La parabola che ora Gesù
propone (Mt. Cap. 20) si basa sul computo della giornata lavorativa secondo l’uso
antico. La prima ora iniziava alle sei del mattino: nell’originale greco si ha
tutta una scansione sulla base di questo orario che, nella traduzione, viene
reso secondo il nostro uso (le nove sono la terza ora, la sesta diventa
mezzogiorno, mentre la nona corrisponde alle tre pomeridiane e le cinque
equivalgono all’undicesima ora). Nel racconto proposto da Gesù, a tutti i
lavoratori, che venivano assunti alla giornata, è assegnato dal padrone della
vigna un identico salario, nonostante l’evidente disparità di orario.
Naturalmente la parabola non vuole illustrare un modello di
comportamento sindacale.
La sua
finalità è, infatti, l’esaltazione della «generosità divina», che supera
le rigide regole della giustizia; è la celebrazione della grazia, che va ben
oltre il merito dell’uomo. Ma c’è un aspetto specifico che riflette la
situazione in cui si viene a trovare l’opera di Cristo. Israele e i giusti
sono, si, premiati per il loro impegno ma, con loro, lo sono anche i
pubblicani, i peccatori e gli esterni che si sono convertiti dopo una loro
esistenza di peccato. I primi e gli ultimi sono tutti salvati dall’amore
misericordioso di Dio, che supera il mero computo materiale degli atti di
giustizia compiuti.
Frattanto Gesù
per la terza volta annunzia ai dodici discepoli il suo destino di «morte
e di gloria», mentre si sta avvicinando a Gerusalemme. In netto contrasto con
questa dichiarazione e come espressione di incomprensione si pone la richiesta
della madre dei «figli di Zebedeo» – cioè Giovanni e Giacomo, discepoli di Gesù
–, la quale avanza la proposta di vedere i suoi figli come ministri nel futuro
regno messianico instaurato da Cristo. Si riflette nella domanda la concezione
popolare del Messia come sovrano, ma anche l’attesa che circondava Gesù. La
risposta è netta ed è una specie di codice dell’autorità cristiana, vista come «servizio e donazione» e non come «potere e dominio». Il vero discepolo è colui che beve il calice della passione e
morte di Cristo, cioè lo segue nel suo destino di sacrificio e di servizio. Emblematica è la
definizione che Gesù dà della propria vita: egli è venuto «non per essere
servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti». L’espiazione
sacrificale del peccato di «molti» – termine che nel linguaggio semitico
equivale a “tutti” – è la meta dell’esistenza terrena di Cristo.
Il capitolo si chiude con il racconto
della guarigione dei due ciechi di Gerico, che lo invocano con i titoli più
solenni di «Signore» – in greco Kyrios
–, riconoscendone la divinità, e di «Figlio di Davide», riconoscendone la
messianicità. Gesù reagisce al loro appello commovendosi, provando misericordia
e sanandoli. Ed essi diventano idealmente discepoli: l’ultimo verbo è, infatti,
quello del «seguirlo» verso Gerusalemme.
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