domenica 1 marzo 2015

GIACOMO LEOPARDI


Che Leopardi sia poeta nessuno l’ha messo in discussione. Che sia anche filosofo, invece, è stato oggetto di acceso dibattito. Alla base c’è il fatto che egli ha scritto di filosofia e, per così dire, da filosofo: sullo «Zibaldone» troviamo tanti e tali pensieri sull’anima, la metafisica, la religione, la società, la natura, la morale, e via dicendo, che l’opera, ancorché disorganica e non sistematica, ben potrebbe configurarsi come «trattato filosofico». Né si può dire che manchi a Leopardi lo stile filosofico, perché alcune sue pagine, specie quelle relative alla «teoria del piacere», sono di tale rigore e oggettività che sembrano stilate dalla penna di un Locke o di un suo seguace.

Ma non tutti i critici sono d’accordo su questo punto. Il vecchio filone della cultura laicista italiana, da De Sanctis a Croce, nega la filosofia di Leopardi, ritenendola scarsamente significativa, non originale né profonda.


Punto di partenza della speculazione leopardiana, volta a tentare di chiarire il «senso» della vita, è il disagio «esistenziale» dell’autore, ovvero la sua infelicità fisica e psicologica. Tale disagio è all’origine di un «pessimismo» di tipo «esistenziale», le cui caratteristiche si possono compendiare, riassumere come segue: precoce venir meno delle illusioni e dei sogni infantili, sfiducia nella vita, sentimento (non ancora razionalizzato) di desolazione e di delusione, insofferenza verso i condizionamenti, sensazione di inutilità e di soffocamento. 

Tutta la storia del genere umano è la storia della lotta tra la «felicità e il vero», tra «l’illusione e la realtà», tra la «vita e il sogno». La realtà è banale e cattiva, vere sono solo le illusioni, ossia le speranze, di cui l’umanità si nutre e che non può abbandonare senza cadere nella disperazione. «Larve» definisce Leopardi le illusioni in cui l’uomo crede nella sua età giovanile, ovvero in quel «sabato del villaggio» che precede il giorno più noioso che è il giorno della «festa di sua vita»; sono le illusioni che impediscono di scorgere la tragedia del vivere.

Il Pensiero di Leopardi mostra che nell'età della «Tecnica» può sopravvivere soltanto l' «Unità» di «Poesia e Filosofia». Separate, esse sono destinate alla Morte. E, questa «Unità», un'opera totalmente nuova, una virtù  inaudita, è il pensiero di Leopardi a portarla per la prima volta alla luce. Perché l' «Unità» di «Sapienza filosofica e Poesia» e', sì, già presente nell'età dei Greci, il pensiero poetante di Eschilo ne e' la suprema espressione, ma nell'età dei Greci la Filosofia e' la convinzione illusoria che l' Essenza delle cose sia eternamente salva dal «Nulla».

In Eschilo (e, in forme diverse, nel linguaggio di Platone) la grandezza della Poesia proviene dalla grandezza di ciò che essa esprime e che essa vede come vera grandezza; la grandezza della Poesia e' un profumo del terreno che dalla Poesia e' cantato; un profumo di ciò che Platone chiama la «Pianura della Verità». La Poesia di Eschilo consola, perché canta il terreno fertile e consolante della «Potenza» sacrifica e infinita di Zeus, che appare nella vera Sapienza, al culmine della Sapienza, dice l'Inno a Zeus di Eschilo: canta il mondo nel suo essere circondato dalla protezione dalla giustizia divina. 

Leopardi scorge invece che nell'«Unione» di «Poesia e Filosofia», nell'opera del genio, la grandezza della Poesia non può più provenire da ciò che e' cantato dalla Poesia. Unita alla Filosofia, infatti, la Poesia non può più avere come contenuto l' «Infinito»: il suo contenuto può essere soltanto il «Deserto», il luogo dell'annientamento di ogni cosa; il luogo, mostrato dalla Filosofia, dove il «Nulla» e' il principio di tutte le cose. In questa «Unione» con la Filosofia, il profumo della Poesia si leva, allora, nonostante il terreno da cui essa fiorisce e in cui ha le proprie radici. Nonostante il «Deserto».

La Poesia non riceve dal proprio terreno il potere di consolare, perché' il suo terreno e' il «Deserto»; ma e' essa a consolare il «Deserto»; essa, che, dunque, e' il fiore del «Deserto». Unita alla Filosofia, la Poesia non può più avere come contenuto l' «Infinito», che non e' «Verità», ma «Illusione». Il contenuto della Poesia, ormai, e' il «Deserto del Nulla», l' Annientamento, la Nullità e l' Infelicità del tutto. 

Ma se l' «Infinito» esce dal contenuto della Poesia, l' «Infinito» permane nella forma o come forma del canto. Nell' «Unione» di «Poesia e Filosofia», l' «Infinito» e' la grandezza e la potenza stessa della Poesia, il suo Profumo, che consolando il «Deserto» riesce a levarsi al cielo, cioè a sollevarsi al di sopra del «Nulla», portando con sé verso l'alto, con Vero Amor, per un poco,  prima di ricadere, gli abitatori del «Deserto». Il potente ardire e la grandezza del canto, la sua capacità di sollevare l' uomo dall'Angoscia e dal Dolore, questo e' l' unico «Infinito» che può appartenere alla Poesia dell'età della «Tecnica». 

L' «Infinito» della forma poetica e' la grandezza e potenza ardita del canto che, pur cantando il «Nulla», riesce a consolare il «Deserto» dell'uomo. In questa trasformazione del «Senso» della Poesia, il canto intitolato L' «Infinito» viene a trovarsi rivolto al canto stesso, a se stesso. Certo, Leopardi non lo scrive e nemmeno lo riscrive in questo «Senso»; ma ormai esso, da poesia dell' «Infinito», e' diventato Poesia della Poesia, Poesia di quell' «Infinito» che e' la Poesia stessa. Nella misura in cui il canto L' «Infinito» si conserva all'interno del nuovo «Senso» che Leopardi conferisce alla Poesia, esso può farsi leggere anche in un modo nuovo, dove gli interminati spazi appartengono alla grandezza della Poesia e sono tratti della Poesia stessa e non del suo oggetto; e così sono tratti dello sguardo o dell' occhio della Poesia, e non di ciò che essa guarda, I Sovraumani Silenzi, la Profondissima Quiete, l' Infinito Silenzio, l'Eterno, l'Immensità  del Mare in cui e' dolce, per il Pensiero, Naufragare. 

In questa possibile trascrizione, rispetto alla voce della parola impoetica il canto della Poesia e' «Quiete e Silenzio». Il canto consola non perché il cantore veda dinanzi a sé, come «Verità», la salvezza dal «Nulla», ma perché avverte la potenza viva e la viva e ardita grandezza con cui egli canta la «Morte», ossia l' Impossibilità della Salvezza. Questa Poesia della Poesia, la cui trascrizione, qui, può sembrare artificiosa, prende anche forma reale, ad esempio in una Poesia in prosa che e' uno dei pensieri più alti e decisivi dello «Zibaldone», scritto il 5 ottobre 1820, e che parla della poesia del «genio», cioè dell' «Unità» di «Poesia e Filosofia» nell'opera del «genio»: Hanno questo di proprio le «opere di genio», che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l' inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un'anima grande servono sempre di consolazione, riaccendono l' entusiasmo e non trattando ne' rappresentando altro che la «Morte», le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta. 

Se il Sentimento del «Nulla» e' Vivo, come appunto nell'opera del «genio», l'«anima» riceve vita (se non altro passeggera) dalla stessa forza con cui sente la «Morte» perpetua delle cose, e sua propria. L' innalzarsi dell'«anima», di cui parla questo testo, e' la consolazione del «Deserto», prodotta dal profumo della ginestra. Pur vedendo il «Deserto», la ginestra consola chi lo abita. Il fiore del «Deserto» e' il «genio», cioè quell' «Unità» di «Poesia e Filosofia» a cui così potentemente si rivolge il Pensiero di Leopardi. 

Tutti avevano capito che Leopardi era un «genio»: lo sapeva molto bene Nietzsche, lo sapeva Schopenhauer, lo sapeva anche Wagner; e certamente, per quanto riguarda la cultura italiana, De Sanctis se n’era ampiamente accorto, e si era accorto anche dell’importanza filosofica di Leopardi. E la rivalutazione alla quale è andato incontro il pensiero filosofico di Leopardi negli ultimi tempi è consistente. Però siamo ancora lontani dal comprendere la potenza eccezionale di questo pensatore, tanto radicale da poter far sostenere legittimamente la tesi che si tratta del maggiore pensatore della filosofia contemporanea. Cioè di colui che in modo anticipato e radicale pone le basi della distruzione della tradizione occidentale, quella distruzione che poi sarà sviluppata, ma non resa più radicale, dai grandi pensatori del nostro tempo: da Nietzsche, a Wittgenstein, a Heidegger.



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