Il quarto vangelo ha ricevuto, a partire
da Clemente Alessandrino (II-III secolo), la definizione di “vangelo
spirituale”, una definizione che l’ha accompagnato nei secoli. Testo di alta
qualità teologica, «il fiore dei vangeli», come lo chiamava un altro scrittore
di Alessandria d’Egitto del III secolo, Origene, questo scritto rivela subito –
anche al lettore che lo accosta per la prima volta – almeno due edizioni. Nei
capitoli 20 e 21 si hanno, infatti, rispettivamente “due conclusioni”. Gli
studiosi hanno voluto, allora, verificare all’interno del testo le tracce di
una complessa vicenda “editoriale” che si è svolta in più tappe.
Essa parte in ambiente
palestinese da una tradizione orale legata all’apostolo Giovanni, negli anni
successivi alla morte di Cristo e prima del 70, la data della distruzione di
Gerusalemme, e si esprime in aramaico. Si ha, poi, una prima edizione del
vangelo in greco, destinata a un nuovo pubblico: potrebbe essere quello
dell’Asia Minore costiera, che aveva come centro principale la splendida città
di Efeso. Alla stesura di questo scritto contribuisce un “evangelista” che
raccoglie il messaggio dell’apostolo e lo adatta al nuovo pubblico (si pensi al
mirabile inno al Logos, cioè al Verbo divino che è Cristo, destinato a fungere
da prologo dell’intero vangelo).
L’opera,
che si concludeva nel capitolo 20, si svolgeva lungo due grandi movimenti: il
primo (capitoli 1-12), spesso chiamato “Libro dei segni”, cioè dei sette
miracoli emblematici scelti dall’evangelista per illustrare la figura di
Cristo, rivelava il Figlio di Dio davanti al mondo, generando adesione e
rifiuto.
Il secondo movimento testuale (capitoli 13-20), spesso
intitolato “Libro dell’ora”, cioè del momento glorioso e supremo della vita di
Cristo offerta sulla croce, comprendeva la rivelazione del mistero profondo di
Gesù ai discepoli (si pensi ai “discorsi di addio” dell’ultima cena, come sono
chiamati i capitoli 13-17).
Infine,
come è attestato dal capitolo 21, si procedette a una nuova edizione sullo
scorcio del I secolo e forse, in un brano allusivo (21,22-23), si fece
riferimento anche alla morte dell’apostolo Giovanni, mentre la Chiesa
proseguiva il suo cammino attraverso l’autorità pastorale affidata a Pietro dal
Signore risorto (21,15-19). L’insieme del quarto vangelo costituisce un’opera
altissima che ha al centro la figura di Cristo, presentata nella sua umanità e
divinità con grande originalità teologica. Con Cristo deve confrontarsi
l’umanità: i personaggi giovannei sono spesso figure emblematiche che incarnano
l’adesione o il rifiuto, mentre tutta la storia si manifesta come la sede di un
grande processo che vedrà Cristo glorioso e vincitore proprio nella condanna
della crocifissione.
«In principio
era il Logos e il Logos era presso Dio e il Logos era Dio... E il Logos carne divenne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (Giovanni 1, 1-14).
Il prologo del vangelo di Giovanni è affidato a un inno di
straordinaria bellezza e densità, divenuto una delle pagine più celebri
dell’intera Bibbia. L’avvio rimanda allusivamente e tematicamente all’inizio
della «Genesi»: «In Principio….Dio ordinò…» (1,1.3). Il Cristo è presentato
come «Logos» (Parola, Verbo), termine
che rimanda alla cultura greca e precisamente ai filosofi Stoici, (per i quali
indicava il principio creatore e ordinatore dell’universo) ma che ha le sue
radici nell’Antico Testamento, che celebrava la parola creatrice divina, la
sapienza del Signore che tutto ordina nell’armonia dell’essere. Cristo è,
dunque, alle origini della realtà e della vita ed è nella pienezza della
divinità. A questo primo momento ne succede un altro che rappresenta la storia
della salvezza.
L’immagine usata è
quella, antitetica, della «Luce» e della «Tenebra», il cui
scontro rappresenta la vicenda di Gesù Cristo, annunziato da Giovanni il
Battista, che nell’inno appare due volte nella sua funzione di precursore
(questa sottolineatura della dipendenza assoluta a Cristo ha fatto pensare ad
alcuni studiosi che, qui e altrove, l’evangelista volesse riferirsi
polemicamente ai gruppi che consideravano il Battista in una dimensione
Messianica). L’ingresso di Cristo-Luce nella storia crea «Tensione» e «Rifiuto»,
ma anche accettazione nella «Fede». E’ quest’ultima, inoltre, a rendere gli
uomini figli di Dio, «generati» dallo stesso Dio che è il padre di Gesù.
