venerdì 27 marzo 2015

LA FILOSOFIA DI KARL RAIMUND POPPER


Il Pensiero di Popper nasce all’interno dell’orizzonte teorico del circolo di Vienna, col quale egli fu in contatto diretto sia pure già da subito con un orientamento critico. L’obiettivo centrale della sua polemica è il «principio di verificazione». Innanzitutto la linea di demarcazione tra scienza e non-scienza, per esempio tra scienza e metafisica, non coincide con quella tra espressioni sensate ed insensate, in quanto distingue semplicemente le conoscenze controllabili mediante l’esperienza da quelle che non hanno questo carattere. In secondo luogo, se quella linea viene tracciata mediante un criterio per il quale sono significanti solo le affermazioni passibili di una verifica empirica conclusiva, restano escluse dalla scienza anche le leggi di natura che, essendo asserzioni strettamente universali (cioè riferite a un numero infinito di casi), per principio non possono mai essere verificate. 

Popper condivide l’esigenza neopositivista di fare dell’esperienza un momento decisivo per la scelta delle teorie, tuttavia ciò non va fatto per mezzo della «logica induttiva». Questa infatti non può sfuggire all’irrazionalismo perché pretende di legittimare il passaggio da una proposizione vera relativamente a un numero finito di casi sperimentati nel passato («alcuni corvi sono neri») a una legge universale valida anche per tutti gli infiniti casi futuri («tutti i corvi sono neri»), e ciò è assurdo perché non è mai possibile che un passaggio di questo genere risulti legittimo dal punto di vista logico. Dunque, se si vuole salvare la razionalità scientifica fondata sull’esperienza, è necessario per Popper abbandonare il mito secondo cui la scienza procede in base a un metodo induttivo: dal singolare all’universale, dall’esperienza alle teorie. 

Essa non procede per verificazione ma, al contrario, per «falsificazione»: se un’ipotesi non può mai essere verificata dall’esperienza essa può però da questa essere falsificata. Basta infatti la verità di una sola asserzione singolare («nel posto x c’è un corvo bianco») per confutare quell’asserzione universale, e questo è precisamente il modo in cui l’esperienza svolge un ruolo decisivo nella scelta delle teorie: le ipotesi falsificate vengono scartate a favore di quelle non falsificate. 

L’induzione dunque non esiste; gli scienziati non ricavano le teorie dall’esperienza ma «azzardano delle ipotesi» dalle quali vengono dedotte delle «previsioni controllabili»: se queste non vengono confermate la teoria risulta falsificata, in caso contrario essa è «non» verificata (questo resta sempre impossibile), ma «corroborata, fortificata», e può essere assunta come valida fino a prova contraria. Il metodo della scienza è insomma quello che, sfruttando l’«asimmetria» tra verificazione e falsificazione, procede per «prova ed errore» (trial and error), per «congetture e confutazioni». 

In tal modo secondo Popper è anche possibile «distinguere correttamente tra scienza e metafisica», perché una teoria è scientifica solo se comprende esplicitamente dei «falsificatori potenziali», ovvero degli asserti che, qualora risultassero veri, renderebbero falsa la teoria in questione, cosa che non accade con i discorsi metafisici. In breve: sono scientifiche quelle teorie che possono essere confutate dall’esperienza, e metafisiche quelle che non prevedono tale possibilità. 

Quello che Popper propone è un rovesciamento che intende essere rivoluzionario: si tratta di sovvertire delle convinzioni profondamente radicate nella nostra cultura. In particolare «va rifiutata l’idea che l’esperienza precede la teoria», la quale sarebbe in qualche modo derivata e «giustificata» da quella; al contrario è l’elemento teorico che precede sempre quello empirico: questo infatti non sarebbe possibile senza di quello. 

