Tutto il Nuovo Testamento è testimone
dell’universalità della salvezza, ma è indubbio che Luca manifesta
un’insistenza particolare su questo tema. Fin dall’inizio della predicazione di
Giovanni il Battista, egli sottolinea che adesso si inaugura il tempo in cui «Ogni uomo vedrà la
salvezza di Dio» (3,6). Alla fine degli Atti degli Apostoli, quando Paolo decide di
fermare definitivamente la propria attività missionaria sul fronte dei pagani,
la prospettiva del tutto universale è sottolineata un’ultima volta: «Questa salvezza di Dio viene
ora rivolta ai pagani, ed essi l’ascolteranno» (Atti 28,28). L’assoluta universalità
del progetto di Dio era per altro già stata “lanciata” nel cantico di Simeone, un testo che esprime
nella maniera più netta la comprensione lucana della missione di Gesù: «I miei occhi hanno visto
la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli» (Luca 2,30-31).
La rivelazione donata in Gesù
avvolge Israele e le genti in un’unica gloria e in un’unica luce. Al momento
della nascita a Betlemme la moltitudine dell’esercito celeste, con un’apertura
senza eccezioni, aveva cantato: «Pace in terra agli uomini che Dio ama» (2,14). Conformemente a
questo piano divino universale, il risorto, nell’apparizione conclusiva della
narrazione evangelica, annuncia che «Saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono
dei peccati, cominciando da Gerusalemme» (24,47).
L’universalità
della salvezza ha il suo ribaltamento logico nell’universalità
dell’amore richiesto agli uomini. In sintonia con convinzioni probabilmente già
presenti in ambiente del giudaismo contemporaneo, Gesù ha sintetizzato la legge
di Mosè nel doppio comandamento dell’amore di Dio e del prossimo (Matteo
22,35-40; Marco 12,28-31; Luca 10,25-28). In questa occasione Luca chiarifica
la posizione specifica di Gesù precisando, con la ripresa della parabola del «buon
samaritano», chi sia il “prossimo” che è necessario amare.
Nel precetto mosaico «Ama il tuo prossimo come te stesso» (Levitico 19,18),
l’espressione «come te stesso» intende probabilmente inculcare l’idea che amare il
connazionale è di fatto un amare se stessi. Il benessere di un proprio
compatriota infatti è un qualcosa che si riversa positivamente su chiunque
appartenga a quel popolo. la parabola del «buon Samaritano» intende invece
allargare la nozione di prossimo, togliendoli ogni particolarismo e rendendo
chiaro che la categoria di “prossimo” non va appiattita su quella di
“connazionale” (10,27-29). La trama del racconto è infatti imperniata sulla
nazionalità dei «quattro» personaggi principali. L’uomo incappato nei briganti
è un Giudeo, che torna tutto solo da Gerusalemme a Gerico: la grande
familiarità con la zona gli ha dato probabilmente una fiducia eccessiva nelle
possibilità di sfuggire i pericoli di quel percorso difficile.
Anche il sacerdote e il Levita
sono dei “Giudei” nel senso più genuino del termine. Senza un’adeguata
certificazione di appartenenza al popolo di Dio non potrebbero infatti
esercitare le loro funzioni culturali. La prima parte della parabola di
Luca 10,30-37 narra dunque la storia di un Giudeo che, nella sua estrema
difficoltà, non viene soccorso da due connazionali. Il quarto personaggio è per
contrasto «un samaritano», cioè uno «straniero» (vedi anche Luca 17,18). Il
Giudeo, lasciato mezzo morto dai briganti e ignorato dai due connazionali
mentre al bordo della strada continua a dissanguarsi, viene soccorso proprio da
questo straniero. La parabola “dimostra” con chiarezza che la categoria di
“prossimo” non può venire ristretta semplicemente a quella di ”connazionale”. Non
avrebbe infatti senso affermare che il prossimo dell’uomo ferito siano il
sacerdote e il Levita. Quando, al termine della parabola, Gesù domanda al
dottore della legge, incerto sull’estensione della categoria di “prossimo”: «Chi di questi tre ti
sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?», la risposta non può
non suonare chiarissima («Chi ha avuto compassione di lui»).
Naturalmente Luca sa che la punta decisiva dell’appello di
Gesù all’amore consiste nel comandamento dell’amore verso il nemico (6,27-35).
Riportando però, come sintesi della legge, il doppio comandamento dell’amore di
Dio e del prossimo e precisandolo con la parabola del «buon Samaritano», egli
mostra anche la consapevolezza che l’universalità del piano salvifico di Dio
deve riversarsi in un atteggiamento d’amore senza eccezioni ed esclusioni.
Prima di arrivare all’eroismo dell’amore del nemico è indispensabile,
nell’ordinario dell’esistenza, amare «come se stessi» chiunque abbiamo ventura
di incontrare lungo la nostra strada. L’amore del «buon Samaritano» assume le
tonalità delicate della “compassione” (10,33) e della “misericordia” (10,37),
che sono atteggiamenti su cui Luca insiste con frequenza. Questo aspetto ha
colpito Dante Alighieri, che ha definito Luca: «scrittore della tenerezza di
Cristo» (Monarchia I,16: scriba mansuetudinis Christi).
