"Si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del bene e
del male." (Genesi 3,5).
Nel
giardino dell’Eden c’era un albero che non è registrato nei manuali di
botanica. In ebraico si chiama ’es da’at tob wara’, «l’albero della conoscenza del bene e del male», e non è una pianta
fisica ma metafisica, simbolica. Forse
qualcuno è convinto che si tratti di un «melo», ma è vittima di un abbaglio. L’equivoco
nasce da una sorta di gioco di parole, possibile però soltanto in latino. In
quella lingua, infatti, hanno un suono molto affine questi tre vocaboli: malus (melo), malum (male) e malus (cattivo). Ecco spiegato
l’inganno che ha generato la celebre “mela di Eva”, legata appunto al «male» che ne è seguito.
Il discorso, in verità, è serio e tocca il cuore della morale. Innanzitutto l’immagine
vegetale è per la Bibbia segno di sapienza, indica un sistema di vita: il Salmo
1, ad esempio, presenta il giusto come un albero radicato nei pressi di un
ruscello, le cui foglie non avvizziscono e i cui frutti sono gustosi e
costanti. C’è, poi, la
“conoscenza”, la «da’at» che,
nella cultura biblica, non è solo intellettuale, ma è anche un atto globale
della coscienza che coinvolge volontà, sentimento e azione. È, pertanto, una scelta
radicale di vita. Infine, ecco «il bene e il male» che, com’è ovvio,
sono i due perni della morale.
A
questo punto siamo tutti in grado di identificare quest’albero
simbolico: è l’incarnazione della morale nella sua pienezza, che proviene da
Dio, colui che pianta nel cuore di ogni creatura umana questa realtà viva e
decisiva. I frutti, quindi, sono solo donati, non possono essere sottratti.
L’uomo e la donna sono là, con la loro libertà, sotto l’ombra di quell’albero e
compiono una scelta drammatica. Sollecitati dal serpente, emblema del tentatore
che scuote la nostra libertà, essi strappano il frutto, ossia – fuor di
metafora – vogliono decidere in
proprio quale sia il bene o il male, rifiutando di riceverli come codificati da
Dio.
Si comprende, allora, il significato profondo dell’invito del tentatore: strappare quel
frutto vuol dire diventare arbitri («conoscitori ») del bene e del male,
artefici autonomi della morale, creatori di ciò che è giusto e di ciò che è
perverso a proprio piacimento. È appunto «diventare come Dio». È, questa, la
radice del “peccato originale”, anzi, è l’essenza ultima di ogni peccato. È un
po’ quello che i Greci definivano come «hybris», ossia la sfida che
il ribelle lancia contro la divinità. Con questa scelta si giunge non nel cielo
sognato da Adamo ed Eva e fatto balenare loro dal serpente come la grande
illusione; si precipita, invece, nel cuore della tenebra, nell’abisso del
peccato e della colpa.
Detto in altri
termini, l’anima oscura
del peccato è la «superbia», non per nulla considerata come il primo dei
vizi capitali: è la folle aspirazione a sostituirsi a Dio definendo autonomamente il
bene e il male. La storia umana è l’amara documentazione dei risultati
ottenuti, una volta imboccata questa via. Risuona, allora, il monito di un
sapiente biblico del II secolo a.C., il Siracide: «Dio in principio creò l’uomo e lo lasciò in mano al suo proprio volere. Se
vuoi, osserverai i comandamenti: l’essere fedele dipende dalla tua buona
volontà… Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò
che egli sceglierà» (Siracide 15,14-15.17).
ci si è dimenticati dell'autore: GIANFRANCO RAVASI, LA BIBBIA IN UN FRAMMENTO, ed. 2013
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