sabato 14 maggio 2016

MISERICORDIA, PENTIMENTO E CONVERSIONE


Vi sono alcuni passaggi del libro intervista del Papa “Il nome di Dio è misericordia che ci fanno capire che la «misericordia» di Dio non può essere disgiunta dalla «giustizia» di Dio – la quale richiede che chi opera il “bene” riceva un premio e chi compie il “male” sia punito – e dalla «verità» – la quale invece esige che il “male” venga riconosciuto come “male”. Il Papa, quindi, ci dice che il “peccato” merita una «condanna» che, per «giustizia», non può che essere proporzionalmente severa tanto quanto la gravità del "peccato". 

Il Pontefice, poi, chiarisce che ci devono essere «due» atteggiamenti affinché la «grazia» di Dio possa operare, cioè affinché il nostro “peccato” sia perdonato. L’ammissione sincera e dispiaciuta del proprio errore e l’emenda, cioè la volontà di cambiare, di non peccare più. Sul primo atteggiamento Francesco afferma che se non c’è coscienza del "peccato" ovviamente non ci può essere "perdono".



Colui che si confessa è bene che si vergogni del proprio "peccato": la vergogna è una grazia da chiedere, è un fattore buono, positivo che ci fa umili. Poi, citando Sant’Agostino, aggiunge: «Quando pecchiamo dobbiamo provare dispiacere di noi stessi, perché i peccati dispiacciono a Dio». I Padri della Chiesa – e queste ritornano a essere le parole del Papa – «insegnano che questo cuore a pezzi è l’offerta più gradita a Dio. È il segno che siamo coscienti del nostro peccato, del male compiuto». 

Francesco, inoltre, illustra che per confessarsi con le disposizioni adeguate occorre che il penitente «sappia guardare con sincerità a se stesso e al suo peccato. E che si senta peccatore. La «misericordia» c’è, ma se tu non vuoi riceverla…. Se non ti riconosci peccatore vuol dire che non la vuoi ricevere, vuol dire che non ne senti il bisogno». Dunque, l’amore di Dio per noi non può essere disgiunto dal riconoscere con verità il male che abbiamo commesso. Così il Papa: «La Chiesa condanna il peccato perché deve dire la verità: questo è un peccato». A seguire il Pontefice esplicita questo pensiero riferendosi ad un caso particolare: l’omosessualità. «Io preferisco che le persone omosessuali vengano a confessarsi. Puoi consigliare loro la preghiera, la buona volontà, indicare la strada». Se le condotte omosessuali non fossero scelte peccaminose, perché il Papa dovrebbe consigliare alle persone omosessuali di confessarsi e di tentare di cambiare strada? 

La mancanza di questa condizione chiamata "contrizione" (dolore del peccato in sé perché così ho offeso Dio) o "attrizione" (dolore per il peccato commesso perché sono timoroso del castigo di Dio) non può portare alla «remissione dei peccati». Questo è ben evidenziato quando il Papa spiega che alcune volte il confessore non può assolvere e si dovrà limitare a una benedizione del fedele. In merito al secondo atteggiamento che chiede l’impegno per una conversione seria e profonda della propria vita, Francesco mette in guardia i fedeli dall’intendere la confessione come una "tintoria": uno entra in confessionale, dice i suoi peccati e automaticamente questi vengono lavati via. Ciò non accade se non c’è un proposito radicale di abbandonare la via del male. Più in particolare il Papa fa un distinguo importante: c’è chi cade e si rialza e cade nuovamente ma non abbandona la lotta spirituale. E poi c’è chi – il “corrotto” - si sente a posto e quindi non si pente dei propri peccati e dunque non vuole convertirsi: «Il corrotto è colui che pecca e non si pente, colui che pecca e finge di essere cristiano e con la sua doppia vita dà scandalo». Costui si sottrae volontariamente alla «misericordia» di Dio. 