La
compassione qualifica profondamente il ritratto di Gesù di fronte alle
sofferenze dell’umanità (7,13). Essa è il segno della “compassione” di Dio,
quale viene presentata nella parabola del «figlio prodigo» come sentimento del
padre che identifica il figlio che ritorna (15,20). Attraverso l’insegnamento
di Gesù, la “misericordia” di Dio – su cui insistono soprattutto i cantici del
primo capitolo lucano (1,50.54.58.72.78) – diventa atteggiamento imitabile
anche dall’uomo. Si potrebbe dire che il «buon Samaritano» “fa misericordia” al
Giudeo (10,37), come Dio ha “fatto misericordia” ai nostri padri (1,72). La “compassione”
accompagna tutte le tappe del ministero di Gesù e si manifesta nel «perdono»
(7,36-50), nell’«attenzione» (13,10-17), nell’«accoglienza» (19,1-10). Essa
raggiunge il suo apice, in certo senso naturale, nella descrizione lucana della
morte di Gesù. Mentre viene inchiodato sulla croce, infatti, egli perdona e
intercede per i suoi crocifissori. Negli istanti estremi accoglie la richiesta
del buon ladrone ed entra nella gloria di Dio portandolo con sé nel paradiso
(23,43).
In Luca abbiamo anche
un testo caratteristico – la parabola
del «ricco Epulone e di Lazzaro» – che mostra come sia ben possibile «mancare
di misericordia» pure da parte di chi spera di trovarla negli altri. Il ricco,
che cerca la pietà di Abramo (16,24), non era riuscito a vedere Lazzaro davanti
alla sua porta. Questo stesso racconto lascia anche intravedere la necessità di
un amore veramente universale. Epulone è capace di tenerezza verso i propri
fratelli (16,27-28), ma questa sensibilità innegabile è troppo circoscritta per
condurlo effettivamente all’amore per Lazzaro. Il ricco è bloccato negli
affetti che appartengono al suo mondo. Ama il prossimo che appartiene a lui,
mentre non capisce le persone che gli sono ancora straniere. Se non si dilata
in senso veramente universale, l’amore non diventa capace di trasformare il
cuore e di salvare.
La parabola del
Samaritano dice anche una parola sull’uso delle ricchezze e dei beni.
Il «buon Samaritano» condivide il suo “olio”, il suo “vino”, la propria
“cavalcatura” (designata col termine greco “Ktenos”,
che significa “proprietà) e il proprio “denaro”. Questo modo di comportarsi è
del tutto corrispondente all’atteggiamento che Luca chiede di tenere di fronte
al possesso e alle ricchezze e che potremmo definire come generoso e radicale,
ma anche come concreto e realistico. La radicalità appare bene dai racconti di
vocazione. Nella chiamata dei primi discepoli Luca sottolinea che il
“lasciare”, di cui parlano anche Marco e Matteo, è di fatto un “lasciare tutto”
(5,11; cfr. anche 5,28 letto insieme al parallelo Marco 2,14). Quando si
accorge che molta gente (naturalmente significa “troppa”!) va con lui, Gesù si
volta e dice: «Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può
essere mio discepolo» (14,33).
La percezione
dell’equilibrio lucano tra radicalità e realismo risulta
particolarmente chiara nel racconto della conversione del pubblicano Zaccheo
(19,8). Questi lascia infatti di colpo la metà dei suoi beni. L’altra metà deve
invece essere investita per provvedere alle responsabilità reali di questo
uomo: rimangono ancora da risarcire coloro che sono stati frodati e l’ex capo
dei pubblicani promette ora di farlo con particolare larghezza. Nel contesto
lucano, la vicenda di Zaccheo fa da contrappeso alla narrazione, comune a tutti
i sinottici, del ricco mosso da una irrealistica ambizione di radicalità. Anche
questi – come Zaccheo – è un «notabile» (18,18), ma la sua proposta si blocca
nello stadio dell’ambizione, senza riuscire a diventare realtà in forza
dell’appello di Gesù (18.22-23).
All’incrocio
tra la questione grande dell’uso dei beni e il sentimento della tenerezza
appartiene anche il discorso dell’elemosina, che ritorna ripetutamente in Luca.
Egli, infatti, riprende volentieri le parole di Gesù, che inculcano un
atteggiamento di condivisione semplice e diretta di quanto si possiede. La
purità dei cibi non si ottiene «lavando stoviglie», ma dando in elemosina
quello sta «dentro il piatto» (11,41). Anzi, per essere in grado di vivere
questa condivisione, si può arrivare anche alla completa rinuncia ai propri
beni: «Vendete
ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un
tesoro inesauribile nei cieli» (12,33). Una delle forme più alte di elemosina è
quella di accogliere poveri, storpi, zoppi e ciechi alla propria mensa
(14,12-14). Ancora una volta, in questo testo, appare la preoccupazione che il
discepolo riesca a uscire dalla cerchia di coloro a cui è effettivamente legato
e dai quali non può non avere vantaggio; «I tuoi amici, i tuoi fratelli, i tuoi
parenti, i ricchi vicini» che hanno di che contraccambiare.
Un aspetto della parabola del Samaritano,
che da accesso a un tratto ulteriore dell’insegnamento lucano, è il fatto che
il racconto è formulato in maniera chiara, per fare comprendere che
l’atteggiamento dell’«amore verso il prossimo» non si improvvisa né è frutto
dell’emozione. La compassione del Samaritano viene autenticata da un «prendersi
cura» con concretezza e continuità di colui che è nel bisogno. Gesù insiste su
alcuni tratti narrativi che non vanno perduti. Giunto all’albergo , questo
straniero samaritano non giudica terminata la sua funzione nei confronti del
Giudeo che ha soccorso, ma continua a «prendersi cura» di lui. Il giorno dopo,
rimettendosi in viaggio, passa la responsabilità all’albergatore,
ricompensandolo con «due denari», cioè con la paga di due giornate lavorative.
E, una volta partito, egli non si distacca, ma assicura che tornerà e che si
informerà delle condizioni del ferito, impegnandosi a pagare possibili spese
ulteriori. Nel suo «prendersi cura» di chi è nel bisogno il Samaritano non
conosce «stanchezza».
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