La parola “Filosofia” significa letteralmente aver cura (philo) del sapere (sophía).
Se si accetta l’ipotesi che in “sophía"
si riflette – come nell’aggettivo “saphés”,
che significa «chiaro», «manifesto»,«evidente» - il senso di “pháos”, la «luce», allora “Filosofia” significa l’«aver cura per ciò
che si manifesta nella luce». La correlazione tra «illuminazione» e «sapere» è
anche il cardine della sapienza orientale, ma il greco, rispetto all’orientale,
fa un passo in più, un passo che sarà decisivo per la storia della “Filosofia”. A differenza dell’orientale,
infatti, che descrive quanto sta nella luce nelle modalità in cui
l’illuminazione interiore glielo manifesta, il greco lo descrive nelle modalità
in cui si dà. Questa differenza è la stessa che corre tra “Mito” e “Logos”, una
coppia di termini la cui sorte è solidale a quella appena considerata tra “Cháos” e “Cosmo”.
Il “Mito” ha in comune col “Logos” l’intento di conoscere e spiegare
il mondo, per cui il passaggio dall’uno all’altro non è un passaggio dalla
favola alla verità, ma tra due diversi modi di perseguire quell’intento. Per il
“Mito” non c’è realtà che non si
risolva nel mondo interiore «soggettivo», ampliato e proiettato verso
l’esterno, così come non c’è un mondo interiore come «realtà psichica del
soggetto», che non sia proiettata e reificata in forme di potenze divine. La
narrazione mitica vive quindi la «soggettivazione» della realtà esterna e
l’«oggettivazione» del mondo interiore. Per effetto di questa saldatura, per il
“Mito” non c’è mondo che non si
risolva nella visione collettiva del mondo, per cui in ogni “Mito” è possibile leggere una
determinata fase di sviluppo della coscienza sociale collettiva.
Il passaggio dal “Mito”, rappresentazione fantastica e
poetica della realtà, al “Logos”,
discorso razionale sulle cose, segna l’inizio della speculazione filosofica
greca, da cui prenderà l’avvio tutto il pensiero occidentale. Ulisse che vince
le lusinghe delle «sirene» (Odissea) è immagine esemplare della umana sete di
“sapere” e della coraggiosa “volontà”.
Il
senso della parola “Logos” è
illuminato dall’uso greco del verbo “léghein”
che significa «stendere» e insieme «raccogliere». Tale senso si ripropone nelle
parole tedesche “legen, lesen,“ spesso
collegate con preposizioni, donde: “ahrenlesen,
traubenlesen” che significano «mietere», «vendemmiare», dove l’azione di
«raccogliere» il frumento, o l’uva, non ha altro senso che quello di «stendere»
il raccolto in ordine e «tenerlo insieme». Il “Logos” è dunque quella raccolta originaria dove le cose giacciono
nella loro esposizione e, così esposte, si offrono alla presenza.
Mentre nel “Mito” le cose sono usate per dire il vissuto dell’uomo, nel
“Logos” le cose sono lasciate essere
così come sono, senza alcuna manipolazione (poiéin).
La parola “poiéin” in greco significa
«produrre». Da “poiéin” deriva la
parola “poíesis” da cui la nostra
«poesia». La «poesia», di cui si alimenta il “Mito”, è una produzione di significati che non lascia parlare le
cose come sono, ma impone alle cose il parlare dell’uomo. Questa imposizione
non è l’imporsi delle cose, ma ciò che l’uomo impone alle cose, in altri
termini è la violenza poetica sul contenuto quale si dà. La “Filosofia” rappresenta il tentativo
riuscito di liberarsi da questa imposizione, affinché nel “Cháos” si imponga il “Cosmo”,
qui inteso come ciò che ha la forza di imporsi. La parola greca che nomina
l’imporsi di ciò che ha la forza di farlo senza ricorrere alla manipolazione
poetica è «epistéme».
ottimo articolo perfetto per studenti liceali, spero di leggerne altri dallo stesso spessore letterario.
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