Gesù offre una radicalizzazione decisiva del senso della «giustizia». Egli la colloca già nella profondità del cuore dell’uomo, come mostra il suo insegnamento delle beatitudini (Mt 5-7). Se l’adulterio non inizia con l’atto esteriore, ma con lo sguardo concupiscente sulla donna, se il “non uccidere” include il divieto della collera e dell’insulto, se l’elemosina, la preghiera e il digiuno devono essere praticati nel segreto, è proprio perché la giustizia evangelica affonda le proprie radici nella verità delle intenzioni del cuore, e non solo nella conformità esteriore. 

Alcuni hanno però concluso che sia sufficiente solo l’intenzione, e che l’atto esteriore non abbia più nessuna importanza. È un errore grave di interpretazione. Infatti, Gesù parla ancora di atti esteriori: l’insulto, il rinchiudersi nella propria camera, il dare un bicchiere d’acqua al più piccolo dei fratelli, il fare del bene al proprio nemico, ecc. La sua prospettiva in merito consiste nel far risplendere la verità profonda di tali comportamenti: l’appartenenza totale, interiore ed esteriore, al regno di Dio e il dono di sé, il servizio al bene autentico degli uomini.

Ormai, l’uomo prende anche una misura molto più chiara dell’impurità del proprio cuore e delle proprie intenzioni. Vi scopre questo potente freno al dono totale di sé che forse è più pericoloso delle passioni carnali: il proprio orgoglio. L’uomo sa bene che può trovare la vita solo se la dona, ma egli sperimenta il rischio di perderla per sempre perché si scopre incapace di rinunciare alla padronanza su di essa. La Croce insomma segna la massima rivelazione della «giustizia» di Dio. 

Solo la misericordia divina ci consente di passare dallo stato di schiavi del peccato a quello di figli di Dio liberi, giustificati e giusti. Visto però che non c’è «giustizia» senza rettitudine di cuore, tale processo suppone un profondo cambiamento della nostra libertà: da schiava di se stessa, attaccata a sé come a un idolo, dovrà diventare «vivente per Dio in Cristo Gesù» (Rm 6,11). Questo cambiamento, la Sacra Scrittura   lo chiama “pentimento” e “conversione”. Sono la condizione ineludibile perché si attui quella «misericordia» che non sarebbe tale se non portasse in noi frutti di «giustizia».

La chiamata “pentitevi”, “convertitevi”, risuona in tutto il Nuovo Testamento. Fin dall’inizio del suo ministero, Gesù la lega strettamente all’accettazione del Regno di Dio, reso presente in lui per «misericordia». Nella conclusione del suo primo discorso missionario, il giorno di Pentecoste, Pietro risponde così ai suoi ascoltatori trafitti dall’aver crocifisso Cristo: «Pentitevi; ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per la remissione dei suoi peccati, e riceverete allora il dono del Santo Spirito» (At 2,38). Pentirsi, convertirsi, è una decisione personale resa possibile dall’offerta della «misericordia», ed è proprio condizione perché essa possa essere vera e propria «misericordia» in quanto porta frutti di «giustizia». 

La conversione è un cambiamento profondo di vita, un odio dei propri peccati e una ferma decisione di non commetterli più, e questo grazie a Cristo e per seguire Cristo. Ciò non esclude ovviamente altri motivi che la tradizione teologica chiama “attrizione” o “contrizione imperfetta”: si possono odiare i propri peccati anche per paura dell’inferno, per i rimorsi di coscienza che non si sopportano più, o per le conseguenze disastrose  dei propri atti. Il figliol prodigo è dovuto finire a custodire i porci con lo stomaco vuoto per  prendere coscienza che poteva tornare da suo padre dove sarebbe stato trattato meglio, anche come semplice operaio. È però nella grazia di Cristo e in vista di Cristo che tali sentimenti ancora centrati sui propri interessi diventano vero e proprio pentimento e conversione in senso teologicamente compiuto.

