domenica 22 marzo 2015

ANTONIO GRAMSCI


Un contributo originale all’elaborazione del marxismo venne fornito da Antonio Gramsci, che fu tra i fondatori del Partito Comunista Italiano. Le sue analisi sulla complessità del rapporto tra la struttura economica e la sovrastruttura politica e ideale, l’insistenza sulla necessità di conquistare un’«egemonia» (primato, supremazia) etico-culturale prima ancora che politica, il rifiuto di ogni interpretazione meccanicistica (Vedi Post marzo 2013 Gli artefici della concezione meccanicistica del mondo)  e sociologistica dello sviluppo storico in generale e dello stesso marxismo rappresentano altrettante indicazioni importanti non solo sul piano teorico, ma anche dal punto di vista della strategia rivoluzionaria più idonea alle condizioni di una società capitalistica avanzata.

L'«egemonia culturale» è un concetto che indica le varie forme di «dominio» culturale e/o di «direzione intellettuale e morale» da parte di un gruppo o di una classe che sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo. L'analisi dell'«egemonia culturale», anche in quanto distinta dal mero dominio, è stata formulata per la prima volta da Antonio Gramsci per spiegare perché le rivoluzioni comuniste predette da Carlo Marx nei paesi industrializzati non si fossero verificate. 

Marx e i suoi discepoli avevano in effetti affermato che il capitalismo industriale avrebbe generato una gigantesca classe operaia e cicliche recessioni economiche che aggiunte alle altre contraddizioni del sistema capitalistico avrebbero portato la stragrande maggioranza della popolazione, i lavoratori, a sviluppare delle organizzazioni per difendere i loro interessi e cioè «sindacati» e «partiti politici riformisti». L'inevitabile successione delle crisi economiche avrebbe quindi trascinato la classe operaia organizzata ad abbattere il capitalismo con una rivoluzione, a rifondare le istituzioni economiche, politiche e sociali sulla base del socialismo scientifico e a cominciare la transizione verso una società comunista. In termini marxisti il cambiamento radicale delle strutture economiche implicava una trasformazione delle sovrastrutture culturali e politiche. 

Se finora non era avvenuto quanto teorizzato scientificamente dalla dialettica marxista, secondo Gramsci questo era dovuto all'incontrastata preponderanza della cultura borghese su quella proletaria. In altri termini le rappresentazioni culturali della classe dirigente, cioè l'ideologia dominante, avevano influito più di quanto Marx avrebbe potuto pensare sulle masse lavoratrici. Nelle società industriali avanzate gli strumenti culturali egemonici come la scuola obbligatoria, i mezzi di comunicazione di massa avevano inculcato una «falsa coscienza» ai lavoratori. 

Invece di fare una rivoluzione che servisse a soddisfare i loro bisogni collettivi i lavoratori delle società industriali facevano propria l'ideologia borghese dominante cedendo alle sirene del nazionalismo, del consumismo e della competizione sociale abbracciando un'etica individualista egoistica oppure schierandosi tra le file dei capi religiosi borghesi. Era arrivato il tempo di abbattere l'«egemonia culturale» borghese e questo era il compito degli intellettuali.  

E’ un «leninista» dichiarato come Gramsci a costruire una risposta teorica diversa al problema della coscienza rivoluzionaria. Gramsci pensava che fosse essenziale, in campo marxista, liberarsi da ogni traccia di interpretazione determinista e di materialismo volgare: in queste concezioni vedeva le radici filosofiche dell’inerzia e del comportamento subalterno alla borghesia che caratterizzavano la «II Internazionale». Senza il superamento di queste scorie il diffondersi di una consapevolezza rivoluzionaria sarebbe stato impensabile. Proprio perché questa è la linea discriminante tracciata, Gramsci si sente dalla stessa parte di Lenin. Le sue tesi tuttavia vanno oltre l’orientamento di Lenin, e spesso in altra direzione. Per certi versi rappresentano una riformulazione diversa e creativa dello stesso pensiero di Marx (Vedi Post Novembre 2013 Karl Marx )

Riflettendo sulle difficoltà e sulle specificità della rivoluzione in Occidente rispetto alla rivoluzione in Russia, Gramsci pone al centro di una nuova strategia la conquista dell’«egemonia» come «riforma intellettuale e morale», come direzione culturale e costruzione di un «senso comune» impregnato della «concezione del mondo» del proletariato rivoluzionario. 

