sabato 10 ottobre 2015

I DIECI COMANDAMENTI (Es 20)


















Dal monte Dio parla e le sue «dieci parole» - che ritroveremo con lievi varianti anche nel capitolo 5 del Deuteronomio - costituiscono il cuore della Morale e della Religiosità biblica. Chiamate con il termine greco «Decalogo», queste «dieci parole» si distribuiscono lungo due direzioni: le prime tre sono «verticali» perché regolano i rapporti tra Dio e uomo, le altre sette sono «orizzontali» e riguardano i rapporti col prossimo. Anche Gesù, come i profeti prima di lui, amerà il «Decalogo» e lo ricondurrà alla sua essenza di «amore per Dio e per l’uomo» (Marco 10,17-19). Così farà anche Paolo (Romani 13,9). 

La prima parola  «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, da una casa di schiavitù…» è il sostegno e la base delle altre  ed è sviluppata sullo schema delle alleanze tra un re e il suo vassallo. C’è, infatti, la memoria del gesto benefico dell’esodo fatto da Dio a cui risponde l’impegno della fede da parte d’Israele. «Non avrai altri dèi davanti a me»: è la negazione dell’idolatria e la celebrazione dell’unico Dio. Si proibiscono poi le raffigurazioni divine, causa di idolatria. L’uomo è «L’Immagine e la Somiglianza» di Dio (Genesi 1,27). Infine, solo a Dio dev’essere destinata la “prostrazione” e il “servizio”, cioè il culto e l’adorazione. Se si violerà questo primo comandamento scatterà il giudizio divino perché Dio è “geloso”, cioè, secondo un’immagine nuziale o giuridica di proprietà, è intransigente ed esclusivo, non tollera che la sua «proprietà» (Esodo 19,5) passi sotto altri padroni. Ma se la giustizia divina, che punisce il peccato, permane fino alla terza e quarta generazione, la benevolenza del Signore è infinita e abbraccia mille generazioni. 

La seconda parola «Non pronuncerai inutilmente il nome del Signore, tuo Dio, perché egli non lascia impunito chi pronuncia il suo nome inutilmente» non è tanto una condanna della bestemmia (cosa quasi impossibile in Oriente) ma la riduzione del “nome”, cioè della realtà stessa di Dio, a qualcosa di “inutile”: questo termine indica nella Bibbia l’idolo. E’, perciò, la condanna della religiosità magica, superstiziosa, che riduce il Signore a semplice idolo. 

La terza parola «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo» riguarda il sabato, la giornata del culto che sostiene l’intera settimana, come si era visto nel racconto della creazione (Genesi 2,1-4). Il fedele vive il “riposo” settimanale entrando in comunione con il suo Dio, lui e tutta la sua famiglia, attraverso il culto. 

Con la quarta parola «Onora tuo padre e tua madre…» si entra nella dimensione sociale del Decalogo. Non è solo in causa il rapporto coi genitori, ma con questo comandamento si allude a tutte le relazioni familiari e sociali da vivere con impegno e generosità. Il padre e la madre, infatti, incarnano tutto il clan familiare, fondamento della società. 

Il diritto alla vita è dichiarato nella quinta parola «Non Uccidere» che, come si vedrà, non esclude alcune uccisioni (guerra santa, giustizia sociale del taglione). 

La sesta parola «Non commettere adulterio» ha al centro la fedeltà matrimoniale più che la morale sessuale in genere e sarà regolata da un complesso sistema di leggi distribuite in altri libri biblici. 

Nel suo significato originale la settima parola divina «Non rubare» riguardava la libertà personale, estesa poi alla proprietà familiare dei beni. Si condannava, quindi, la razzia di persone così da ridurle in schiavitù. Si passò poi a proibire anche il furto di beni di proprietà di quelle persone. 

L’ottava parola «Non pronunziare falsa testimonianza contro il tuo prossimo» tutelava prima di tutto la testimonianza corretta in sede processuale; poi si è estesa all’intera comunicazione umana. 

La nona e la decima parola, infine, «Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, il suo servo, la sua serva, il suo bue, il suo asino, e tutto quello che appartiene al tuo prossimo» esaltano il diritto alla proprietà familiare: il linguaggio è quello antico, secondo cui la donna è considerata solo un bene tribale. Le donne avevano come principale funzione quella di fare figli, preferibilmente maschi, forza della famiglia patriarcale. Di qui l’importanza della verginità delle ragazze e della fedeltà delle spose, che garantiscono la “purezza” del sangue e “l’onore” del Clan. Il verbo ebraico «Hamad» ha un significato assai più forte dell’italiano «desiderare». Non indica infatti soltanto un’attrazione istintiva o superficiale per degli oggetti, ma la volontà precisa di impadronirsene e possederli. Le parole di Dio sono “incarnate” in un tempo e in una cultura. 

Subito dopo il Decalogo il discorso divino rivolto a Israele si allarga in una serie di norme concrete che avrebbero regolato la vita sociale e religiosa del popolo, una volta che fosse entrato nella terra promessa. In pratica si tratta di leggi posteriori che vengono, però, idealmente trasferite nella loro origine alla rivelazione del Sinai così da essere quasi “canonizzate” e consacrate e presentate come manifestazione della risposta fedele di Israele al Dio della libertà e dell’alleanza. Proprio per questa ragione vengono di solito chiamate «Il codice dell’alleanza» sulla base di un’espressione presente in Esodo 24,7 («Libro dell’alleanza»). 

La numerazione dei dieci comandamenti, che è rimasta nella tradizione cristiana occidentale, è diversa da quella ebraica e cristiana orientale. Nella nostra tradizione si considera la proibizione delle immagini come parte del primo comandamento, e si hanno due comandamenti che proibiscono il «desiderare», uno per la donna e uno per la roba. Nella tradizione ebraica e orientale (e anche in alcune Chiese protestanti) la proibizione delle immagini è contenuta in un comandamento a sé stante, e quelli che per noi sono il nono e il decimo vengono considerati uno solo. 


                 

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