Pretendere i benefici della «misericordia» senza pentirsi significherebbe considerare di poca importanza l’aver crocifisso Cristo. Pretendere «misericordia» senza convertirsi significherebbe escludere proprio i frutti che danno senso alla «misericordia»: la sua meta non consiste solo nel  sentirsi meglio pensando che il peso dei nostri peccati sia stato annullato, ma soprattutto nel riadeguare i nostri cuori alla comunione reale con Dio, e cioè nel rifarci giusti, il che non avviene senza questo cambiamento della nostra libertà in Cristo, che si chiama «conversione». 

Qui emerge una domanda fondamentale: è possibile la «conversione»? Facciamo tutti l’esperienza di ricadere regolarmente negli stessi peccati: non sarà forse ipocrita fare una promessa che sappiamo di non poter mantenere? A questo proposito, si può pensare a coloro che nel passato venivano chiamati dai teologi morali gli “abitudinari”. Oggi si parla di diverse “dipendenze” vissute da alcuni: l’alcol, la droga, il sesso, la TV, internet, ecc. In certi casi, chi confessa determinati peccati, non è forse quasi sicuro di ricaderci poco dopo? In realtà però, il peccato più insidioso, di cui siamo al massimo abitudinari si chiama orgoglio: quanto tempo passa tra una nostra confessione e un nostro nuovo atteggiamento di orgoglio? E allora a che cosa serve confessarlo e, come si dice nell’atto di dolore, decidere di “non commetterlo mai più”? Si devono anche prendere in considerazione tutte le scelte di vita fondamentali le cui conseguenze hanno creato delle situazioni consolidate dalle quali è diventato difficilissimo tornare indietro.

Tale domanda consente alcune precisazioni importanti. Come abbiamo notato, una «misericordia» che si accontentasse di un vago rimpianto senza vera e propria «conversione» non sarebbe più «misericordia». All’altro estremo, una «misericordia» che supporrebbe che offrissimo una garanzia di impeccabilità totale per il resto della nostra vita terrena non potrebbe mai attuarsi, visto che tale garanzia è fuori dalle nostre capacità. Osserviamo che questi due squilibri apparentemente contrari hanno un punto in comune: il negare la priorità della grazia in nome di uno stato affettivo vago da un lato, o di un volontarismo “pelagiano” (riscattarsi dal peccato originale senza l'intervento della grazia) dall’altro. Credere alla priorità della grazia, invece, significa anche credere alla sua fecondità nella nostra vita, anche in materia di lotta al peccato. La grazia ci rende capaci di quanto eravamo incapaci, e questo non per magia, bensì anche attraverso decisioni che essa rende possibili, decisioni che concernono sia la meta sia i mezzi da assumere. 

Il vago rimpianto può convivere con il rifiuto di convertirsi. Si considera per esempio che su questo o quel peccato non ci sia più nulla da fare. O si pensa che una data situazione contraria alla volontà di Dio sia troppo consolidata per potersene liberare. In tali casi, certo con qualche rimpianto, si dà comunque ospitalità al peccato e non ci si converte. In questo si manifesta anche un deficit di speranza. La via giusta consiste nell’intraprendere o nel continuare il cammino senza scoraggiarci, certo zoppicando, certo talvolta cadendo, ma contando sulla mano di Cristo per rialzarci e per sostenerci negli sforzi che persevereremo a fornire per suo amore. In tale atteggiamento, la consapevolezza della nostra estrema debolezza non viene negata nel  volontarismo, non diventa neanche pretesto per la dimissione di fronte alla conversione, bensì fortifica le ragioni di riporre solo in Cristo la nostra totale fiducia e, radicati in lui, di mobilitare le nostre risorse perché si compia in noi la volontà del Padre.

In tale prospettiva, possiamo verificare concretamente come il dispiegamento della «misericordia» di Cristo nella nostra vita non potrà mai separarsi dalla crescita in noi della «giustizia» attraverso conversioni sempre riprese. Al contrario, una comprensione della «misericordia» che darebbe eccellenti ragioni di non convertirsi sarebbe certamente sbagliata. Gli incontri di Cristo con i peccatori sono indicativi di questa pedagogia divina e di tale cammino spirituale. 



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