Il Pensiero di Popper nasce all’interno
dell’orizzonte teorico del circolo di Vienna, col quale egli fu in contatto
diretto sia pure già da subito con un orientamento critico. L’obiettivo
centrale della sua polemica è il «principio di
verificazione».
Innanzitutto la linea di demarcazione tra scienza e non-scienza, per esempio
tra scienza e metafisica, non coincide con quella tra espressioni sensate ed
insensate, in quanto distingue semplicemente le conoscenze controllabili mediante
l’esperienza da quelle che non hanno questo carattere. In secondo luogo, se
quella linea viene tracciata mediante un criterio per il quale sono
significanti solo le affermazioni passibili di una verifica empirica
conclusiva, restano escluse dalla scienza anche le leggi di natura che, essendo
asserzioni strettamente universali (cioè riferite a un numero infinito di
casi), per principio non possono mai essere verificate.
Popper condivide l’esigenza neopositivista di fare
dell’esperienza un momento decisivo per la scelta delle teorie, tuttavia ciò
non va fatto per mezzo della «logica induttiva». Questa infatti non può
sfuggire all’irrazionalismo perché pretende di legittimare il passaggio da una
proposizione vera relativamente a un numero finito di casi sperimentati nel
passato («alcuni corvi sono neri») a una legge universale valida anche per
tutti gli infiniti casi futuri («tutti i corvi sono neri»), e ciò è assurdo
perché non è mai possibile che un passaggio di questo genere risulti legittimo
dal punto di vista logico. Dunque, se si vuole salvare la razionalità
scientifica fondata sull’esperienza, è necessario per Popper abbandonare il
mito secondo cui la scienza procede in base a un metodo induttivo: dal
singolare all’universale, dall’esperienza alle teorie.
Essa non procede per verificazione ma, al contrario, per
«falsificazione»: se un’ipotesi non può mai essere verificata dall’esperienza
essa può però da questa essere falsificata. Basta infatti la verità di una
sola asserzione singolare («nel posto x c’è un corvo bianco») per confutare
quell’asserzione universale, e questo è precisamente il modo in cui
l’esperienza svolge un ruolo decisivo nella scelta delle teorie: le ipotesi
falsificate vengono scartate a favore di quelle non falsificate.
L’induzione dunque non esiste;
gli scienziati non ricavano le teorie dall’esperienza ma «azzardano delle
ipotesi» dalle quali vengono dedotte delle «previsioni controllabili»: se
queste non vengono confermate la teoria risulta falsificata, in caso contrario
essa è «non» verificata (questo resta sempre impossibile), ma «corroborata, fortificata»,
e può essere assunta come valida fino a prova contraria. Il metodo della
scienza è insomma quello che, sfruttando l’«asimmetria» tra verificazione e
falsificazione, procede per «prova ed errore» (trial and error), per
«congetture e confutazioni».
In tal
modo secondo Popper è anche possibile «distinguere correttamente tra
scienza e metafisica», perché una teoria è scientifica solo se comprende
esplicitamente dei «falsificatori potenziali», ovvero degli asserti che,
qualora risultassero veri, renderebbero falsa la teoria in questione, cosa che
non accade con i discorsi metafisici. In breve: sono scientifiche quelle teorie
che possono essere confutate dall’esperienza, e metafisiche quelle che non
prevedono tale possibilità.
Quello
che Popper propone è un rovesciamento che intende essere
rivoluzionario: si tratta di sovvertire delle convinzioni profondamente
radicate nella nostra cultura. In particolare «va rifiutata l’idea che
l’esperienza precede la teoria», la quale sarebbe in qualche modo derivata e «giustificata»
da quella; al contrario è l’elemento teorico che precede
sempre quello empirico: questo infatti non sarebbe possibile senza di quello.
