venerdì 3 giugno 2016

DALLA TERRA AL CIELO



Le rappresentazioni dell’età della pietra ci offrono un’immagine di divinità che archeologi, etnologi e storici della religione convergono nel chiamare «Grande Madre», la dea dei culti primordiali, simbolo della “terra” che come il grembo materno contiene e dà alla luce la vita. Le figure della «Grande Madre» pongono in evidenza il simbolismo del “vaso pieno”. Oltre al simbolismo del “vaso”, che come il grembo materno contiene l’oscurità primitiva, il cielo notturno generatore, la forza ctonia (Terra = Khthón), capace di dare alla luce, la «Grande Madre» viene rappresentata anche come “albero della vita” che, saldamente piantato con le sue radici nella terra che lo nutre, si innalza verso l’alto e, con i suoi rami e le sue foglie, genera quell’ombra protettiva dove la materia vivente trova il suo rifugio. Al carattere materno dell’albero appartiene non solo il “nutrire”, ma anche il “generare”. 




Dallo sfondo della Terra-Madre, di cui le simbologie del vaso e dell’albero sono solo due esempi dei molti che se ne potrebbero raccogliere, l’umanità si separò per volgere il proprio sguardo verso il «Cielo». Il «Cielo» è una regione superiore inaccessibile all’uomo; la dimensione dell’«altezza», per cui l’«Altissimo» sarà uno degli attributi divini, genera nell’immaginazione primitiva esseri sovrumani, esseri cioè al di là dell’umano, quindi «Trascendenti». 

Questo significa collocare altrove le radici dell’uomo, non più sulla terra «come le piante» ma, come ci ricorda Platone, nel “Cielo”: «nostra patria, dove fu l’origine prima dell’anima e dove Iddio tiene sospesa la nostra testa». Qui è la dimora delle «idee» che, prima ancora di essere pensieri, sono «visioni» rese possibili dalla luce diurna del “Cielo”. La radice «id» su cui è costruita la parola «idea» è infatti la stessa che rintracciamo nel verbo «vedere» e nel suo antecedente latino: «video», e greco: oráo, ópsomai, éidon. L’altezza del “Cielo” porta in alto lo sguardo, al di sopra delle cose che popolano la terra, al di là. 

La parola «trascendenza» dice appunto questo sguardo che va al di là, che oltrepassa l’impronta della terra, ossia lo spessore di materia che dà corpo alle cose, per coglierne l’essenza pura non costretta dai limiti della materia. «Tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, (Iddio) tiene sospeso l’intero nostro corpo che perciò è eretto». Così conclude Platone nel brano tratto dal “Timeo”. A differenza di tutti gli animali, infatti, l’uomo è eretto e, per effetto di questa sua posizione corporea, ha innanzi a sé un orizzonte, o se preferiamo, un “panorama”, dove nella parola è la traccia di quel «vedere», in greco oráo, senza di cui non c’è “visione” o “idea” alcuna. 

La posizione eretta fa dell’uomo un destinato a vedere, non solo le cose della terra che vedono anche gli animali, ma l’essenza delle cose, depurate completamente dalla materia terrena. Tale essenza, scevra di ogni contaminazione materiale, viene chiamata da Platone “idea” e pertanto viene collocata sopra il “Cielo”, nell’«iperuranio» (úper-ouranós), dov’è la nostra origine prima, la nostra radice. 

Dalla Terra al Cielo è dunque l’itinerario compiuto dall’uomo nel suo lento passare dalla «visione sensibile» delle cose cariche di materia, a quella «intellegibile» della loro essenza depurata dalla materia. Il mito racconta le cose come sono veramente andate: il lento passaggio dai culti della «Grande Madre» ai culti degli «dei uranici»; la Filosofia coglie il «senso» di questo passaggio che è nella natura dell’uomo originariamente aperta alla visione. In questa apertura originaria ci sono gli uomini che si fermano alle «apparenze sensibili» delle cose, alla loro sembianza (Doxa), e ci sono quelli che invece approdano alla «natura intelligibile» delle cose, alla loro verità (Alétheia). Platone chiama i primi “filodóxoi” e i secondi “filosofi”. Sia gli uni che gli altri hanno riconosciuto la loro radice nel “Cielo” e, abbandonata l’oscurità della terra, si sono lasciati ospitare nel mondo uranico della luce, ma mentre i “filodóxoi” si trattengono nell’«apparenza» che costituisce il primo dono della luce, i “filosofi” oltrepassano questa incerta sembianza (l’apparenza inganna) per giungere a quel «sapere» che niente può far oscillare (Epistéme).


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