La Distruzione di ogni Struttura Immutabile è anche distruzione della prima grande forma di «rimedio» che l’uomo Occidentale
ha escogitato per difendersi dal pericolo e dall’angoscia. Oggi, il «rimedio» è
la Scienza e la Tecnica. Ma prima di chiedersi quale possa essere la forma
futura del «rimedio» e ,quindi, come possa configurarsi il «Futuro della
Filosofia», si deve comprendere il «Senso» della logica del «rimedio». Si ama
ripetere che per Platone e Aristotele gli uomini incominciarono a filosofare
spinti dalla «meraviglia» che essi provano quando, di fronte agli eventi del
mondo, ne ignorano le «cause». Tutte le «cause» sono poi riconducibili alla
«Causa Prima», in cui è custodito appunto il «Senso» definitivo di tutta la
realtà.
La parola Greca «Tha’uma»
viene tradotta con «meraviglia» e ha un significato molto più intenso: indica
anche lo stupore attonito di fronte a ciò che è strano, imprevedibile, orrendo,
mostruoso. Se infatti non si conoscono le «cause» di ciò che accade, se non se
ne possiede la spiegazione, l’accadere del mondo diventa imprevedibile,
minaccioso, pericoloso, diventa cioè l’«Origine» di ogni inquietudine, terrore,
angoscia. Anche se evita di sottolinearlo, Aristotele, affermando che la
Filosofia nasce dalla «meraviglia», intende dire che la Filosofia nasce dal
terrore suscitato dall’ imprevedibilità del «Divenire della Vita». Conoscendo
le «cause»del «Divenire», la Filosofia rende prevedibile ciò che non si lascia
prevedere, lo inserisce in una spiegazione stabile, cioè lo vede alla luce del
«Senso» Immutabile della totalità dell’«Ente» e, quindi, appronta il «rimedio»
contro il terrore della vita. La contemplazione disinteressata della «Verità» è
stata cioè il primo formidabile strumento con cui l’uomo, nella Civiltà
Occidentale, ha soddisfatto il proprio fondamentale interesse: la difesa contro
la minaccia del «Divenire», la liberazione dal terrore e dall’angoscia
provocata dall’imprevedibilità degli eventi.
Lungo i millenni che precedono la nascita della Filosofia,
anche il mito raccoglie gli eventi del mondo all’interno di una spiegazione
unitaria, di un «Senso» che elimina la loro imprevedibilità e quindi è un
«rimedio» contro il terrore da essa prodotto. Ma il mito ignora il «Senso»
radicale che la «Verità» possiede all’interno dell’«Epistéme». E’ la Filosofia
a evocare per prima l’idea di una «Verità» assolutamente definitiva e
incontrovertibile e a proporsi di riempire tale idea con un sistema di
conoscenze concrete. Poiché il «Senso» del mondo, costruito dal mito, non
appare all’interno della «Verità» dell’«Epistéme», è inevitabile che, al di
sotto della sicurezza offerta all’uomo da esso, serpeggi l’inquietudine e
l’insicurezza. Esse vengono allo scoperto quando la Filosofia evoca la
«Verità»: agli occhi degli scopritori dell’idea definitiva della «Verità» il
«rimedio» approntato dal mito contro il terrore deve apparire inaffidabile,
insicuro, inefficace. Il terrore sorge dall’imprevedibilità del «Divenire», e
quindi il «rimedio» contro di esso può essere dato soltanto da una previsione
vera, incontrovertibile, definitiva di tutto ciò che può sopraggiungere.