Per Gramsci la conquista dell’«egemonia» è il momento centrale; la conquista del potere politico, la forza e il comando, è un momento subordinato. Per Lenin, invece, il comando è decisivo, l’«egemonia» segue. 

Gramsci, quindi, vede la necessità di far precedere, per rendere possibile la rivoluzione in Occidente, la conquista dell’«egemonia» a quella del dominio. In Russia era avvenuto il contrario. Il progetto comunista in condizioni di avanzato sviluppo capitalistico viene così a distinguersi dal «modello leninista», valido in paesi relativamente arretrati. L’azione volta a produrre una trasformazione culturale acquista perciò in Gramsci un peso decisivo: il «blocco storico» delle forze anticapitalistiche si costruisce attorno alla fusione degli aspetti economico-sociali con gli aspetti etico-politici. 

Il ruolo guida che l’egemonia assume sull’esercizio della forza sta anche alla radice del pensiero gramsciano sulla transizione dalla dittatura del proletariato al comunismo attraverso l’estinzione dello Stato. Sarà proprio l’estendersi e l’approfondirsi dell’egemonia, del consenso, a ridurre e, progressivamente, a riassorbire e rendere inutile la «società politica», lo strumento della forza. 

Compare qui il termine di «società regolata» per designare il comunismo, la società senza Stato: una espressione felice che stringe immediatamente, in un solo nesso, per un verso la società capitalistica e la forma valore come assenza di coscienza e di controllo sociale, e per l’altro la funzione egemonica del proletariato come sviluppo di una cultura e di un’etica capaci di autoregolare le relazioni sociali: l’esistenza di un apparato che garantisca, attraverso il monopolio della violenza, le norme regolatrici della vita comune diventa a questo punto inutile; lo Stato scompare nella società civile capace finalmente di autogestirsi secondo le regole la cui validità si fonda sul loro semplice riconoscimento. 

L’articolazione determinata dal nesso che lega essere sociale e coscienza, fino a mostrare che la determinazione economico-sociale si può far valere solo una volta che venga sintetizzata culturalmente e diventi, in questo modo, realmente attiva e in grado di trasformarsi, è il centro della riflessione di Gramsci e il suo contributo creativo al marxismo. Anzi, l’elaborazione di questo rapporto in Gramsci supera alcune difficoltà e contraddizioni che rimangono irrisolte nello stesso Marx: infatti, ogni tesi circa il «primato» dell’essere sociale rimane pur sempre un’affermazione che attiene alla coscienza un’assunzione culturale in «senso» stretto, un assunto teorico. 

Gramsci è in ogni caso di fronte a interpretazioni «marxiste» di Marx che irrigidiscono la distinzione fra essere sociale e coscienza e, così facendo, dissolvono sul piano filosofico il nucleo più fecondo dell’impostazione marxiana, l’unità storica e dialettica, e quindi pratica, fra «essere e coscienza»: «Dall’unità dialettica si è ritornati da una parte al materialismo filosofico, mentre l’alta cultura moderna idealista ha cercato di incorporare ciò che della filosofia della prassi le era indispensabile». 

Gramsci aveva scritto i suoi «Quaderni» dal ’29 al ’35, in carcere, lontano dall’immediatezza dello scontro politico e, forse anche per questo, intellettualmente più libero. D’altra parte i suoi dissensi con la linea dominante nella «III Internazionale» lo rendevano «scomodo» per tutti e lo relegavano nell’isolamento. 

     

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