Un contributo originale all’elaborazione del
marxismo venne fornito da Antonio Gramsci, che fu tra i fondatori del Partito
Comunista Italiano. Le sue analisi sulla complessità del rapporto tra la
struttura economica e la sovrastruttura politica e ideale, l’insistenza sulla
necessità di conquistare un’«egemonia» (primato, supremazia) etico-culturale
prima ancora che politica, il rifiuto di ogni interpretazione
meccanicistica (Vedi Post marzo 2013 Gli artefici della concezione meccanicistica del mondo) e sociologistica dello
sviluppo storico in generale e dello stesso marxismo rappresentano altrettante
indicazioni importanti non solo sul piano teorico, ma anche dal punto di vista
della strategia rivoluzionaria più idonea alle condizioni di una società
capitalistica avanzata.
L'«egemonia culturale» è un concetto che indica le varie forme di «dominio» culturale e/o di «direzione intellettuale e morale» da parte di un gruppo o di una classe che sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo. L'analisi dell'«egemonia culturale», anche in quanto distinta dal mero dominio, è stata formulata per la prima volta da Antonio Gramsci per spiegare perché le rivoluzioni comuniste predette da Carlo Marx nei paesi industrializzati non si fossero verificate.
Marx e i suoi discepoli avevano in effetti affermato che il capitalismo industriale avrebbe generato una gigantesca classe operaia e cicliche recessioni economiche che aggiunte alle altre contraddizioni del sistema capitalistico avrebbero portato la stragrande maggioranza della popolazione, i lavoratori, a sviluppare delle organizzazioni per difendere i loro interessi e cioè «sindacati» e «partiti politici riformisti». L'inevitabile successione delle crisi economiche avrebbe quindi trascinato la classe operaia organizzata ad abbattere il capitalismo con una rivoluzione, a rifondare le istituzioni economiche, politiche e sociali sulla base del socialismo scientifico e a cominciare la transizione verso una società comunista. In termini marxisti il cambiamento radicale delle strutture economiche implicava una trasformazione delle sovrastrutture culturali e politiche.
Se finora non era avvenuto quanto teorizzato scientificamente dalla dialettica marxista, secondo Gramsci questo era dovuto all'incontrastata preponderanza della cultura borghese su quella proletaria. In altri termini le rappresentazioni culturali della classe dirigente, cioè l'ideologia dominante, avevano influito più di quanto Marx avrebbe potuto pensare sulle masse lavoratrici. Nelle società industriali avanzate gli strumenti culturali egemonici come la scuola obbligatoria, i mezzi di comunicazione di massa avevano inculcato una «falsa coscienza» ai lavoratori.
Invece di fare una rivoluzione che servisse a soddisfare i loro bisogni collettivi i lavoratori delle società industriali facevano propria l'ideologia borghese dominante cedendo alle sirene del nazionalismo, del consumismo e della competizione sociale abbracciando un'etica individualista egoistica oppure schierandosi tra le file dei capi religiosi borghesi. Era arrivato il tempo di abbattere l'«egemonia culturale» borghese e questo era il compito degli intellettuali.
L'«egemonia culturale» è un concetto che indica le varie forme di «dominio» culturale e/o di «direzione intellettuale e morale» da parte di un gruppo o di una classe che sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo. L'analisi dell'«egemonia culturale», anche in quanto distinta dal mero dominio, è stata formulata per la prima volta da Antonio Gramsci per spiegare perché le rivoluzioni comuniste predette da Carlo Marx nei paesi industrializzati non si fossero verificate.
Marx e i suoi discepoli avevano in effetti affermato che il capitalismo industriale avrebbe generato una gigantesca classe operaia e cicliche recessioni economiche che aggiunte alle altre contraddizioni del sistema capitalistico avrebbero portato la stragrande maggioranza della popolazione, i lavoratori, a sviluppare delle organizzazioni per difendere i loro interessi e cioè «sindacati» e «partiti politici riformisti». L'inevitabile successione delle crisi economiche avrebbe quindi trascinato la classe operaia organizzata ad abbattere il capitalismo con una rivoluzione, a rifondare le istituzioni economiche, politiche e sociali sulla base del socialismo scientifico e a cominciare la transizione verso una società comunista. In termini marxisti il cambiamento radicale delle strutture economiche implicava una trasformazione delle sovrastrutture culturali e politiche.
Se finora non era avvenuto quanto teorizzato scientificamente dalla dialettica marxista, secondo Gramsci questo era dovuto all'incontrastata preponderanza della cultura borghese su quella proletaria. In altri termini le rappresentazioni culturali della classe dirigente, cioè l'ideologia dominante, avevano influito più di quanto Marx avrebbe potuto pensare sulle masse lavoratrici. Nelle società industriali avanzate gli strumenti culturali egemonici come la scuola obbligatoria, i mezzi di comunicazione di massa avevano inculcato una «falsa coscienza» ai lavoratori.
