Le rappresentazioni dell’età della pietra ci
offrono un’immagine di divinità che archeologi, etnologi e storici della
religione convergono nel chiamare «Grande
Madre», la dea dei culti primordiali, simbolo della “terra” che come il grembo materno contiene e dà alla luce la vita.
Le figure della «Grande Madre»
pongono in evidenza il simbolismo del “vaso
pieno”. Oltre al simbolismo del “vaso”,
che come il grembo materno contiene l’oscurità primitiva, il cielo notturno
generatore, la forza ctonia (Terra = Khthón),
capace di dare alla luce, la «Grande
Madre» viene rappresentata anche come “albero
della vita” che, saldamente piantato con le sue radici nella terra che lo
nutre, si innalza verso l’alto e, con i suoi rami e le sue foglie, genera
quell’ombra protettiva dove la materia vivente trova il suo rifugio. Al
carattere materno dell’albero appartiene non solo il “nutrire”, ma anche il
“generare”.
Dallo sfondo della
Terra-Madre, di cui le simbologie del vaso e dell’albero sono solo due
esempi dei molti che se ne potrebbero raccogliere, l’umanità si separò per
volgere il proprio sguardo verso il «Cielo». Il «Cielo» è una regione superiore
inaccessibile all’uomo; la dimensione dell’«altezza»,
per cui l’«Altissimo» sarà uno degli attributi divini, genera
nell’immaginazione primitiva esseri sovrumani, esseri cioè al di là dell’umano,
quindi «Trascendenti».
Questo significa collocare
altrove le radici dell’uomo, non più sulla terra «come le piante» ma, come ci
ricorda Platone, nel “Cielo”: «nostra patria, dove fu l’origine prima
dell’anima e dove Iddio tiene sospesa la nostra testa». Qui è la dimora delle «idee» che, prima ancora di essere
pensieri, sono «visioni» rese
possibili dalla luce diurna del “Cielo”. La radice «id» su cui è costruita la parola «idea» è infatti la stessa che rintracciamo nel verbo «vedere» e nel suo antecedente latino: «video», e greco: oráo, ópsomai, éidon. L’altezza del “Cielo” porta in alto lo
sguardo, al di sopra delle cose che popolano la terra, al di là.
La parola «trascendenza» dice appunto questo sguardo che va al di là, che
oltrepassa l’impronta della terra, ossia lo spessore di materia che dà corpo
alle cose, per coglierne l’essenza pura non costretta dai limiti della materia.
«Tenendo
sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, (Iddio) tiene sospeso l’intero
nostro corpo che perciò è eretto». Così conclude Platone nel brano
tratto dal “Timeo”. A differenza di
tutti gli animali, infatti, l’uomo è eretto e, per effetto di questa sua
posizione corporea, ha innanzi a sé un orizzonte, o se preferiamo, un “panorama”, dove nella parola è la
traccia di quel «vedere», in greco oráo,
senza di cui non c’è “visione” o “idea” alcuna.
La posizione eretta fa dell’uomo un destinato a vedere, non
solo le cose della terra che vedono anche gli animali, ma l’essenza delle cose,
depurate completamente dalla materia terrena. Tale essenza, scevra di ogni
contaminazione materiale, viene chiamata da Platone “idea” e pertanto viene collocata sopra il “Cielo”,
nell’«iperuranio» (úper-ouranós),
dov’è la nostra origine prima, la nostra radice.
Dalla Terra al Cielo è dunque l’itinerario compiuto
dall’uomo nel suo lento passare dalla «visione sensibile» delle cose cariche di
materia, a quella «intellegibile» della loro essenza depurata dalla materia. Il
mito racconta le cose come sono veramente andate: il lento passaggio dai culti
della «Grande Madre» ai culti degli
«dei uranici»; la Filosofia coglie il «senso» di questo passaggio che è nella
natura dell’uomo originariamente aperta alla visione. In questa apertura
originaria ci sono gli uomini che si fermano alle «apparenze sensibili» delle
cose, alla loro sembianza (Doxa), e
ci sono quelli che invece approdano alla «natura intelligibile» delle cose,
alla loro verità (Alétheia). Platone
chiama i primi “filodóxoi” e i
secondi “filosofi”. Sia gli uni che gli altri hanno riconosciuto la loro radice
nel “Cielo” e, abbandonata l’oscurità della terra, si sono lasciati ospitare
nel mondo uranico della luce, ma mentre i “filodóxoi” si trattengono
nell’«apparenza» che costituisce il primo dono della luce, i “filosofi”
oltrepassano questa incerta sembianza (l’apparenza inganna) per giungere a quel
«sapere» che niente può far oscillare (Epistéme).
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