sabato 9 aprile 2016

IL DISCORSO ESCATOLOGICO (SU GLI ULTIMI TEMPI)


Eccoci al quinto discorso di Gesù nel vangelo di Matteo: nei capitoli 5-7 avevamo incontrato quello della “montagna”, nel capitolo 10 il discorso “missionario”, nel capitolo 13 le “parabole”, nel capitolo 18 la “comunità ecclesiale”. Ora viene considerato il fine ultimo della storia (Mt Cap. 24 e 25); per questo si è soliti definire il discorso come “escatologico”, termine di origine greca che significa «riguardante le cose ultime». Bisogna subito notare, però, che nelle parole di Gesù si intrecciano piani diversi: alla fine del tempo si associa l’evento clamoroso della fine di Gerusalemme e del suo tempio – avvenuta nel 70 ad opera dei romani – e vissuta in modo traumatico dagli stessi evangelisti, che l’hanno fatta emergere nel discorso di Cristo (vedi Marco 13,1-37 e Luca 21,5-38). Inoltre, com’era costume in quel tempo, il linguaggio di Gesù, è costellato di immagini e simboli caratteristici della letteratura “apocalittica”, (vedi Il libro di Daniele). 

Nel versetto 3 si vede bene l’intreccio dei piani: da un lato, c’è il crollo del tempio a cui Gesù ha fatto riferimento, cioè agli eventi del 70; dall’altro, si parla della «venuta» piena e definitiva (in greco, parousía) di Cristo alla «fine del mondo». Ciò che, subito dopo, Gesù raffigura – rifacendosi sempre alle immagini del linguaggio apocalittico – è lo svolgersi della storia della Chiesa, con le persecuzioni esterne e con le crisi interne («l’amore di molti si raffredderà»). 

E’, dunque, la vicenda che sta davanti a Gesù e che sarà caratterizzata, allo stesso tempo, dalla diffusione del vangelo in tutto il mondo. Poi si rappresenta, sempre con immagini apocalittiche e con uno stato di forte tensione, la «tribolazione grande», cioè la fase quasi di gestazione degli ultimi tempi. Qui pure appare in filigrana la devastazione di Gerusalemme, dipinta con i colori di un altro atto simile: quello che nel 167 a.C. il re siro-ellenistico Antioco IV Epifane compì introducendo nel tempio «l’idolo abominevole della devastazione» (vedi Daniele 9,27), cioè la statua di Zeus. 

Su questa base storica il discorso si allarga alla fine dei tempi, tratteggiata con catastrofi cosmiche, ma sempre tenendo fissa l’attenzione alla Chiesa, con le crisi create dai falsi profeti e dagli pseudo-messia  (i «falsi cristi»). Il vertice rimane la parousía, cioè «la venuta del Figlio dell’uomo», l’ultima grande manifestazione che sigillerà la storia. Essa sarà inattesa e destinata a tutti i popoli, che saranno sottoposti a giudizio. Tutto il brano è, perciò, pervaso da uno stato di tensione, di speranza e di timore ed è un invito a impegnarsi seriamente per il «regno di Dio», lasciando a margine le cose secondarie. L’accenno alla «grande tromba» (versetto 31) fa parte della scenografia apocalittica. Ad essa si ispira anche Paolo in 1Corinzi 15,52 («al suono dell’ultima tromba») e in Tessalonicesi 4,16 («al suono della tromba di Dio). 

Continua il cosiddetto “Discorso Escatologico” con una mini-parabola suggestiva, quella del fico che con il suo fogliame segnala la vicinanza dell’estate. Allo stesso modo nella Storia ci sono segni che ne indicano la direzione e la meta. Data la complessità dei temi – e tenendo conto del già citato intreccio dei piani – non sempre è facile distinguere se Gesù si stia riferendo alla storia nel suo svolgimento o alla fine dei tempi. E’ il caso di 24,34: «Non passerà questa generazione prima che tutto questo accada». Sorge una domanda : si tratta della distruzione di Gerusalemme o della speranza della venuta finale come imminente, secondo quanto desiderava la Chiesa delle origini, o della continua attesa di tutte le generazioni? 

Altrettanto sorprendente e complesso è il detto – sicuramente autentico perché la Chiesa non avrebbe mai messo in bocca a Gesù una simile frase – secondo il quale anche il Figlio, cioè il Cristo, ignora il giorno e l’ora della fine. E’ probabile che Cristo voglia spostare l’accento dalla curiosità morbosa sulla fine del mondo alla preparazione costante all’interno della storia. Infatti, si evoca il tempo di Noè, in cui gli uomini erano superficiali e distratti e non seppero intuire la minaccia del diluvio e del giudizio divino che sovrastava su di loro. L’irruzione della fine sarà a sorpresa, quando forse si sarà occupati nel lavoro dei campi o attorno alla macina del grano; sarà simile all’improvviso intervento di un ladro, «nell’ora che non immaginate». (24,44). 

La vigilanza attenta e costante è, perciò, decisiva ed è illustrata da «tre» parabole. Ecco innanzitutto (la prima) la storia dei due servi (versetti 45-51): c’è il domestico vigilante, fidato e prudente e c’è il servo malvagio, dissipato e superficiale che sarà vittima dell’arrivo improvviso del suo padrone. La seconda parabola, quella delle ragazze sagge e delle stolte che partecipano a un corteo nuziale e alla relativa festa (Cap. 25,1-13), è un piccolo capolavoro. 

