sabato 14 maggio 2016

L’AMORE MISERICORDIOSO NEL VANGELO DI LUCA


Tutto il Nuovo Testamento è testimone dell’universalità della salvezza, ma è indubbio che Luca manifesta un’insistenza particolare su questo tema. Fin dall’inizio della predicazione di Giovanni il Battista, egli sottolinea che adesso si inaugura il tempo in cui «Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio» (3,6). Alla fine degli Atti degli Apostoli, quando Paolo decide di fermare definitivamente la propria attività missionaria sul fronte dei pagani, la prospettiva del tutto universale è sottolineata un’ultima volta: «Questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani, ed essi l’ascolteranno» (Atti 28,28). L’assoluta universalità del progetto di Dio era per altro già stata “lanciata”  nel cantico di Simeone, un testo che esprime nella maniera più netta la comprensione lucana della missione di Gesù: «I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli» (Luca 2,30-31). 

La rivelazione donata in Gesù avvolge Israele e le genti in un’unica gloria e in un’unica luce. Al momento della nascita a Betlemme la moltitudine dell’esercito celeste, con un’apertura senza eccezioni, aveva cantato: «Pace in terra agli uomini che Dio ama» (2,14). Conformemente a questo piano divino universale, il risorto, nell’apparizione conclusiva della narrazione evangelica, annuncia che «Saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme» (24,47). 

L’universalità della salvezza ha il suo ribaltamento logico nell’universalità dell’amore richiesto agli uomini. In sintonia con convinzioni probabilmente già presenti in ambiente del giudaismo contemporaneo, Gesù ha sintetizzato la legge di Mosè nel doppio comandamento dell’amore di Dio e del prossimo (Matteo 22,35-40; Marco 12,28-31; Luca 10,25-28). In questa occasione Luca chiarifica la posizione specifica di Gesù precisando, con la ripresa della parabola del «buon samaritano», chi sia il “prossimo” che è necessario amare. 

Nel precetto mosaico «Ama il tuo prossimo come te stesso» (Levitico 19,18), l’espressione «come te stesso» intende probabilmente inculcare l’idea che amare il connazionale è di fatto un amare se stessi. Il benessere di un proprio compatriota infatti è un qualcosa che si riversa positivamente su chiunque appartenga a quel popolo. la parabola del «buon Samaritano» intende invece allargare la nozione di prossimo, togliendoli ogni particolarismo e rendendo chiaro che la categoria di “prossimo” non va appiattita su quella di “connazionale” (10,27-29). La trama del racconto è infatti imperniata sulla nazionalità dei «quattro» personaggi principali. L’uomo incappato nei briganti è un Giudeo, che torna tutto solo da Gerusalemme a Gerico: la grande familiarità con la zona gli ha dato probabilmente una fiducia eccessiva nelle possibilità di sfuggire i pericoli di quel percorso difficile. 

Anche il sacerdote e il Levita sono dei “Giudei” nel senso più genuino del termine. Senza un’adeguata certificazione di appartenenza al popolo di Dio non potrebbero infatti esercitare le loro funzioni culturali. La prima parte della parabola di Luca 10,30-37 narra dunque la storia di un Giudeo che, nella sua estrema difficoltà, non viene soccorso da due connazionali. Il quarto personaggio è per contrasto «un samaritano», cioè uno «straniero» (vedi anche Luca 17,18). Il Giudeo, lasciato mezzo morto dai briganti e ignorato dai due connazionali mentre al bordo della strada continua a dissanguarsi, viene soccorso proprio da questo straniero. La parabola “dimostra” con chiarezza che la categoria di “prossimo” non può venire ristretta semplicemente a quella di ”connazionale”. Non avrebbe infatti senso affermare che il prossimo dell’uomo ferito siano il sacerdote e il Levita. Quando, al termine della parabola, Gesù domanda al dottore della legge, incerto sull’estensione della categoria di “prossimo”: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?», la risposta non può non suonare chiarissima («Chi ha avuto compassione di lui»). 

Naturalmente Luca sa che la punta decisiva dell’appello di Gesù all’amore consiste nel comandamento dell’amore verso il nemico (6,27-35). Riportando però, come sintesi della legge, il doppio comandamento dell’amore di Dio e del prossimo e precisandolo con la parabola del «buon Samaritano», egli mostra anche la consapevolezza che l’universalità del piano salvifico di Dio deve riversarsi in un atteggiamento d’amore senza eccezioni ed esclusioni. Prima di arrivare all’eroismo dell’amore del nemico è indispensabile, nell’ordinario dell’esistenza, amare «come se stessi» chiunque abbiamo ventura di incontrare lungo la nostra strada. L’amore del «buon Samaritano» assume le tonalità delicate della “compassione” (10,33) e della “misericordia” (10,37), che sono atteggiamenti su cui Luca insiste con frequenza. Questo aspetto ha colpito Dante Alighieri, che ha definito Luca: «scrittore della tenerezza di Cristo» (Monarchia I,16: scriba mansuetudinis Christi). 

