come fa una chioccia che raccoglie sotto le ali i suoi pulcini. Ma essa non ha ascoltato e, in finale, Gesù fa balenare il giorno del suo ritorno conclusivo nella storia umana alla fine dei tempi (versetti 36,37,38,39).     






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