giovedì 17 marzo 2016

LA PARABOLA DEGLI OPERAI MANDATI NELLA VIGNA



La parabola che ora Gesù propone (Mt. Cap. 20) si basa sul computo della giornata lavorativa secondo l’uso antico. La prima ora iniziava alle sei del mattino: nell’originale greco si ha tutta una scansione sulla base di questo orario che, nella traduzione, viene reso secondo il nostro uso (le nove sono la terza ora, la sesta diventa mezzogiorno, mentre la nona corrisponde alle tre pomeridiane e le cinque equivalgono all’undicesima ora). Nel racconto proposto da Gesù, a tutti i lavoratori, che venivano assunti alla giornata, è assegnato dal padrone della vigna un identico salario, nonostante l’evidente disparità di orario. Naturalmente la parabola non vuole illustrare un modello di comportamento sindacale. 

La sua finalità è, infatti, l’esaltazione della «generosità divina», che supera le rigide regole della giustizia; è la celebrazione della grazia, che va ben oltre il merito dell’uomo. Ma c’è un aspetto specifico che riflette la situazione in cui si viene a trovare l’opera di Cristo. Israele e i giusti sono, si, premiati per il loro impegno ma, con loro, lo sono anche i pubblicani, i peccatori e gli esterni che si sono convertiti dopo una loro esistenza di peccato. I primi e gli ultimi sono tutti salvati dall’amore misericordioso di Dio, che supera il mero computo materiale degli atti di giustizia compiuti. 

Frattanto Gesù per la terza volta annunzia ai dodici discepoli il suo destino di «morte e di gloria», mentre si sta avvicinando a Gerusalemme. In netto contrasto con questa dichiarazione e come espressione di incomprensione si pone la richiesta della madre dei «figli di Zebedeo» – cioè Giovanni e Giacomo, discepoli di Gesù –, la quale avanza la proposta di vedere i suoi figli come ministri nel futuro regno messianico instaurato da Cristo. Si riflette nella domanda la concezione popolare del Messia come sovrano, ma anche l’attesa che circondava Gesù. La risposta è netta ed è una specie di codice dell’autorità cristiana, vista come «servizio e donazione» e non come «potere e dominio». Il vero discepolo è colui che beve il calice della passione e morte di Cristo, cioè lo segue nel suo destino di sacrificio e di servizio. Emblematica è la definizione che Gesù dà della propria vita: egli è venuto «non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti». L’espiazione sacrificale del peccato di «molti» – termine che nel linguaggio semitico equivale a “tutti” – è la meta dell’esistenza terrena di Cristo. 

Il capitolo si chiude con il racconto della guarigione dei due ciechi di Gerico, che lo invocano con i titoli più solenni di «Signore» – in greco Kyrios –, riconoscendone la divinità, e di «Figlio di Davide», riconoscendone la messianicità. Gesù reagisce al loro appello commovendosi, provando misericordia e sanandoli. Ed essi diventano idealmente discepoli: l’ultimo verbo è, infatti, quello del «seguirlo» verso Gerusalemme.       















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