Secondo gli usi nuziali dell’antico Vicino Oriente si costituivano due cortei, dalle case dello sposo e della sposa verso il luogo della celebrazione delle nozze con il grande banchetto. Le lunghe attese potevano anche distrarre, come accade alle vergini del corteo, che si dividono in due gruppi: c’è chi veglia con le lampade curate e alimentate di olio e c’è chi si addormenta e alla fine si trova con la lampada spenta e, quindi, con un forte ritardo rispetto al corteo che raggiunge il luogo del banchetto. Il rischio è quello di venire esclusi dal banchetto di nozze, cioè dal regno. Infatti la porta chiusa e la risposta gelida dello sposo: «Non vi conosco», esprimono in modo netto il destino di coloro che non sanno essere pronti e vigili davanti all’improvvisa venuta del Signore per il banchetto messianico finale, cioè per la pienezza del «regno di Dio». 

La terza parabola è quella “dei talenti”; Il talento inizialmente era un’unità di misura di peso dei metalli preziosi e poteva equivalere a 35 chilogrammi. Divenne, così, un’importante unità monetaria in epoca successiva: le rendite annuali di Erode il Grande pare fossero di 900 talenti. Perciò, l’aver affidato da parte di un padrone cinque, due o un talento costituiva un incarico significativo. Il padrone, partito «per un viaggio» (25,14), si presenta «dopo molto tempo» (25,19): è l’indicazione del tempo della storia in cui bisogna sapere far fruttare il dono divino. L’accento, infatti, cade sia sull’iniziativa del padrone sia sull’impegno dei servi che affidano alle banche il loro deposito perché si accresca: si parla appunto del tokos, cioè degli interessi da riscuotere (25,27). 

All’interno della parabola acquista rilievo un personaggio, il servo achreios, (versetto 30), cioè “inutile”, “non necessario”, il fannullone, l’inerte, che si accontenta di seppellire nella terra il suo talento. La lezione è facile: mentre si è in attesa della venuta del Signore alla fine della storia, è indispensabile essere operosi, bisogna far rendere in opere giuste il dono della grazia divina, si deve essere attenti e impegnati in modo tale che, al suo arrivo, il Signore possa vedere che la sua generosità ha avuto come risposta la generosità dell’uomo. 

A questo punto, uscendo dal velo delle parabole e usando una rappresentazione più diretta, il discorso “sulle cose ultime” o “escatologico” dipinge in una pagina di grande potenza e intensità il giudizio divino affidato al Figlio dell’uomo, al termine della storia (Cap. 25,31-46). Attraverso due quadri paralleli ma antitetici si descrivono il peccato e il bene dell’umanità, e il relativo giudizio che comporta la condanna e il premio. Le immagini sono così chiare e immediate da impedire qualsiasi esitazione nell’interpretazione. Accontentiamoci solo di segnalare alcuni particolari significativi. 

Innanzitutto Cristo è raffigurato come il re-Messia, il cui compito è rendere giustizia ai suoi fedeli e condannare gli empi (Salmo 72). Egli è presentato anche come il pastore che separa le pecore e i capri nei vari stazzi per la notte. E’, quindi, la guida del suo gregge. Ma, al di là delle immagini del re, del giudice e del pastore, appare in modo evidente l’oggetto del giudizio ultimo: è l’amore per i «fratelli più piccoli». Quest’ultima espressione ricorre due volte ed è precisata con l’elenco dettagliato dei poveri della terra: gli affamati, gli assetati, gli stranieri, i miseri, gli ammalati, i carcerati. E’ solo con la fede operosa che si può entrare nel «regno di Dio». Una fede che può essere anche implicita, come è attestato da quei giusti che ignoravano di servire Cristo negli ultimi e nei «fratelli più piccoli». L’amore rimane, dunque, la grande discriminante che definisce i veri discepoli di Cristo ed è anche l’impegno fondamentale per il tempo della storia, in attesa della venuta piena e definitiva del Signore. 

A proposito, infine, del discorso “escatologico” è facile osservare che la prima parte (24, 4-35) riprende parole e temi presenti nella tradizione di Marco. Nella seconda parte invece, la più originale, Matteo si distanzia sia da Marco che da Luca, aggiungendo diverse parabole sulla vigilanza e concludendo con la maestosa descrizione del “giudizio finale”. Sembra che l’evangelista abbia voluto insistere sulle esigenze pratiche dell’attesa del Signore. Non basta esortare alla vigilanza: quali atteggiamenti concreti si devono assumere? Da queste annotazioni si può intravedere come Matteo ha costruito i suoi discorsi. Non si è limitato a raccogliere insieme le parole del Signore di argomento affine, ma ha costruito delle vere composizioni letterarie con una loro chiara finalità dottrinale. Tuttavia Matteo resta uomo di tradizione: ordina e approfondisce i materiali delle fonti, non li inventa. E sebbene il suo vangelo voglia essere catechetico e dottrinale, resta a pieno titolo un “vangelo”, cioè una narrazione della storia di Gesù, non un catechismo o un trattato teologico.                




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