domenica 4 ottobre 2015

I COMANDAMENTI A SIGILLO DELL’ALLEANZA


Tutti i popoli, fin dalla più remota antichità, hanno avvertito l’esigenza di fornirsi di un «codice morale» per dare uno sviluppo ordinato alle relazioni umane. Israele non fa eccezione a questa regola. Il “Decalogo” è infatti la concreta espressione di questa esigenza. La sua elaborazione è frutto di un lento e graduale processo di maturazione. 

Le varie redazioni delle “dieci parole” che ci sono pervenute (e in particolare le due fondamentali di Esodo 20,1-17 e Deuteronomio 5,6-21) rivelano l’esistenza di contesti sociali e culturali diversi. Alcune prescrizioni hanno un sapore assai arcaico: risalgono cioè al diritto tribale di epoca patriarcale. Altre appartengono invece ad epoche più recenti, qualcuna persino al periodo postesilico. 

Notevoli sono le rassomiglianze tra i contenuti del “Decalogo” e quello di altri codici normativi, sviluppatisi soprattutto presso popoli appartenenti all’area geografica dl bacino mediorientale del Mediterraneo. Basti pensare al “Codice di Hammurabi mesopotamico o al “Libro dei Morti della letteratura egizia. Ma l’originalità del “Decalogo” consiste nel suo inserimento vitale nel quadro del patto sinaitico. Le “dieci parole” non rappresentano semplicemente il tentativo di Israele di darsi un ordinamento sociale adeguato. Sono l’ordinamento del popolo dell’alleanza

L’esperienza che Israele fa di Dio come alleato è esperienza di un rapporto di mutua appartenenza: JHWH è il Dio di Israele e Israele il popolo di JHWH. La conservazione e l’approfondimento di questo rapporto esigono da parte del popolo l’osservanza di precise clausole nelle quali è condensata la volontà di JHWH. Il “Decalogo” è la parte più importante delle clausole del patto, quella che riguarda più direttamente la vita morale. La sua stessa codificazione in formule brevi, di carattere imperativo-negativo, evidenzia il dinamismo interpersonale proprio dell’alleanza. JHWH interviene in prima persona rivolgendosi immediatamente al popolo e sollecitandolo ad aderire alla legge. 

Ciò spiega anzitutto la novità delle prescrizioni iniziali – quelle contenute nella prima tavola – che sono tipicamente israelitiche, e giustifica soprattutto la loro radicale priorità. Il riconoscimento dell’azione liberatrice di JHWH, che, sottraendo Israele alla schiavitù dell’Egitto, lo ha costituito come popolo, deve tradursi in un atto di totale sottomissione a lui. Il rifiuto di ogni forma di politeismo idolatrico e la proibizione delle immagini e dello stesso uso del nome stanno ad indicare la sua assoluta sovranità. JHWH è un Dio trascendente che l’uomo non può possedere e manipolare a proprio piacimento. 

Anche i doveri verso il prossimo, che formano il tessuto della seconda tavola del “Decalogo”, acquistano pieno significato dal loro inserimento entro questo orizzontale religioso. Le norme non hanno la pretesa di esaurire l’intero quadro dei valori: sono, più semplicemente, l’indicazione di alcune esigenze etiche minime, tese a garantire la sussistenza del popolo e a favorire l’articolarsi, al suo interno, di una convivenza pacifica. I vari precetti propongono, infatti, altrettante istanze morali, che tutelano i diritti fondamentali della persona, divenendo la base di ogni rapporto umano. 

Il “Decalogo si presenta così come una sorta di piattaforma etica destinata a definire l’identità di Israele e a consentire uno sviluppo ordinato della vita associata. Le “dieci parole” sono perciò lo strumento per la conservazione e l’approfondimento dell’«alleanza». La Legge non è per Israele il fine ultimo della vita morale e neppure la via per l’auto giustificazione. E’ la strada obbligata che occorre percorrere se si vuole entrare sempre più profondamente nella comunione di vita con JHWH. 

Essa non è dunque Legge in senso giuridico, ed è molto più che Legge morale. E’ espressione della confessione di “Fede” in JHWH come liberatore e condizione per il proseguimento del processo di liberazione. La vita morale di Israele è tutta sotto il segno della sua vocazione. Il popolo che Dio ha eletto con un "atto d’amore gratuito" è un popolo sacerdotale, votato al suo servizio e destinato a portare la salvezza all’intera umanità. 

I comandi che Dio imparte sono la diretta conseguenza dei benefici che Egli ha elargito. Il dono di Dio fa appello alla risposta dell’uomo; reclama, in altri termini, una piena assunzione di responsabilità verso gli altri e verso il mondo. La morale dell’ “Antico Testamento” è una morale essenzialmente dialogica, costruita sulla base di una reale reciprocità. L’«alleanza» descrive il cammino che Dio ha fatto per incontrare di nuovo l’uomo; mentre i comandamenti – e in particolare quelli della prima tavola – sottolineano l’infinita distanza che tuttora permane. Il Dio che era lontano si è fatto vicino; ma il Dio vicino ricorda all’uomo che Egli rimane un Dio lontano, altro, inaccessibile, persino innominabile. 

Questa distanza apre lo spazio all’azione dell’uomo nel mondo, sollecitandolo ad esercitare il discernimento nei confronti delle diverse situazioni e ad assumersi responsabilmente il compito di costruire la storia. L’etica, che gli Israeliti si sono dati e che hanno progressivamente arricchito mediante la produzione di norme sempre più dettagliate, garantisce la possibilità di dare concreta attuazione a questo compito. E’ un’etica che fornendo ad Israele una solida base comune cementa la coesione interna e orienta costruttivamente l’impegno verso l’esterno. 

Ma è soprattutto un’etica che, ricevendo il suo ultimo suggello dall’esperienza fondamentale di essere popolo di Dio, alimenta nelle coscienze il senso dell’appartenenza a JHWH e l’esigenza di renderla trasparente nel compimento di una missione, che ha come obiettivo la piena realizzazione del suo disegno di salvezza.

      

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