L’ incarnazione di Cristo è espressa
nel famoso versetto 14 con l’immagine della tenda («è venuto ad abitare», che
in greco suona letteralmente: «ha posto la sua tenda»): il tempio di pietra di
Sion (come si dirà esplicitamente in 2,18-22) è ora sostituito dalla «carne» di
Gesù, cioè dalla sua corporeità e dalla sua esistenza storica che condivide con
noi. Il «Logos», la parola eterna e
infinita, entra nelle dimensioni umane dello spazio e del tempo, della vita e
della morte. Il tema dell’incarnazione, centrale nel vangelo di Giovanni e
nell’intero Nuovo Testamento, è particolarmente marcato negli scritti
giovannei, probabilmente in reazione al sorgere delle dottrine gnostiche che
negavano appunto il Verbo divino fatto «carne», volendolo conservare nella
purezza assoluta della sua Trascendenza.
L’inno
si conclude con un’ulteriore testimonianza del Battista, che ribadisce
il primato di Cristo che è «prima» di lui, anche se venuto cronologicamente
«dopo» nella storia umana. Si esalta poi la missione del Figlio di Dio presso
l’umanità. Egli offre all’uomo soprattutto «La Grazia e la Verità». La
«Grazia» è la salvezza che viene effusa in pienezza: l’espressione : «Grazia su
Grazia», più che suggerire una successione (prima l’Antico e poi il Nuovo
Testamento o prima Cristo e poi lo Spirito Santo), vuole indicare appunto
un’effusione costante e piena della salvezza. La «Verità», invece, nel
linguaggio Giovanneo è la «Rivelazione di Dio» e del suo «Mistero» che Cristo,
«Figlio unigenito, che è nel seno del Padre», può donare al mondo senza riserve
e con autenticità.
Le «Tenebre» (1,5), nel linguaggio
biblico, sono il simbolo della morte, del peccato e del potere del male. Ad
esse si oppone la «Luce», simbolo di vita e salvezza. Nel Vangelo di Giovanni
indicano il «Rifiuto» di Dio e la chiusura alla «Rivelazione» e alla «Salvezza»
offerte da Gesù, come pure la condizione dell’uomo e del mondo lontani da Dio.
«E il Verbo si è fatto Carne».
(Giovanni 1,14) contiene espressioni che si ispirano alla mentalità semitica.
«Carne» indica la condizione dell’uomo nella sua debolezza e fragilità.
L’espressione: «ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» è la traduzione del
greco: «eskenosen en emin», che allude alla «tenda» (in Greco, Skenè; in
Ebraico, Shekinah) nella quale JHWH si rendeva presente al popolo di Israele in
cammino nel deserto (Esodo 40,34-35).
Logos significa “parola, verbo, discorso”, indica
la comunicazione tipica dell’essere umano. Nella Bibbia, però, come ben sappiamo, la “parola” è qualcosa di più di
quello che intendiamo noi occidentali: essa è anche l’azione con cui esprimiamo
noi stessi, perciò il termine ebraico “dabar” designa contemporaneamente la parola e
l’atto.
Non per nulla, nelle prime righe della Sacra
Scrittura, leggiamo: «Dio disse: Sia la luce! E la luce fu» (Genesi 1,3). La
parola divina esprime la persona stessa e l’opera del Creatore. In questa luce
è arduo tradurre quel Logos che apre il prologo innico del Vangelo di Giovanni.
Goethe, il famoso poeta tedesco, nel suo Faust fa tentare al protagonista
diverse versioni che cerchino di esprimere le varie iridescenze di quel
vocabolo greco: in tedesco, certo, è Wort, ossia “parola”, ma è anche Sinn,
“significato” dell’essere e dell’esistere; è Kraft, “potenza” efficace e
creatrice; e alla fine è Tat, cioè “atto”, evento pieno e perfetto, anzi
persona in Cristo.
L’Evangelista,
quindi, tratteggia il mistero divino, glorioso e trascendente del Figlio di Dio
che è «presso Dio ed è Dio». C’è, però, una svolta radicale che si manifesta in
un incrocio tra due realtà che la cultura greca vedeva in opposizione, quasi in
collisione tra loro, così da essere reciprocamente repellenti. Il Logos diventa
sarx, “carne”. Ora, quest’altro termine greco definisce la fragilità della
creatura, il suo essere finita, caduca, mortale, legata al tempo e allo spazio.
