Eccoci al quinto discorso
di Gesù nel vangelo di Matteo: nei capitoli 5-7 avevamo incontrato quello della
“montagna”, nel capitolo 10 il discorso “missionario”, nel capitolo 13 le
“parabole”, nel capitolo 18 la “comunità ecclesiale”. Ora viene considerato il
fine ultimo della storia (Mt Cap. 24 e 25); per questo si è soliti definire il
discorso come “escatologico”, termine di origine greca che significa
«riguardante le cose ultime». Bisogna subito notare, però, che nelle parole di
Gesù si intrecciano piani diversi: alla fine del tempo si associa l’evento
clamoroso della fine di Gerusalemme e del suo tempio – avvenuta nel 70 ad opera
dei romani – e vissuta in modo traumatico dagli stessi evangelisti, che l’hanno
fatta emergere nel discorso di Cristo (vedi Marco 13,1-37 e Luca 21,5-38).
Inoltre, com’era costume in quel tempo, il linguaggio di Gesù, è costellato di
immagini e simboli caratteristici della letteratura “apocalittica”, (vedi Il
libro di Daniele).
Nel versetto 3
si vede bene l’intreccio dei piani: da un lato, c’è il crollo del tempio a cui
Gesù ha fatto riferimento, cioè agli eventi del 70; dall’altro, si parla della
«venuta» piena e definitiva (in greco, parousía)
di Cristo alla «fine del mondo». Ciò che, subito dopo, Gesù raffigura –
rifacendosi sempre alle immagini del linguaggio apocalittico – è lo svolgersi
della storia della Chiesa, con le persecuzioni esterne e con le crisi interne
(«l’amore di molti si raffredderà»).
E’,
dunque, la vicenda che sta davanti a Gesù e che sarà caratterizzata,
allo stesso tempo, dalla diffusione del vangelo in tutto il mondo. Poi si
rappresenta, sempre con immagini apocalittiche e con uno stato di forte
tensione, la «tribolazione grande», cioè la fase quasi di gestazione degli
ultimi tempi. Qui pure appare in filigrana la devastazione di Gerusalemme,
dipinta con i colori di un altro atto simile: quello che nel 167 a.C. il re
siro-ellenistico Antioco IV Epifane compì introducendo nel tempio «l’idolo
abominevole della devastazione» (vedi Daniele 9,27), cioè la statua di Zeus.
Su questa base storica il
discorso si allarga alla fine dei tempi, tratteggiata con catastrofi cosmiche,
ma sempre tenendo fissa l’attenzione alla Chiesa, con le crisi create dai falsi
profeti e dagli pseudo-messia (i «falsi
cristi»). Il vertice rimane la parousía,
cioè «la venuta del Figlio dell’uomo», l’ultima grande manifestazione che
sigillerà la storia. Essa sarà inattesa e destinata a tutti i popoli, che
saranno sottoposti a giudizio. Tutto il brano è, perciò, pervaso da uno stato
di tensione, di speranza e di timore ed è un invito a impegnarsi seriamente per
il «regno di Dio», lasciando a margine le cose secondarie. L’accenno alla
«grande tromba» (versetto 31) fa parte della scenografia apocalittica. Ad essa
si ispira anche Paolo in 1Corinzi 15,52 («al suono dell’ultima tromba») e in Tessalonicesi
4,16 («al suono della tromba di Dio).
Continua
il cosiddetto “Discorso Escatologico” con una mini-parabola suggestiva,
quella del fico che con il suo fogliame segnala la vicinanza dell’estate. Allo
stesso modo nella Storia ci sono segni che ne indicano la direzione e la meta.
Data la complessità dei temi – e tenendo conto del già citato intreccio dei
piani – non sempre è facile distinguere se Gesù si stia riferendo alla storia
nel suo svolgimento o alla fine dei tempi. E’ il caso di 24,34: «Non passerà
questa generazione prima che tutto questo accada». Sorge una domanda : si
tratta della distruzione di Gerusalemme o della speranza della venuta finale
come imminente, secondo quanto desiderava la Chiesa delle origini, o della
continua attesa di tutte le generazioni?
Altrettanto
sorprendente e complesso è il detto – sicuramente autentico perché la
Chiesa non avrebbe mai messo in bocca a Gesù una simile frase – secondo il
quale anche il Figlio, cioè il Cristo, ignora il giorno e l’ora della fine. E’
probabile che Cristo voglia spostare l’accento dalla curiosità morbosa sulla
fine del mondo alla preparazione costante all’interno della storia. Infatti, si
evoca il tempo di Noè, in cui gli uomini erano superficiali e distratti e non
seppero intuire la minaccia del diluvio e del giudizio divino che sovrastava su
di loro. L’irruzione della fine sarà a sorpresa, quando forse si sarà occupati
nel lavoro dei campi o attorno alla macina del grano; sarà simile
all’improvviso intervento di un ladro, «nell’ora che non immaginate». (24,44).
La vigilanza attenta e costante
è, perciò, decisiva ed è illustrata da «tre» parabole. Ecco innanzitutto (la
prima) la storia dei due servi (versetti 45-51): c’è il domestico
vigilante, fidato e prudente e c’è il servo malvagio, dissipato e superficiale
che sarà vittima dell’arrivo improvviso del suo padrone. La seconda
parabola, quella delle ragazze sagge e delle stolte che partecipano a un corteo
nuziale e alla relativa festa (Cap. 25,1-13), è un piccolo capolavoro.
