venerdì 17 giugno 2016

UNITÀ E TOTALITÀ


Dalla “Terra al Cielo”, dall’oscurità della “Grande Madre” alla luce delle divinità uraniche è il passaggio che l’umanità ha compiuto nel corso della sua evoluzione sia in Oriente, sia in Occidente. Ma è solo "GRECO" e non "ORIENTALE" quello sguardo che non si arresta al “Cielo”, ma al di là del “Cielo” (úper-ouranós), scorge quella dimensione che accoglie tutte le vicende umane e divine. Questa dimensione, il mito greco la chiama “Cháos” (apertura), e nell’apertura del “Cháos” la “Filosofia”, che dal mito si emancipa, testimonia l’imporsi di quell’ordine (Cosmo) che tutto raccoglie (Lógos) fondandosi su di sé (Epistéme) e manifestandosi (Alétheia). 

Questo sguardo onnicomprensivo, che non lascia nulla fuori di sé, si rivolge alla “Totalità” delle cose per scorgervi l’ “Unità” che le accomuna. Per questo si dice che Talete è il primo filosofo; la sua domanda sul principio di tutte le cose inaugura la filosofia al di là del mito, della religione, della poesia, delle opinioni dei mortali. 

La parolaTotalità”, nel dispiegare l’orizzonte della filosofia come massimo orizzonte, genera quelle parole «essere e niente» da cui ogni discorso propriamente filosofico non può prescindere. Rivolgersi alla “Totalità”, infatti, significa percorrere l’estremo confine al di là del quale non esiste «niente» e assistere al raccogliersi di tutte le cose, le più diverse e le più antitetiche in quella suprema "Unità" che è l’«essere», perché, per differenti che siano, tutte le cose «sono». 

A questo punto la filosofia può guardare al mito come a una «non-verità», non solo per la manipolazione che la violenza poetica opera su tutte le cose non lasciandole così come si danno, ma perché il mito non è stato in grado di elevare il suo sguardo sulla “Totalità” e quindi di escludere che, oltre l’immensità del “Cháos”, si estendano altri universi imprevisti e imprevedibili. Lo sguardo filosofico sulla “Totalità” delle cose è quindi ad un tempo uno sguardo «escludente», ed «escludente» sarà anche il discorso che si deve tenere all’interno di quello sguardo. Tutto questo significa che la «verità» filosofica non avrà la struttura della «descrizione» come nella narrazione mitica, ma quella della «negazione», cioè dovrà essere capace di escludere tutto ciò che non afferma. 

Una simile capacità di esclusione si chiamerà «fondamento», e fondati saranno i discorsi filosofici che non si limitano ad affermare qualcosa come fa il mito, ma sono in grado di mostrare la «necessità» di quell’affermazione, ossia l’«impossibilità» del contrario. Il sapere che ne scaturisce sarà detto «incontrovertibile», tale cioè che nessun dio e nessun uomo, per quanto grande sia la loro potenza o il numero dei loro argomenti, potrà mai confutare. 

Il costituirsi di questo sapere separa nettamente la filosofia greca dalla sapienza orientale, dove in gioco non è la costituzione di un sapere «incontrovertibile», ma la liberazione dell’uomo dall’illusione del mondo. Per quante assonanze linguistiche e concettuali possano rintracciarsi tra le due forme di sapere, la distanza tra loro rimane comunque abissale, perché abissale è ciò che separa il problema della «salvezza», in cui si trattiene l’antica sapienza orientale, dal problema della «verità» che la filosofia greca con le sue prime scuole inaugura. 

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