Ecco, allora, quello che
potremmo chiamare lo scandalo dell’Incarnazione. Il Logos divino, perfetto,
infinito ed eterno diventa sarx, la “carne” umana, limitata, votata alla
sequenza temporale, imprigionata nello spazio. Gesù, il Figlio
di Dio, sarà appunto vincolato a una cultura, a una lingua, a un modo di vivere
sociale, a un territorio e a un’epoca storica circoscritta. La sua realtà profonda
di Logos divino è quasi compressa e umiliata fino all’esperienza della morte,
che è per eccellenza la nostra carta d’identità di creature racchiuse in un
perimetro di tempo e spazio.
È
ciò che esprimeva San Paolo in un inno incastonato nella Lettera ai
Filippesi: «Cristo Gesù, pur
essendo di natura divina..., svuotò sé stesso, assumendo la condizione di
servo, divenendo come gli uomini e presentandosi in forma umana; umiliò
sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (2,6-8).
Ed è ciò che a suo modo ha cantato anche uno scrittore agnostico come
l’argentino Jorge Luis Borges in una sua poesia pubblicata nel 1969 e
intitolata appunto Giovanni 1,14: «Io che sono l’È, il Fu e il Sarà /
accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo... / Vissi prigioniero di
un corpo e di un’umile anima. / Appresi la veglia, il sonno, i sogni, /
l’ignoranza, la carne, / i tardi labirinti della mente, l’amicizia degli uomini
/ e la misteriosa dedizione dei cani. / Fui amato, compreso, esaltato e appeso
a una croce». Un antico testo apocrifo cristiano metteva in bocca a Gesù queste
parole: «Io, il Signore, divenni piccolo per potervi ricondurre in alto, donde
siete caduti».
Dopo il prologo,
ha inizio la prima parte del vangelo di Giovanni, che si concluderà nel
capitolo 12 e che è chiamata da alcuni commentatori il “Libro dei segni” perché
l’evangelista vi distribuisce “sette segni”, cioè «sette miracoli» emblematici
compiuti da Gesù. E’ il tempo della rivelazione di Gesù davanti ai “suoi”, cioè
a Israele, e all’intera umanità. Come accadeva anche negli altri vangeli, entra
in scena Giovanni il Battista, il cui profilo è disegnato in modo originale dal
quarto evangelista. Egli insiste, infatti, nel ripetere che il Battista non è
il Messia («Cristo»), ma solo colui che deve rivelare l’ingresso del Messia
nella storia.
E infatti, nel centro
di Betania, «al di là del Giordano» (sconosciuto agli archeologi, ma forse
da identificare con la località di Ennon-Sapsafas, in Transgiordania), Giovanni
indica in Gesù «l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo». Questa
espressione allude al Servo sofferente del Signore, figura interpretata
messianicamente dal cristianesimo, cantata da Isaia (capitolo 53) e presentata
come l’agnello condotto al macello e capace di portare su di sé i peccati del
popolo (Isaia 53,4.7). Naturalmente non manca anche il rimando all’agnello
pasquale di Esodo 12,46 (vedi Giovanni 19,36). Lo Spirito Santo che «scende e
rimane» su Gesù è il sigillo della sua messianicità, ma anche della sua
divinità («Figlio di Dio»).
Alla
testimonianza del Battista subentra la chiamata dei primi discepoli
che, anche in questo caso, Giovanni presenta in modo originale. Due sono le
scene rappresentate. La prima ha come protagonisti due seguaci del
Battista, Andrea e un innominato ebreo. Andrea coinvolge a sua volta nella
sequela di Gesù suo fratello Simone Pietro: come in Matteo (16,16-18), è Gesù
stesso a dare a Simone il nuovo nome aramaico di «Cefa», cioè “roccia”, Pietro.
La scelta di seguire Gesù è fondata sul riconoscimento del suo essere Messia,
parola che l’evangelista traduce nel greco «Cristo», cioè “consacrato”, e
questo è il segno che il testo finale del vangelo è destinato a un orizzonte di
lettori non ebrei (in 1,38 viene tradotta anche la parola «rabbì», «maestro»).
La seconda scena di vocazione ha
al centro un’altra coppia di discepoli, Filippo, concittadino di Pietro e Andrea,
e Natanaele, una figura non meglio identificata, che la tradizione posteriore
considererà come l’apostolo Bartolomeo. Gesù lo definisce un Ebreo autentico ed
esemplare e lo descrive «sotto l’albero di fichi», forse un’allusione
all’attività di maestro della legge (secondo il giudaismo il maestro insegnava
sotto un fico). Natanaele pronunzia una professione di fede che fonde insieme
divinità e messianicità: «tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele».
Gesù, però, gli fa balenare un cammino di fede, in cui il discepolo scoprirà in
profondità il mistero del Figlio dell’uomo e la sua grandezza trascendente.
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