La “benedizione” del
Salmo 103 sembra essere un’anticipazione del «Dio è amore» della prima lettera di
Giovanni (4,8): «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore». Inno di celebrazione a
Dio, canto di ringraziamento, meditazione sapienziale sulla caducità umana,
comparata all’eterna misericordia di Dio, si fondono armonicamente in questo
canto che è ordinato in «due» grandi momenti. Nel primo (versetti 4-10)
si esaltano l’«amore» e il «perdono» di Dio. Il suo volto è quello della
tenerezza e della pietà e i suoi “nomi” sono: colui che perdona, che guarisce,
che salva, che corona di grazia, che sazia di beni, che rinnova la vita, che
opera la salvezza e la giustizia per gli oppressi, che si rivela, che è buono,
pietoso, lento all’ira e grande nell’amore.
La seconda parte del canto (versetti 11-19) accosta amore
eterno di Dio e fragilità umana. Tre paragoni parlano della tenerezza del
Signore (il vocabolo ebraico parla delle “viscere” materne di Dio). I primi
due definiscono le dimensioni dello spazio, la verticale e l’orizzontale,
come avvolte dalla misericordia divina (versetti 11-12). La terza immagine
rimanda alla profondità psicologica dell’amore paterno (versetto 13). Appare,
così, l’idea della paternità di Dio anche nei confronti del singolo e non solo
di tutto Israele.
Due sono,invece, i
paragoni usati per descrivere la fragilità creaturale dell’uomo.
Innanzitutto si ricorre all’immagine classica della creta plasmata dal vasaio
(versetto 14), usata anche nella creazione dell’uomo (Genesi 2,7). Nota è
anche la seconda comparazione, già
incontrata nel Salmo 90,5-6: «sono come l’erba che germoglia al mattino: al mattino fiorisce,
germoglia».
Un fiore meraviglioso è sbocciato in un campo verdeggiante. Il vento del
deserto gli piomba addosso col suo soffio infuocato e il fiore si dissecca riducendosi a un po’ di polvere
irriconoscibile. Dio, però, si china su questo essere caduco che è l’uomo e lo
avvolge con la sua benignità che «dura in eterno per quanti lo temono» (versetto 17).
Fondandoci sulla fede in Dio – suggerisce il salmista –, noi usciamo dal limite
creaturale e ci immergiamo nell’«infinito» e nell’«eterno».
La nostra riflessione, ora, si concentra sulla Prima Lettera
di Giovanni che proprio nell’’«amore» ha il filo d’oro che intesse quasi tutti i suoi
cinque capitoli. Il testo dei versetti 7-12 del capitolo 4 è una vera e propria
guida dell’amore cristiano. Il verbo «amare» e i suoi derivati risuonano tredici
volte in poche righe quasi come un ritornello musicale e spirituale. L’amore
nella visione di Giovanni si presenta con due dimensioni intimamente intrecciate.
La prima è quella «verticale» ed è la
fondamentale: «L’amore è da Dio», anzi per definizione «Dio è amore». L’azione essenziale di Dio è l’amore.
E il suo amore precede ogni altro amore, è lui che ama per primo e questo suo
amore è visibile, sperimentabile, palpabile (1Giovanni 1,1-2), si è fatto
persona nel Figlio Gesù. Commentando questa Lettera, sant’Agostino afferma: «Se niente altro a lode dell’amore fosse
stato scritto nel resto della Lettera, o meglio nel resto della Scrittura, e
noi avessimo udito dalla bocca dello Spirito di Dio solo quella dichiarazione
“Dio è amore”, non dovremmo cercare nient’altro».
Questo amore viene rivelato nel Figlio di Dio. Questo non
significa che in Dio non vi fosse amore prima della venuta del Cristo in mezzo
a noi. Dio è sempre amore, ma nell’incarnazione di Gesù Dio rivela in modo
diretto ed esplicito ciò che sempre egli è, era e sarà.
La seconda dimensione dell’amore è «orizzontale» e nasce dalla
precedente. Chi ama rivela di essere stato amato da Dio ed è come se fosse
stato da lui generato, è suo figlio, è in un rapporto di intimità. E chi è
amato, a sua volta ama: «Se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni
gli altri». L’amore di Dio incarnato in Gesù deve incarnarsi anche nei
cristiani. L’apostolo non si accontenta di chiudere il cerchio dell’amore in
Dio («Se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amare Dio») ma lo apre verso nuovi
orizzonti, quelli dei fratelli. In questo senso c’è perfetta armonia con le
parole del testamento lasciatoci da Gesù nell’ultima sera della sua vita
terrena: «Questo è il mio comandamento: amatevi l’un l’altro come io vi ho
amati» (Gv 15,12).
L’amore così
descritto può essere rappresentato simbolicamente come una grande
croce. L’asse verticale ha la cima nei cieli di Dio, si perde nell’infinito ma
l’altro estremo è piantato nella terra, sul Calvario: l’amore divino discende
nell’umanità, nello spazio e nel tempo e dimora in Gesù. L’asse orizzontale ha
due bracci che abbracciano tutto il nostro orizzonte: è l’amore per i fratelli
senza limiti, distinzioni, riserve.
Anche
l’amore nuziale partecipa di questa croce gloriosa: è scintilla accesa
da Dio nel cuore umano ed è comunione concreta di cuori, di esistenze, di
destini terreni. Ancora una volta l’amore umano è paradigma per conoscere Dio,
e Dio sceglie l’amore umano, visibile e sperimentabile nel Figlio come perfetta
definizione di sé. Isaia cantava: «Sì, come un giovane
sposa una vergine, così ti sposerà il tuo Creatore; come gioisce lo sposo con
la sua sposa, così il tuo Dio gioirà con te» (62,5)
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