Il «Senso» stabile e unitario
del «Tutto» è appunto la previsione della sostanza e dell’essenza di ogni evento (appunto perché
l’evento, sopraggiungendo, deve adeguarsi a quel «Senso»); ma solo l’«Epistéme»
si è proposta di essere la previsione vera e incontrovertibile, rispetto alla
quale la previsione mitica appare quindi come un «rimedio» illusorio. Solo la
«Verità» può salvare dal dolore del «Divenire». Che è affermazione diversa da
quella di Nietzsche, per il quale ciò che è stato chiamato «Verità» aveva in
effetti il compito di salvare dal dolore. Per i Greci e l’intera tradizione
filosofica, dal dolore può salvare solo ciò che è veramente la «Verità», e se
ciò che si qualifica come «Verità» non lo è davvero, esso non può salvare dal
dolore, non può renderlo sopportabile all’interno del «Senso» della realtà in
cui il dolore è veramente spiegato.
La
Filosofia scopre il supremo «rimedio» contro il dolore e il terrore
proprio nell’atto in cui porta alla luce la forma estrema del dolore e del
terrore: il «Divenire», inteso come l’uscire e ritornare nel «Niente». Se l’«Origine»
del terrore è l’imprevedibile, il terrore diventa estremo quando estrema
diventa l’imprevedibilità; ed estrema essa diventa quando, con i Greci, si
incomincia a pensare che gli eventi irrompono nel mondo provenendo da «Niente»
Non vi è infatti nulla di più imprevedibile del «Niente». La Filosofia dunque,
nascendo, è tesa in due direzioni contrastanti. Come «Epistéme», in cui sono
svelati il «Senso» e l’«Origine» del «Divenire», è suprema previsione e
anticipazione del «Divenire», perché gli eventi devono adeguarsi alla «Legge
Immutabile» costituita da quel «Senso» e da quell’«Origine». Ma come evocazione
del significato ontologico del «Divenire», la Filosofia evoca insieme
l’imprevedibilità estrema, l’estrema impossibilità di anticipare in una «Legge»
il «Divenire del Mondo». Non solo la storia della Filosofia, ma l’intera storia
dell’Occidente è sostanzialmente lo sviluppo del contrasto tra queste due
istanze irriducibilmente incompatibili.
Uno
scontro dove il «Senso» greco del «Divenire» finisce col distruggere il
suo antagonista, cioè la «Volontà» epistemica di dare un «Ordine», un «Senso»,
un’«Origine» assoluti e immutabili al «Divenire». Uno scontro, dunque, dove il
«Senso» greco del «Divenire» finisce col distruggere la prima grande forma di «rimedio»
che l’Occidente ha escogitato contro la minaccia del «Divenire». Il «rimedio»
è l’evocazione dell’immutabile; ma
l’immutabile rende inconcepibile ciò che per altro è evidente: l’innovazione
imprevedibile del «Divenire». Certo, il «Divenire» è il pericolo, ma è anche la
libertà creatrice della vita dell’uomo: per la vita, il pericolo è la vita
stessa; essa è, insieme, ciò che è minacciato e la minaccia, ciò che si
angoscia e la fonte dell’angoscia. Molte le cose inquietanti, dice Sofocle, ma
nessuna più inquietante dell’uomo. Soffocando il «Divenire», l’immutabile
soffoca la vita, per proteggere la quale era stato evocato.
La Liberazione dell’uomo moderno
è la distruzione di un «rimedio» grandioso, che però, come avverte Nietzsche, è
stato peggiore del male. Certo, liberandosi dalla protezione dell’immutabile,
l’uomo moderno si espone nuovamente al rischio del «Divenire». Ma se all’inizio
della nostra civiltà la capacità dell’uomo di trasformare e dominare il mondo è
ancora ridotta, si che il supremo «rimedio», dopo il mito, non può consistere
in altro che in un atteggiamento «conoscitivo», in un modo di interpretare il
mondo, che presenta sé come «Verità Assoluta», con la Scienza e la Tecnica
moderne l’uomo acquista un potere sulle «cose», una capacità di controllare la
loro oscillazione tra l’«Essere e il Niente» che non fa rimpiangere il dominio
epistemico-filosofico del «Divenire», accessibile soltanto a una «élite» e
incapace di essere percepibile dalle masse e dalle nuove classi sociali in
ascesa. Si è cioè diffuso un «Senso» di sicurezza che fa dimenticare l’antico
terrore del «Divenire». Lo stesso Cristianesimo stabilisce un rapporto con le
masse occidentali, che scavalca la Filosofia e insieme la sfrutta, perché
presenta come «Verità» incontrovertibile il contenuto della «Fede» (le «Verità
di Fede»), ma senza mostrare perché esso lo sia, e anzi escludendo che la mente
umana possa comprendere perché quel contenuto è «Verità». Ma anche le «Verità»
di Fede» del Cristianesimo sono forme immutabili che vengono investite e
progressivamente accantonate dal processo di «Liberazione» dell’uomo moderno.
