Dalla “Terra al Cielo”, dall’oscurità della “Grande
Madre” alla luce delle divinità uraniche è il passaggio che l’umanità ha
compiuto nel corso della sua evoluzione sia in Oriente, sia in Occidente. Ma è
solo "GRECO" e non "ORIENTALE" quello sguardo che non si arresta al “Cielo”, ma al
di là del “Cielo” (úper-ouranós),
scorge quella dimensione che accoglie tutte le vicende umane e divine. Questa
dimensione, il mito greco la chiama “Cháos”
(apertura), e nell’apertura del “Cháos”
la “Filosofia”, che dal mito si
emancipa, testimonia l’imporsi di quell’ordine (Cosmo) che tutto raccoglie (Lógos)
fondandosi su di sé (Epistéme) e
manifestandosi (Alétheia).
Questo sguardo onnicomprensivo,
che non lascia nulla fuori di sé, si rivolge alla “Totalità” delle cose per scorgervi l’ “Unità” che le accomuna. Per questo si dice che Talete è il primo
filosofo; la sua domanda sul principio di tutte le cose inaugura la filosofia
al di là del mito, della religione, della poesia, delle opinioni dei mortali.
La parola “Totalità”, nel dispiegare l’orizzonte della filosofia come massimo
orizzonte, genera quelle parole «essere e
niente» da cui ogni discorso propriamente filosofico non può prescindere.
Rivolgersi alla “Totalità”, infatti,
significa percorrere l’estremo confine al di là del quale non esiste «niente» e assistere al raccogliersi di
tutte le cose, le più diverse e le più antitetiche in quella suprema "Unità" che
è l’«essere», perché, per differenti
che siano, tutte le cose «sono».
A questo punto la filosofia può
guardare al mito come a una «non-verità», non solo per la manipolazione che la
violenza poetica opera su tutte le cose non lasciandole così come si danno, ma
perché il mito non è stato in grado di elevare il suo sguardo sulla “Totalità” e quindi di escludere che,
oltre l’immensità del “Cháos”, si
estendano altri universi imprevisti e imprevedibili. Lo sguardo filosofico
sulla “Totalità” delle cose è quindi
ad un tempo uno sguardo «escludente»,
ed «escludente» sarà anche il
discorso che si deve tenere all’interno di quello sguardo. Tutto questo
significa che la «verità» filosofica non avrà la struttura della «descrizione»
come nella narrazione mitica, ma quella della «negazione», cioè dovrà essere
capace di escludere tutto ciò che non afferma.
Una simile capacità di esclusione si chiamerà «fondamento», e fondati saranno i
discorsi filosofici che non si limitano ad affermare qualcosa come fa il mito,
ma sono in grado di mostrare la «necessità»
di quell’affermazione, ossia l’«impossibilità»
del contrario. Il sapere che ne scaturisce sarà detto «incontrovertibile», tale cioè che nessun dio e nessun uomo, per
quanto grande sia la loro potenza o il numero dei loro argomenti, potrà mai
confutare.
Il costituirsi di questo
sapere separa nettamente la filosofia greca dalla sapienza orientale,
dove in gioco non è la costituzione di un sapere «incontrovertibile», ma la
liberazione dell’uomo dall’illusione del mondo. Per quante assonanze
linguistiche e concettuali possano rintracciarsi tra le due forme di sapere, la
distanza tra loro rimane comunque abissale, perché abissale è ciò che separa il
problema della «salvezza», in cui si trattiene l’antica sapienza orientale, dal
problema della «verità» che la filosofia greca con le sue prime scuole
inaugura.
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