Per esempio la convinzione che
la teoria scaturisce da osservazioni ripetute di eventi simili secondo Popper è
errata perché non si rende conto che l’accertamento di una similitudine «è
possibile solo sulla base di un criterio di somiglianza», quindi sulla base di un
elemento teorico. In questo «senso» la sua filosofia si presenta come un
«razionalismo critico» che rigetta il mito empiristico della «tabula rasa»
(secondo Popper la mente non è un recipiente vuoto che vada riempito con
l’esperienza) e che presenta delle analogie con la posizione kantiana, ferma
restando la differenza fondamentale che per Popper la Teoria è una sorta di
rete gettata nel mare dell’esperienza e può, «In ogni momento e in ogni sua
parte» essere respinta sulla base di questa.
Del resto «tutte» le asserzioni, anche quelle singolari e
non solo quelle universali, risultano inverificabili, perché «ogni» concetto ha
una componente «disposizionale» che trascende sempre la verifica empirica
puntuale (per esempio «solubile» esprime non un fatto compiuto ma
appunto una disposizione). Così in generale per Popper la «crescita della
conoscenza» non nasce da un accumulo di osservazioni, ma si presenta come uno
sviluppo che scaturisce da un «problema» (P1). Ad esso si tenta di
dare una soluzione mediante dei «tentativi teorici» (TT) i quali vengono corretti – soprattutto mediante la «discussione critica»
– cercando di «eliminare gli errori» (EE), il che conduce non
alla teoria vera ma alla posizione di «nuovi problemi» (P2); sicché la formula popperiana che esprime lo sviluppo della conoscenza è P1→TT→EE→P2 (problema→tentativi
teorici→eliminare errori→nuovo problema).
Secondo il filosofo austriaco, che sostiene la cosiddetta
«teoria dei tre mondi» (quelli degli oggetti fisici, degli stati mentali e dei
contenuti oggettivi di pensiero), la scienza ha di mira la «verità», nel senso
tradizionale di «corrispondenza» alla realtà, ed è conoscenza «oggettiva».
Tuttavia il “fallibilismo”
popperiano ci costringe ad ammettere che la «verità» non potrà mai essere
raggiunta; essa deve valere piuttosto come un «ideale regolativo» che come un
traguardo da conseguire effettivamente, un ideale verso il quale tende il
progresso della scienza. Questa cresce dunque attingendo «teorie sempre più
verosimili», capaci cioè di spiegare un sempre maggior numero di fatti oltre a
quelli spiegati dalle teorie che vengono via via abbandonate. Una teoria «T2» viene preferita a una teoria rivale «T1» non perché si sia
dimostrata vera ma in base ad altri criteri; per esempio se è più ricca di
contenuto empirico, se implica previsioni più rischiose e se ha superato un
maggior numero di prove, di controlli, di seri ed onesti tentativi di
confutarla.
L’epistemologia
falsificazionista di Popper si è andata via via trasformando in una
concezione generale della realtà di tipo dichiaratamente razionalistico, nel
senso per esempio che deve essere la «pratica della discussione e della critica
razionale», quella che secondo Popper è nata con la filosofia greca, ad essere
assunta come metodo in ogni questione teorica ed intellettuale e non solo in
quelle scientifiche decidibili dal punto di vista empirico. E’ poi sempre la
«fede nella ragione» che guida pure la riflessione popperiana sulla società: la
strada da percorrere è infatti quella dell’applicazione del metodo scientifico
e del razionalismo critico. Qui esso conduce, per mezzo di «predizioni
controllabili», a una tecnologia sociale razionale, graduale, parziale e
riformista che si contrappone alle pretenziose profezie dello storicismo il
quale si illude di cogliere (per esempio per mezzo della dialettica, che invece
è inaccettabile in quanto ammette la contraddizione) le leggi necessarie che
regolano lo sviluppo della società nel suo insieme.
La concezione reazionaria dello storicismo, che rappresenta
una prospettiva «totalitaria» (tale carattere hanno per esempio le filosofie di
Platone, di Hegel e di Marx), conduce a una «società chiusa», fondata
sull’imposizione di norme immodificabili. Popper propugna invece una «società
aperta», fondata sull’esercizio critico della «ragione umana» e sulle istituzioni
democratiche, caratteristiche della società occidentale, che sole consentono di
realizzare il massimo grado possibile di giustizia all’interno della libertà.
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