Per esempio la convinzione che la teoria scaturisce da osservazioni ripetute di eventi simili secondo Popper è errata perché non si rende conto che l’accertamento di una similitudine «è possibile solo sulla base di un criterio di somiglianza», quindi sulla base di un elemento teorico. In questo «senso» la sua filosofia si presenta come un «razionalismo critico» che rigetta il mito empiristico della «tabula rasa» (secondo Popper la mente non è un recipiente vuoto che vada riempito con l’esperienza) e che presenta delle analogie con la posizione kantiana, ferma restando la differenza fondamentale che per Popper la Teoria è una sorta di rete gettata nel mare dell’esperienza e può, «In ogni momento e in ogni sua parte» essere respinta sulla base di questa. 

Del resto «tutte» le asserzioni, anche quelle singolari e non solo quelle universali, risultano inverificabili, perché «ogni» concetto ha una componente «disposizionale» che trascende sempre la verifica empirica puntuale (per esempio «solubile» esprime non un fatto compiuto ma appunto una disposizione). Così in generale per Popper la «crescita della conoscenza» non nasce da un accumulo di osservazioni, ma si presenta come uno sviluppo che scaturisce da un «problema» (P1). Ad esso si tenta di dare una soluzione mediante dei «tentativi teorici» (TT) i quali vengono corretti – soprattutto mediante la «discussione critica» – cercando di «eliminare gli errori» (EE), il che conduce non alla teoria vera ma alla posizione di «nuovi problemi» (P2); sicché la formula popperiana che esprime lo sviluppo della conoscenza è P1→TT→EE→P2 (problema→tentativi teorici→eliminare errori→nuovo problema)

Secondo il filosofo austriaco, che sostiene la cosiddetta «teoria dei tre mondi» (quelli degli oggetti fisici, degli stati mentali e dei contenuti oggettivi di pensiero), la scienza ha di mira la «verità», nel senso tradizionale di «corrispondenza» alla realtà, ed è conoscenza «oggettiva». 

Tuttavia il “fallibilismo” popperiano ci costringe ad ammettere che la «verità» non potrà mai essere raggiunta; essa deve valere piuttosto come un «ideale regolativo» che come un traguardo da conseguire effettivamente, un ideale verso il quale tende il progresso della scienza. Questa cresce dunque attingendo «teorie sempre più verosimili», capaci cioè di spiegare un sempre maggior numero di fatti oltre a quelli spiegati dalle teorie che vengono via via abbandonate. Una teoria «T2» viene preferita a una teoria rivale «T1» non perché si sia dimostrata vera ma in base ad altri criteri; per esempio se è più ricca di contenuto empirico, se implica previsioni più rischiose e se ha superato un maggior numero di prove, di controlli, di seri ed onesti tentativi di confutarla. 

L’epistemologia falsificazionista di Popper si è andata via via trasformando in una concezione generale della realtà di tipo dichiaratamente razionalistico, nel senso per esempio che deve essere la «pratica della discussione e della critica razionale», quella che secondo Popper è nata con la filosofia greca, ad essere assunta come metodo in ogni questione teorica ed intellettuale e non solo in quelle scientifiche decidibili dal punto di vista empirico. E’ poi sempre la «fede nella ragione» che guida pure la riflessione popperiana sulla società: la strada da percorrere è infatti quella dell’applicazione del metodo scientifico e del razionalismo critico. Qui esso conduce, per mezzo di «predizioni controllabili», a una tecnologia sociale razionale, graduale, parziale e riformista che si contrappone alle pretenziose profezie dello storicismo il quale si illude di cogliere (per esempio per mezzo della dialettica, che invece è inaccettabile in quanto ammette la contraddizione) le leggi necessarie che regolano lo sviluppo della società nel suo insieme. 

La concezione reazionaria dello storicismo, che rappresenta una prospettiva «totalitaria» (tale carattere hanno per esempio le filosofie di Platone, di Hegel e di Marx), conduce a una «società chiusa», fondata sull’imposizione di norme immodificabili. Popper propugna invece una «società aperta», fondata sull’esercizio critico della «ragione umana» e sulle istituzioni democratiche, caratteristiche della società occidentale, che sole consentono di realizzare il massimo grado possibile di giustizia all’interno della libertà.     









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