Secondo gli usi nuziali
dell’antico Vicino Oriente si costituivano due cortei, dalle case dello sposo e
della sposa verso il luogo della celebrazione delle nozze con il grande
banchetto. Le lunghe attese potevano anche distrarre, come accade alle vergini
del corteo, che si dividono in due gruppi: c’è chi veglia con le lampade curate
e alimentate di olio e c’è chi si addormenta e alla fine si trova con la
lampada spenta e, quindi, con un forte ritardo rispetto al corteo che raggiunge
il luogo del banchetto. Il rischio è quello di venire esclusi dal banchetto di
nozze, cioè dal regno. Infatti la porta chiusa e la risposta gelida dello
sposo: «Non vi conosco», esprimono in modo netto il destino di coloro che non
sanno essere pronti e vigili davanti all’improvvisa venuta del Signore per il
banchetto messianico finale, cioè per la pienezza del «regno di Dio».
La terza parabola è quella “dei talenti”;
Il talento inizialmente era un’unità di misura di peso dei metalli preziosi e
poteva equivalere a 35 chilogrammi. Divenne, così, un’importante unità
monetaria in epoca successiva: le rendite annuali di Erode il Grande pare
fossero di 900 talenti. Perciò, l’aver affidato da parte di un padrone cinque,
due o un talento costituiva un incarico significativo. Il padrone, partito «per
un viaggio» (25,14), si presenta «dopo molto tempo» (25,19): è l’indicazione
del tempo della storia in cui bisogna sapere far fruttare il dono divino.
L’accento, infatti, cade sia sull’iniziativa del padrone sia sull’impegno dei
servi che affidano alle banche il loro deposito perché si accresca: si parla appunto
del tokos, cioè degli interessi da
riscuotere (25,27).
All’interno della
parabola acquista rilievo un personaggio, il servo achreios, (versetto
30), cioè “inutile”, “non necessario”, il fannullone, l’inerte, che si
accontenta di seppellire nella terra il suo talento. La lezione è facile:
mentre si è in attesa della venuta del Signore alla fine della storia, è
indispensabile essere operosi, bisogna far rendere in opere giuste il dono
della grazia divina, si deve essere attenti e impegnati in modo tale che, al
suo arrivo, il Signore possa vedere che la sua generosità ha avuto come
risposta la generosità dell’uomo.
A
questo punto, uscendo dal velo delle parabole e usando una
rappresentazione più diretta, il discorso “sulle cose ultime” o “escatologico”
dipinge in una pagina di grande potenza e intensità il giudizio divino affidato
al Figlio dell’uomo, al termine della storia (Cap. 25,31-46). Attraverso due
quadri paralleli ma antitetici si descrivono il peccato e il bene dell’umanità,
e il relativo giudizio che comporta la condanna e il premio. Le immagini sono
così chiare e immediate da impedire qualsiasi esitazione nell’interpretazione.
Accontentiamoci solo di segnalare alcuni particolari significativi.
Innanzitutto Cristo è raffigurato
come il re-Messia, il cui compito è rendere giustizia ai suoi fedeli e
condannare gli empi (Salmo 72). Egli è presentato anche come il pastore che
separa le pecore e i capri nei vari stazzi per la notte. E’, quindi, la guida
del suo gregge. Ma, al di là delle immagini del re, del giudice e del pastore,
appare in modo evidente l’oggetto del giudizio ultimo: è l’amore per i
«fratelli più piccoli». Quest’ultima espressione ricorre due volte ed è
precisata con l’elenco dettagliato dei poveri della terra: gli affamati, gli
assetati, gli stranieri, i miseri, gli ammalati, i carcerati. E’ solo con la
fede operosa che si può entrare nel «regno di Dio». Una fede che può essere
anche implicita, come è attestato da quei giusti che ignoravano di servire
Cristo negli ultimi e nei «fratelli più piccoli». L’amore rimane, dunque, la
grande discriminante che definisce i veri discepoli di Cristo ed è anche
l’impegno fondamentale per il tempo della storia, in attesa della venuta piena
e definitiva del Signore.
A
proposito, infine, del discorso “escatologico” è facile osservare che
la prima parte (24, 4-35) riprende parole e temi presenti nella tradizione di
Marco. Nella seconda parte invece, la più originale, Matteo si distanzia sia da
Marco che da Luca, aggiungendo diverse parabole sulla vigilanza e concludendo
con la maestosa descrizione del “giudizio finale”. Sembra che l’evangelista
abbia voluto insistere sulle esigenze pratiche dell’attesa del Signore. Non
basta esortare alla vigilanza: quali atteggiamenti concreti si devono assumere?
Da queste annotazioni si può intravedere come Matteo ha costruito i suoi
discorsi. Non si è limitato a raccogliere insieme le parole del Signore di
argomento affine, ma ha costruito delle vere composizioni letterarie con una
loro chiara finalità dottrinale. Tuttavia Matteo resta uomo di tradizione:
ordina e approfondisce i materiali delle fonti, non li inventa. E sebbene il
suo vangelo voglia essere catechetico e dottrinale, resta a pieno titolo un
“vangelo”, cioè una narrazione della storia di Gesù, non un catechismo o un
trattato teologico.
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