sabato 7 maggio 2016

IL VANGELO DEI SEGNI


Sfogliando il quarto vangelo cercheremmo invano la parola «miracolo», anche se l’evangelista vi racconta ben «sette» straordinari miracoli di Gesù. Eppure egli dà loro un nome diverso: per lui sono dei «segni» (2,11-18-23; 3,2; 4,54; 6,2; 7,31; 9,16; 10,41; 11,47; 12,18-37; 20,30). Dopo il primo, il cambiamento dell’acqua in vino, l’evangelista dice al lettore: «Gesù diede "inizio" ai suoi segni a Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cedettero in lui» (2,11). E alla fine riassume così il suo libro: «Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (20,30-31). Il quarto vangelo perciò è un libro che racconta alcuni grandi «segni» compiuti da Gesù, notando quando iniziano e sintetizzando, alla fine, proprio nei «segni» il suo contenuto e il suo scopo. 

Che cos’è un «segno?» Un «segno» che sia autentico rimanda a un significato. Un significato preciso: rimanda cioè a una realtà, al di là di sé. Può essere un «segno» convenzionale e allora è solo un “simbolo”, come la bandiera italiana, che rimanda all’Italia. Un «segno» reale può essere invece il fumo, che si innalza da qualcosa che brucia e rimanda alla realtà del fuoco. Un «segno» o “simbolo” concreto è un fatto significativo, che rimanda a una realtà «non» immediatamente evidente nel fatto che vedi se non te lo rivela chi ne comprende il significato. Tale è il miracolo come «segno» nel quarto vangelo. 

Il «segno» non è perciò una guarigione miracolosa, che può fare un taumaturgo qualsiasi, ma è un fatto straordinario, che rivela Gesù nella sua identità in relazione alla vita, che vuol portare all’uomo. I «segni» sono perciò sfaccettature diverse del significato salvifico che ha per noi la persona di Gesù. Passiamo brevemente in rassegna i «sette segni» «più uno», l’ultimo, il più grande, indicandone il significato cristologico-salvifico. 

Il primo, il cambiamento dell’acqua in vino alle nozze di Cana, mediato dall’intervento della madre di Gesù (2,1-11), viene qualificato come “l’inizio dei segni”. Il suo significato è svelato da Giovanni il Battista in 3,29; «Chi possiede la sposa è lo sposo (Gesù); ma l’amico dello sposo (Giovanni), che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta». Gesù si rivela perciò come lo sposo nascosto alle nozze di Cana, dietro al «segno» operato per gli sposi. 

Nella scena che segue alle nozze di Cana, la cacciata dei venditori dal tempio (2,13-22), Gesù parla di un altro «segno», l’«ultimo». Rispondendo alla provocazione dei Giudei: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?», egli preannuncia un futuro «segno» con una frase enigmatica: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (2,18-19). L’evangelista spiega che egli parlava del suo corpo, che sarebbe stato distrutto da loro e avrebbe fatto risorgere dopo tre giorni (2,21-22). La sua morte-risurrezione è perciò l’«ottavo segno», l’«ultimo», che rivela Gesù come il Signore glorificato, che dona lo Spirito. 

Nel «secondo segno» che Gesù compie (4,46-54), il mantenimento in vita del figlio del funzionario regio: «Va’, tuo figlio vive», Gesù si rivela come colui che dona la vita. 

Il «terzo segno», la guarigione di un paralitico durante una festa, di sabato (5,1-9a), nel dialogo che segue svela che Gesù opera di sabato come il Padre: «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» (5,17). I Giudei vogliono ucciderlo, perché capiscono che pretende mettersi sul piano stesso di Dio (5,18). 

Il quarto e il quinto si susseguono: la moltiplicazione dei pani e il cammino sulle acque (6,1-21). Nel dialogo successivo, il «segno» viene interpretato come la “rivelazione” di Gesù, «pane di vita disceso dal cielo», che sostituisce la “manna”, che Dio diede a Israele nel deserto. Solo il pane dal cielo, che è Gesù e che da Gesù (Eucarestia), è capace di donare la vita, che non muore. 

La Guarigione di un cieco nato è il «sesto segno» (9,1-41), che rivela Gesù «luce del mondo»: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12). 

Il «settimo», infine, è il più esplicito: il risuscitamento di Lazzaro quattro giorni dopo la morte prelude e presignifica la morte-risurrezione di Gesù (11,17-44). È Gesù stesso che ne anticipa il significato nel dialogo con Marta: «Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?» (11,25-26). 

I «sette segni» più uno delineano dunque progressivamente i tratti della persona di Gesù in relazione all’uomo e alla salvezza che gli offre, significata con l’espressione sintetica: «La vita Eterna». Essi hanno «due» funzioni ben precise. La “prima” l’abbiamo già messa in luce: ognuno dei «segni» rimanda al di là di se stesso, rivela un tratto singolare della persona di Gesù. La “seconda” funzione è di testimonianza o prova di quanto viene rivelato di Gesù. Basti un testo per confermarlo: le parole con cui il cieco nato guarito confuta i sapienti membri del sinedrio: «Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno venera Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non s’è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla» (9, 30-33).   

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