Nella Civiltà della Tecnica
l’organizzazione Scientifico-Tecnologica dell’esistenza è divenuta la forma di
«rimedio» rispetto a cui ogni altra ha perso valore. Da sempre il «rimedio» è «Dominio»:
ci si può salvare dalla minaccia del «Divenire» solo dominandolo. Ma il
«rimedio» e il «Dominio» della Scienza e della Tecnica riescono ad essere una
previsione efficace degli eventi, che però non soffoca e non rende
inconcepibile il «Divenire». La Scienza
rinuncia ad essere «Verità» definitiva, epistemica e si presenta come sapere «ipotetico»,
che sulla base di quanto va via via realizzandosi nell’«esperienza» fonda
previsioni largamente confermate, e tuttavia è disposta a modificare le proprie
ipotesi quando risultano incompatibili col «Divenire dell’Esperienza». L’Epistéme è una previsione che piega il
«Divenire» al «Senso» immutabile da esso svelato; la Scienza Moderna è una previsione largamente confermata, che
tuttavia modifica continuamente le proprie ipotesi quando diventano
incompatibili con l’«Esperienza del
Divenire».
La Scienza è la forma
più «potente» di «Dominio», perché è la forma più «potente» di previsione. Per
salvarsi dalla minaccia del «Divenire», lo si deve pur sempre prevedere, ma la
previsione scientifica non subordina a sé gli scopi dell’uomo, ma sembra porsi
al loro servizio. Inoltre, proprio perché la Scienza rinuncia ad essere
«Verità» definitiva, non è previsione del «Senso» unitario della totalità dell’«Ente»,
ma è previsione e «Dominio» di eventi singoli, specifici. La cultura
contemporanea ha ormai raggiunto una piena consapevolezza del carattere
«ipotetico» e delle straordinarie possibilità di «Dominio» della Scienza. Continua
invece a sfuggire che la Scienza è la forma più «potente» di «Dominio», perché,
anche se non se ne rende conto, è la forma di «Dominio» più adeguata al «Senso»
greco del «Divenire», ossia è la forma in cui quel «Senso» è radicalmente
liberato da ciò che lo rende impossibile.
Anche quando si presenta come critica
radicale della Scienza e della civiltà della Tecnica, la Filosofia
contemporanea, in cui il processo di distruzione degli immutabili diventa
maggiormente consapevole del proprio significato, svolge quindi innanzitutto la
funzione di proteggere la dimensione del «Divenire», cioè lo spazio in cui la
Scienza sviluppa le proprie previsioni e la propria «potenza»: sia depurando
tale spazio da ogni traccia del passato epistemico, sia riformulando il
concetto di «Divenire» in modo sempre più coerente al proprio significato
originario. Appunto per questo il «Divenire» ha cessato di essere oggettività
esterna e si è via via presentato come
fenomeno, soggettività, esperienza, linguaggio, interpretazione. Filosofia e
Scienza sono oggi profondamente solidali, e la Filosofia tende sempre più a
presentarsi come una componente della «coscienza» che l’attività scientifica ha
di se stessa.
Conoscere l'origine del divenire dandogli così un senso è una petizione di principio perchè non aggiunge nulla al punto di partenza. In altre parole in cosa consiste il rimedio al divenire se non parlando del divenire stesso?
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