Trovarsi in un Paradiso religioso, tecnologico o d' altro tipo , e vivere con
il terrore di perderlo, vuol dire trovarsi in un Inferno. Quel timore e' vinto
solo se il Paradiso e' innanzitutto vivere nella «Verità» , e nella «Verità»
appaia che il luogo dove ci si trova e' un vero Paradiso e la «Felicità»
provata e' vera «Felicità» .
Sin
dagli inizi il Cristianesimo
pensa, potentemente, il legame che unisce la «Felicità» alla «Verità» . Ed e'
dalla Filosofia Greca che il Cristianesimo attinge il significato stesso della
parola «Verità »: «Verità» e' ciò che non può essere in alcun modo smentito. Il
Paradiso cristiano e' innanzitutto la vita felice nella «Verità» così intesa.
La «Verità» , con cui l' uomo e' già in rapporto nella vita presente, si
dispiega in modo compiuto nella vita futura. Questo modo di pensare si
manifesta, con grande splendore, nel «Proslogion» di Anselmo di Aosta, Santo
per la Chiesa e massimo filosofo per i filosofi, che da Cartesio a Leibniz, da
Kant a Hegel hanno meditato a lungo sul suo «Argumentum», il cosiddetto
«Argomento Ontologico».
Nove secoli
fa egli l' aveva intensamente ricercato : «Un unico argomento , scrive nel “Proemio” , che per mostrarsi probante non
avesse bisogno di nient' altro che di se stesso e che da solo fosse capace di
sostenere che Dio esiste veramente».
Un pensiero capace di mostrare da solo che l' affermazione dell'esistenza di
Dio e' «Verità»! Da solo, cioè senza farsi aiutare nemmeno dalla «Fede
cristiana».
Da vero filosofo, Anselmo
dice addirittura che anche se egli non volesse più credere nell'esistenza
di Dio, trasgredendo così quanto gli impone la «Fede cristiana», questo «Argomento» dimostrerebbe egualmente l'
impossibilità di negare tale esistenza. L'
«Argomento» non ha lo scopo di far nascere la «Fede»: Anselmo crede, ha «Fede».
Ma la «Fede» non gli basta; anche se e' la «Fede» stessa ad esigere un sapere
superiore, capace di «Leggere dentro» (intelligere) le pieghe delle cose , a
differenza della «Fede», che non legge dentro le cose ultime, ma le mostra «Attraverso
uno specchio, in enigma», come dice l' Apostolo. L' «Argomento» ha bisogno solo
di sé , non della «Fede». Ma la «Fede» e' il terreno in cui ci si deve
inizialmente trovare, proprio per potersi sollevare al di sopra di esso. «Non cerco infatti di intendere allo scopo di Credere;
ma Credo allo scopo di intendere».
Dio e' presente a chi crede,
ma Anselmo gli dice: «Io cerco il tuo volto», che rimane «Luce inaccessibile». Con la pura
audacia del filosofo, prega il Dio in cui crede di fargli vedere la sua «Luce»
«Anche da lontano o dal profondo». E l' «Argomento» unico e potentissimo, vera
turris eburnea e janua coeli, gli si fa incontro con «Certa verità e vera
certezza». Sì , non appena scoperto incomincia la delusione. «Hai forse trovato, «Anima» mia, quel che cercavi?». Con l' «Argomento» vero e certo la sua «Anima» sa
che Dio esiste; eppure: «Come mai non senti ciò
che hai trovato?».
Solo nella vita futura del Paradiso la fame può essere saziata.
Ma il gaudio in cui entreranno i beati non sarà più la semplice «Fede», ma la
«Piena conoscenza» di Dio, che si manifesterà ai loro occhi in tutta la sua
ricchezza ora inaccessibile, ma con la «Verità» con cui, qui sulla terra, l'
«Unico argomento» ha mostrato l' esistenza di Dio. E i beati avranno la «Vera
sicurezza» (vera securitas) che la loro «Felicità» non verrà mai meno (numquam
et nullatenus). «Godranno tanto quanto ameranno, e ameranno tanto quanto
conosceranno». Ma cosa dice, dunque, l' «Argomento»?
Nel "Proslogion" Dio viene dimostrato a «Priori», ossia con un ragionamento che
prescinde dal riferimento all’esperienza. Nel "Proslogion" si prende inizio,
infatti, dalla nozione di Dio che possiede anche chi lo «Nega». Secondo Anselmo, l’insipiens (il non
sapiente, lo stolto) dice «non c’è Dio». Ma l’insipiens, per poter negare l’esistenza di Dio, deve avere una qualche idea di Dio
nel suo intelletto, cioè deve dare un significato alla parola Dio. Chi «Nega»
Dio intende con tale parola almeno questo: che egli e' «Ciò di cui niente può essere pensato più grande» (id quo maius cogitari nequit). Negandolo ne ammette
l’ esistenza nella sua «Mente». Ma «Ciò di cui niente può essere pensato più
grande» «Deve Esistere Realmente». Infatti, se non esistesse Realmente, non
sarebbe «Ciò di cui niente può essere pensato più grande», appunto perché
almeno mancherebbe di tale esistenza. Ma se Dio esistesse solo nella nostra «Mente», e non in «Realtà»
, lo si potrebbe pensare Reale; ma in questo modo avremmo pensato qualcosa di «Maggiore»
di «Ciò di cui niente può essere pensato più grande».
Ammettiamo dunque che
«Ciò di cui niente può essere pensato più grande» esista nel solo «Intelletto»,
e non nella «Realtà»; ma se è dunque nel solo «Intelletto», si può almeno pensare
che esista anche nella «Realtà», il che sarebbe «Maggiore» di quello che non
poteva essere «Minore» di nient'altro: vi aggiungeremmo infatti la fondamentale
caratteristica della «Reale esistenza». Ne seguirebbe un «paradosso»: qualcosa
sarebbe «Maggiore del più Grande». A
questo punto, chi «Nega» ancora che a un tale concetto dell'«Intelletto»
corrisponda una «Realtà», necessariamente si contraddice, perché solo
attribuendogli l'esistenza riusciremmo a pensarlo davvero come «il più
grande». Ciò che esiste nella «Realtà», secondo Anselmo, ha più valore di ciò
che esiste nel solo «Intelletto», secondo la concezione tipicamente «Platonica» che identificava il «Bene» con l'«Essere».
L'albero esiste nella «Realtà»
e quindi anche nell'«Intelletto», mentre non tutto quel che esiste nella «Mente»
esiste anche nella «Realtà» (ad esempio un cavallo alato). Ma non si può
concepire Dio come il massimo delle qualità senza attribuirgli una «Reale Esistenza»,
poiché anche l'«Esistenza» è una qualità.
Dio dunque «necessariamente» esiste
non solo come qualcosa di pensato, (nella nostra Mente), ma... anche come
qualcosa di «Reale»
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