La compassione qualifica profondamente il ritratto di Gesù di fronte alle sofferenze dell’umanità (7,13). Essa è il segno della “compassione” di Dio, quale viene presentata nella parabola del «figlio prodigo» come sentimento del padre che identifica il figlio che ritorna (15,20). Attraverso l’insegnamento di Gesù, la “misericordia” di Dio – su cui insistono soprattutto i cantici del primo capitolo lucano (1,50.54.58.72.78) – diventa atteggiamento imitabile anche dall’uomo. Si potrebbe dire che il «buon Samaritano» “fa misericordia” al Giudeo (10,37), come Dio ha “fatto misericordia” ai nostri padri (1,72). La “compassione” accompagna tutte le tappe del ministero di Gesù e si manifesta nel «perdono» (7,36-50), nell’«attenzione» (13,10-17), nell’«accoglienza» (19,1-10). Essa raggiunge il suo apice, in certo senso naturale, nella descrizione lucana della morte di Gesù. Mentre viene inchiodato sulla croce, infatti, egli perdona e intercede per i suoi crocifissori. Negli istanti estremi accoglie la richiesta del buon ladrone ed entra nella gloria di Dio portandolo con sé nel paradiso (23,43). 

In Luca abbiamo anche un testo caratteristico –  la parabola del «ricco Epulone e di Lazzaro» – che mostra come sia ben possibile «mancare di misericordia» pure da parte di chi spera di trovarla negli altri. Il ricco, che cerca la pietà di Abramo (16,24), non era riuscito a vedere Lazzaro davanti alla sua porta. Questo stesso racconto lascia anche intravedere la necessità di un amore veramente universale. Epulone è capace di tenerezza verso i propri fratelli (16,27-28), ma questa sensibilità innegabile è troppo circoscritta per condurlo effettivamente all’amore per Lazzaro. Il ricco è bloccato negli affetti che appartengono al suo mondo. Ama il prossimo che appartiene a lui, mentre non capisce le persone che gli sono ancora straniere. Se non si dilata in senso veramente universale, l’amore non diventa capace di trasformare il cuore e di salvare. 

La parabola del Samaritano dice anche una parola sull’uso delle ricchezze e dei beni. Il «buon Samaritano» condivide il suo “olio”, il suo “vino”, la propria “cavalcatura” (designata col termine greco “Ktenos”, che significa “proprietà) e il proprio “denaro”. Questo modo di comportarsi è del tutto corrispondente all’atteggiamento che Luca chiede di tenere di fronte al possesso e alle ricchezze e che potremmo definire come generoso e radicale, ma anche come concreto e realistico. La radicalità appare bene dai racconti di vocazione. Nella chiamata dei primi discepoli Luca sottolinea che il “lasciare”, di cui parlano anche Marco e Matteo, è di fatto un “lasciare tutto” (5,11; cfr. anche 5,28 letto insieme al parallelo Marco 2,14). Quando si accorge che molta gente (naturalmente significa “troppa”!) va con lui, Gesù si volta e dice: «Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (14,33). 

La percezione dell’equilibrio lucano tra radicalità e realismo risulta particolarmente chiara nel racconto della conversione del pubblicano Zaccheo (19,8). Questi lascia infatti di colpo la metà dei suoi beni. L’altra metà deve invece essere investita per provvedere alle responsabilità reali di questo uomo: rimangono ancora da risarcire coloro che sono stati frodati e l’ex capo dei pubblicani promette ora di farlo con particolare larghezza. Nel contesto lucano, la vicenda di Zaccheo fa da contrappeso alla narrazione, comune a tutti i sinottici, del ricco mosso da una irrealistica ambizione di radicalità. Anche questi – come Zaccheo – è un «notabile» (18,18), ma la sua proposta si blocca nello stadio dell’ambizione, senza riuscire a diventare realtà in forza dell’appello di Gesù (18.22-23). 

All’incrocio tra la questione grande dell’uso dei beni e il sentimento della tenerezza appartiene anche il discorso dell’elemosina, che ritorna ripetutamente in Luca. Egli, infatti, riprende volentieri le parole di Gesù, che inculcano un atteggiamento di condivisione semplice e diretta di quanto si possiede. La purità dei cibi non si ottiene «lavando stoviglie», ma dando in elemosina quello sta «dentro il piatto» (11,41). Anzi, per essere in grado di vivere questa condivisione, si può arrivare anche alla completa rinuncia ai propri beni: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli» (12,33). Una delle forme più alte di elemosina è quella di accogliere poveri, storpi, zoppi e ciechi alla propria mensa (14,12-14). Ancora una volta, in questo testo, appare la preoccupazione che il discepolo riesca a uscire dalla cerchia di coloro a cui è effettivamente legato e dai quali non può non avere vantaggio; «I tuoi amici, i tuoi fratelli, i tuoi parenti, i ricchi vicini» che hanno di che contraccambiare. 

Un aspetto della parabola del Samaritano, che da accesso a un tratto ulteriore dell’insegnamento lucano, è il fatto che il racconto è formulato in maniera chiara, per fare comprendere che l’atteggiamento dell’«amore verso il prossimo» non si improvvisa né è frutto dell’emozione. La compassione del Samaritano viene autenticata da un «prendersi cura» con concretezza e continuità di colui che è nel bisogno. Gesù insiste su alcuni tratti narrativi che non vanno perduti. Giunto all’albergo , questo straniero samaritano non giudica terminata la sua funzione nei confronti del Giudeo che ha soccorso, ma continua a «prendersi cura» di lui. Il giorno dopo, rimettendosi in viaggio, passa la responsabilità all’albergatore, ricompensandolo con «due denari», cioè con la paga di due giornate lavorative. E, una volta partito, egli non si distacca, ma assicura che tornerà e che si informerà delle condizioni del ferito, impegnandosi a pagare possibili spese ulteriori. Nel suo «prendersi cura» di chi è nel bisogno il Samaritano non conosce «stanchezza».           


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