Invece di fare una rivoluzione che servisse a soddisfare i loro bisogni collettivi i lavoratori delle società industriali facevano propria l'ideologia borghese dominante cedendo alle sirene del nazionalismo, del consumismo e della competizione sociale abbracciando un'etica individualista egoistica oppure schierandosi tra le file dei capi religiosi borghesi. Era arrivato il tempo di abbattere l'«egemonia culturale» borghese e questo era il compito degli intellettuali.
E’ un
«leninista» dichiarato come Gramsci a costruire una risposta teorica
diversa al problema della coscienza rivoluzionaria. Gramsci pensava che fosse
essenziale, in campo marxista, liberarsi da ogni traccia di interpretazione
determinista e di materialismo volgare: in queste concezioni vedeva le radici
filosofiche dell’inerzia e del comportamento subalterno alla borghesia che
caratterizzavano la «II Internazionale». Senza il superamento
di queste scorie il diffondersi di una consapevolezza rivoluzionaria sarebbe
stato impensabile. Proprio perché questa è la linea discriminante tracciata,
Gramsci si sente dalla stessa parte di Lenin. Le sue tesi tuttavia vanno oltre
l’orientamento di Lenin, e spesso in altra direzione. Per certi versi
rappresentano una riformulazione diversa e creativa dello stesso pensiero di
Marx (Vedi Post Novembre
2013 Karl Marx ).
Riflettendo sulle
difficoltà e sulle specificità della rivoluzione in Occidente rispetto alla
rivoluzione in Russia, Gramsci pone al centro di una nuova strategia la
conquista dell’«egemonia» come «riforma intellettuale e morale», come direzione
culturale e costruzione di un «senso comune» impregnato della «concezione del
mondo» del proletariato rivoluzionario.
Per Gramsci la conquista dell’«egemonia» è il momento centrale; la conquista del potere politico, la forza e il comando,
è un momento subordinato. Per Lenin, invece, il comando è decisivo, l’«egemonia» segue.
Gramsci, quindi, vede
la necessità di far precedere, per rendere possibile la rivoluzione in
Occidente, la conquista dell’«egemonia» a quella del dominio. In Russia era
avvenuto il contrario. Il progetto comunista in condizioni di avanzato sviluppo
capitalistico viene così a distinguersi dal «modello leninista», valido in
paesi relativamente arretrati. L’azione volta a produrre una trasformazione
culturale acquista perciò in Gramsci un peso decisivo: il «blocco storico» delle
forze anticapitalistiche si costruisce attorno alla fusione degli aspetti
economico-sociali con gli aspetti etico-politici.
Il ruolo guida che l’egemonia assume sull’esercizio della
forza sta anche alla radice del pensiero gramsciano sulla transizione dalla
dittatura del proletariato al comunismo attraverso l’estinzione dello Stato.
Sarà proprio l’estendersi e l’approfondirsi dell’egemonia, del consenso, a
ridurre e, progressivamente, a riassorbire e rendere inutile la «società
politica», lo strumento della forza.
Compare
qui il termine di «società regolata» per designare il comunismo, la
società senza Stato: una espressione felice che stringe immediatamente, in un
solo nesso, per un verso la società capitalistica e la forma valore come
assenza di coscienza e di controllo sociale, e per l’altro la funzione
egemonica del proletariato come sviluppo di una cultura e di un’etica capaci di
autoregolare le relazioni sociali: l’esistenza di un apparato che garantisca,
attraverso il monopolio della violenza, le norme regolatrici della vita comune
diventa a questo punto inutile; lo Stato scompare nella società civile capace
finalmente di autogestirsi secondo le regole la cui validità si fonda sul loro
semplice riconoscimento.
L’articolazione
determinata dal nesso che lega essere sociale e coscienza, fino a
mostrare che la determinazione economico-sociale si può far valere solo una
volta che venga sintetizzata culturalmente e diventi, in questo modo, realmente
attiva e in grado di trasformarsi, è il centro della riflessione di Gramsci e
il suo contributo creativo al marxismo. Anzi, l’elaborazione di questo rapporto
in Gramsci supera alcune difficoltà e contraddizioni che rimangono irrisolte
nello stesso Marx: infatti, ogni tesi circa il «primato» dell’essere sociale
rimane pur sempre un’affermazione che attiene alla coscienza un’assunzione
culturale in «senso» stretto, un assunto teorico.
Gramsci è in ogni caso di fronte a interpretazioni
«marxiste» di Marx che irrigidiscono la distinzione fra essere sociale e
coscienza e, così facendo, dissolvono sul piano filosofico il nucleo più
fecondo dell’impostazione marxiana, l’unità storica e dialettica, e quindi
pratica, fra «essere e coscienza»: «Dall’unità dialettica si è ritornati da una
parte al materialismo filosofico, mentre l’alta cultura moderna idealista ha
cercato di incorporare ciò che della filosofia della prassi le era
indispensabile».
Gramsci
aveva scritto i suoi «Quaderni» dal ’29 al ’35, in carcere, lontano
dall’immediatezza dello scontro politico e, forse anche per questo,
intellettualmente più libero. D’altra parte i suoi dissensi con la linea
dominante nella «III Internazionale» lo rendevano «scomodo»
per tutti e lo relegavano nell’isolamento.
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