Tutti i popoli, fin dalla più remota
antichità, hanno avvertito l’esigenza di fornirsi di un «codice morale» per dare uno sviluppo ordinato alle relazioni umane.
Israele non fa eccezione a questa regola. Il “Decalogo” è infatti la concreta
espressione di questa esigenza. La sua elaborazione è frutto di un lento e
graduale processo di maturazione.
Le
varie redazioni delle “dieci parole” che ci sono pervenute
(e in particolare le due fondamentali di Esodo 20,1-17 e Deuteronomio 5,6-21)
rivelano l’esistenza di contesti sociali e culturali diversi. Alcune
prescrizioni hanno un sapore assai arcaico: risalgono cioè al diritto tribale
di epoca patriarcale. Altre appartengono invece ad epoche più recenti,
qualcuna persino al periodo postesilico.
Notevoli
sono le rassomiglianze tra i contenuti del “Decalogo” e quello di altri
codici normativi, sviluppatisi soprattutto presso popoli appartenenti all’area
geografica dl bacino mediorientale del Mediterraneo. Basti pensare al “Codice di Hammurabi” mesopotamico o al “Libro dei Morti” della letteratura
egizia. Ma l’originalità del “Decalogo” consiste nel suo
inserimento vitale nel quadro del patto sinaitico. Le “dieci parole” non rappresentano semplicemente il tentativo di Israele di
darsi un ordinamento sociale adeguato. Sono l’ordinamento del popolo
dell’alleanza.
L’esperienza
che Israele fa di Dio come alleato è esperienza di un rapporto di mutua
appartenenza: JHWH è il Dio di Israele e Israele il popolo di JHWH. La
conservazione e l’approfondimento di questo rapporto esigono da parte del
popolo l’osservanza di precise clausole nelle quali è condensata la volontà di
JHWH. Il “Decalogo” è la parte più importante delle clausole del patto,
quella che riguarda più direttamente la vita morale. La sua stessa
codificazione in formule brevi, di carattere imperativo-negativo, evidenzia il
dinamismo interpersonale proprio dell’alleanza. JHWH interviene in prima
persona rivolgendosi immediatamente al popolo e sollecitandolo ad aderire alla
legge.
Ciò spiega anzitutto
la novità delle prescrizioni iniziali – quelle contenute nella prima tavola –
che sono tipicamente israelitiche, e giustifica soprattutto la loro radicale
priorità. Il riconoscimento dell’azione liberatrice di JHWH, che, sottraendo
Israele alla schiavitù dell’Egitto, lo ha costituito come popolo, deve tradursi
in un atto di totale sottomissione a lui. Il rifiuto di ogni forma di
politeismo idolatrico e la proibizione delle immagini e dello stesso uso del
nome stanno ad indicare la sua assoluta sovranità. JHWH è un Dio trascendente
che l’uomo non può possedere e manipolare a proprio piacimento.
Anche i doveri verso il prossimo,
che formano il tessuto della seconda tavola del “Decalogo”, acquistano pieno
significato dal loro inserimento entro questo orizzontale religioso. Le norme
non hanno la pretesa di esaurire l’intero quadro dei valori: sono, più
semplicemente, l’indicazione di alcune esigenze etiche minime, tese a garantire
la sussistenza del popolo e a favorire l’articolarsi, al suo interno, di una
convivenza pacifica. I vari precetti propongono, infatti, altrettante istanze
morali, che tutelano i diritti fondamentali della persona, divenendo la base di
ogni rapporto umano.
Il “Decalogo”
si presenta così come una sorta di piattaforma etica destinata a definire
l’identità di Israele e a consentire uno sviluppo ordinato della vita
associata. Le “dieci parole” sono perciò lo
strumento per la conservazione e l’approfondimento dell’«alleanza». La Legge non è per Israele il fine ultimo della vita morale e neppure
la via per l’auto giustificazione. E’ la strada obbligata che occorre
percorrere se si vuole entrare sempre più profondamente nella comunione di vita
con JHWH.
Essa non è dunque
Legge in senso giuridico, ed è molto più che Legge morale. E’ espressione della
confessione di “Fede” in JHWH come liberatore
e condizione per il proseguimento del processo di liberazione. La vita morale
di Israele è tutta sotto il segno della sua vocazione. Il popolo che Dio ha
eletto con un "atto d’amore gratuito" è un popolo sacerdotale, votato al suo
servizio e destinato a portare la salvezza all’intera umanità.
I comandi che Dio imparte sono
la diretta conseguenza dei benefici che Egli ha elargito. Il dono di Dio fa
appello alla risposta dell’uomo; reclama, in altri termini, una piena
assunzione di responsabilità verso gli altri e verso il mondo. La morale dell’
“Antico Testamento” è una morale essenzialmente dialogica, costruita
sulla base di una reale reciprocità. L’«alleanza» descrive il cammino che
Dio ha fatto per incontrare di nuovo l’uomo; mentre i comandamenti – e in
particolare quelli della prima tavola – sottolineano l’infinita distanza che
tuttora permane. Il Dio che era lontano si è fatto vicino; ma il Dio vicino
ricorda all’uomo che Egli rimane un Dio lontano, altro, inaccessibile, persino innominabile.
Questa distanza apre lo
spazio all’azione dell’uomo nel mondo, sollecitandolo ad esercitare il
discernimento nei confronti delle diverse situazioni e ad assumersi
responsabilmente il compito di costruire la storia. L’etica, che gli Israeliti
si sono dati e che hanno progressivamente arricchito mediante la produzione di
norme sempre più dettagliate, garantisce la possibilità di dare concreta
attuazione a questo compito. E’ un’etica che fornendo ad Israele una solida
base comune cementa la coesione interna e orienta costruttivamente l’impegno
verso l’esterno.
Ma è soprattutto
un’etica che, ricevendo il suo ultimo suggello dall’esperienza fondamentale di
essere popolo di Dio, alimenta nelle coscienze il senso dell’appartenenza a
JHWH e l’esigenza di renderla trasparente nel compimento di una missione, che
ha come obiettivo la piena realizzazione del suo disegno di salvezza.
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