Nato attorno alla metà del VII secolo a.C. nel villaggio di Anatot,
presso Gerusalemme, Geremia (nome dal significato incerto) è stato chiamato,
contro la sua volontà e la sua natura di uomo sensibile, a una missione
profetica durissima, quella di essere l’annunziatore e il testimone della
rovina di Gerusalemme e del regno davidico di Giuda, rovina consumatasi nel 586
a.C. sotto l’incombere delle armate babilonesi. La vicenda personale del
profeta è testimoniata da una specie di diario intimo, che gli studiosi amano
chiamare “le Confessioni” di Geremia, distribuito nei capitoli 10-20 del suo
libro, l’opera più lunga dell’Antico Testamento.
Anche il fedele segretario Baruc lascerà in questo libro pagine biografiche sull’amara sorte del suo
maestro, inviato dal Signore ad annunziare la fine a un popolo che si cullava
nelle illusioni nazionalistiche, che praticava una religiosità arida, che era
governato da sovrani indegni. Certi oracoli del profeta sono veementi, spesso
rivelano la sua sofferenza e la contraddizione della sua missione, che è di
giudizio e di condanna, mentre egli vorrebbe che fosse di conversione e di
salvezza.
Il libro, che è giunto a noi in una forma notevolmente diversa nell’antica versione greca detta dei
“Settanta” rispetto all’originale ebraico che possediamo, si può dividere in
quattro grandi parti. