giovedì 5 febbraio 2015

KANT


Con Kant, la Filosofia moderna compie una svolta radicale, mostrando che le cose in se stesse, esterne e indipendenti dalla conoscenza umana, non possono essere conosciute. Kant sostiene in maniera inequivocabile che le leggi che regolano il mondo sono interamente prodotte dallo «Spirito Umano»: l’uomo può conoscere la «natura», oggetto d’esperienza che si realizza conformemente alle leggi della conoscenza, proprio e soltanto perché la produce. 
Per garantire l’esistenza di un sapere «universale e necessario», un sapere a «priori», Kant ribalta la prospettiva tradizionale, paragonando questo suo rovesciamento di impostazione alla rivoluzione di Copernico che, rispetto alla concezione astronomica tolemaica, inverte il rapporto tra il «movimento della terra» e quello degli «astri del cielo». Se fino a kant la conoscenza, per aver valore, doveva adeguarsi, conformarsi o regolarsi comunque sugli «oggetti», con il filosofo tedesco, al contrario, sono gli «oggetti dell’esperienza» – e non le cose in sé – a doversi regolare sulla natura della conoscenza umana. Con l’uscita della «Critica della Ragion Pura» (1781) Kant poteva considerare concluso il compito originario della Filosofia critica, di fondare la «Metafisica», cioè (nel significato che Kant dà alla parola) la possibilità di conoscere qualcosa della realtà senza ricorrere all’esperienza (conoscenza a «priori»). 
La «Critica della Ragion Pratica» (1788) – a cui Kant fece precedere un’introduzione più elementare, intitolata «Fondazione della Metafisica dei costumi» (1785) – batte una via tutta diversa dalla via psicologica, per fondare l’«Etica della Libertà». Essa non presume che nell’esperienza di sé l’uomo trovi alcun fatto che gli faccia sapere d’essere libero. Ma afferma che l’uomo trova in sé un «fatto» che gli impone il «dovere» di reputarsi libero, anche se teoreticamente non sa affatto se sia libero o no. Questo «fatto» è la «Legge Morale», presente alla nostra coscienza come un «Imperativo», cioè come un comando. Tale comando riguarda unicamente il «principio» secondo cui l’uomo deve determinare la propria volontà, senza dirgli nulla dei modi in cui tale determinazione possa aver luogo. 
L’uomo sa solo di dover obbedire alla «Legge Morale»; e, se lo deve, tale obbedienza deve anche essere possibile («devi, dunque puoi»); ma noi non sappiamo come, perché tutte le possibilità che conosciamo le conosciamo come determinate, a partire da cause naturali. Quel dato di fatto che è il «dovere» non va confuso, dunque, con un «fatto empirico», e perciò Kant lo chiama «fatto (factum) della Ragione». «fatto» nel senso che è un «immediato», non qualcosa che si ricavi da altro. Ma non allineabile con i fatti naturali, perché i fatti empirici ci sono dati nel contesto della natura, sempre condizionata, mentre l’«Imperativo» morale ci è dato come un «assoluto incondizionato». Appunto perciò ci è dato da quella «facoltà dell’incondizionato» che è la «Ragione». «Quanto più una Ragione e' coltivata e dedicata a cercare il godimento e la felicità della vita, tanto più l' uomo si scosta dalla vera contentezza» che «Potrebbe perfino essere ridotta a un nulla». 
Si fa innanzi, in questo discorso, uno dei tratti decisivi della storia del pensiero filosofico, fino a Kant, e anche dopo di lui, nell'idealismo classico tedesco . Il filone centrale della tradizione filosofica pensa proprio che soltanto la «Ragione» possa rendere l'uomo veramente felice e che, in questo suo compito, essa non sia affatto temeraria, ma lungimirante e salvifica. 
E vero che il giovane Rousseau aveva scritto che la «Natura ha voluto preservare i popoli dalla Scienza come una madre strappa un'arma pericolosa dalle mani del figlio»; ma per lui Scienza e Arti non sono la «Ragione» naturale dell'uomo, ma la sua degenerazione, sì che, anche per Rousseau, la felicità pubblica e individuale non può essere prodotta che dal retto uso della «Ragione». Al contrario, e' proprio all'uso più alto, retto e illuminato della «Ragione» che Kant si riferisce quando afferma che la «Ragione» e' responsabile dell'infelicità dell'uomo. Nel suo uso più alto, infatti, la «Ragione» e' la «Coscienza Morale», che comanda all'uomo di liberarsi da ogni impulso verso il godimento e da ogni istinto che pone il piacere e la felicità al di sopra di tutto. 
Per il pensiero metafisico, la «Ragione» indica il fine, raggiungendo il quale l' uomo può essere felice; e indica anche i mezzi per raggiungerlo. Ma Kant mostra l' impossibilità della «Ragione» metafisica; e deve quindi negare che il compito supremo della «Ragione» sia di dare all'uomo la felicità . Eppure Kant non e' Nietzsche, ossia e' ben lontano dal pensare che l'errore, cioè la «Non Ragione» e la «Non Verità», rendano sopportabile la vita. 
Un grande tema, questo, che prima di Nietzsche era stato potentemente sviluppato da Leopardi. Pur rifiutando la «Ragione» metafisica, Kant continua infatti ad appartenere alla tradizione filosofica, cioè crede nel carattere primario della «Ragione», perché se la «Ragione» non ha, per lui, lo scopo di rendere l' uomo felice, lo può però portare così in alto da renderlo «Degno» della vera felicità . Kant sostiene che lo scopo della «Ragione» e' di produrre nell'uomo una «Volontà» che sia buona per se stessa, e non come e' «Buono» un mezzo capace di far ottenere qualcosa di diverso da esso. Una «Volontà Buona» come lo e' la «Buona Volontà» evangelica. 
Per l' uomo di «Buona Volontà», che in cima ai suoi pensieri non ha di mira nemmeno la ricompensa ultraterrena, e' però preparato il regno dei cieli. Sia pure lungo un percorso differente da quello metafisico, anche per Kant la «Ragione» continua ad essere la fonte che se non da' la felicità, le apre però il varco. 
Per Kant le facoltà universitarie volte alla salute dell' anima (Teologia), della società (Giurisprudenza) e del corpo (Medicina) hanno l' obbligo di conformare il contenuto del loro insegnamento alle direttive del Governo, che mirano alla salute del popolo. Invece la facoltà di «Filosofia» ha come scopo e come metodo la «Verità» e l' esercizio della «Ragione» e quindi e' assolutamente «Libera»: nessuna dottrina può esserle imposta dal governo, sebbene non possa svolgere in pubblico la propria critica in nome della «Verità». 
Porre la Solidarietà come «fine» e l' Efficienza come «mezzo» e' cosa del tutto diversa dal porre come «fine» l' Efficienza e come «mezzo» la Solidarietà . Il mezzo e' inevitabilmente subordinato al fine. Se il fine e' l' «Eguaglianza», la «Libertà», come mezzo, e' subordinata all'«Eguaglianza». I mezzi, in genere, sono logorabili e sostituibili. E non e' così facile mostrare che la «Libertà» non sia un mezzo logorabile e sostituibile. 
Per Kant, la «Libertà» non può mai essere un mezzo. Come fine la «Libertà» non e' senza limiti, ma e' la massima «Libertà» compatibile con la «Libertà» altrui. Per Kant, la «Libertà» richiede l' «Eguaglianza» di fronte alla legge, che stabilisce i limiti della «Libertà» di ciascuno; ma l' «Eguaglianza» non e' il fine della società . Entro certi limiti, e' una condizione senza la quale il fine non potrebbe realizzarsi; ma non vale incondizionatamente. Purché la «Libertà» sia, l' «Eguaglianza» può subire drastiche riduzioni. Ma non e' lecito dire che, purché l' «Eguaglianza» sia, la «Libertà» possa essere violata. Kant afferma infatti che l' «Eguaglianza» degli uomini di fronte alla legge, e tale «Eguaglianza» e' la «Libertà» stessa , può perfettamente coesistere con la massima diseguaglianza nella quantità e nel grado del loro possesso, sia che si tratti di superiorità fisica o spirituale degli uni rispetto agli altri, sia che si tratti di diseguaglianza esteriore di beni di fortuna. 
Ci può essere «Libertà» anche là dove regna la diseguaglianza più profonda tra ricchi e poveri. Le due cose possono, per Kant, perfettamente coesistere. Se la «Libertà» e' il fine, l' «Eguaglianza» deve essere subordinata ad essa e limitata. Ponendo invece come fine l' «Eguaglianza» e la «Libertà» come mezzo, come fa la «Sinistra», rimane da dire fino a che punto possono perfettamente coesistere l' «Eguaglianza» tra gli uomini e quella quantità di non «Libertà» che non distrugge la Democrazia. 
Giacché e' inevitabile che, ponendo come fine l' «Eguaglianza», la «Libertà» come mezzo sia destinata ad essere subordinata e limitata. Fino a che punto una società democratica può limitare, in nome dell' «Eguaglianza», la «Libertà»? Comunque si risponda, non ci si illuda di poter salvaguardare nella stessa misura «Eguaglianza e Libertà». 


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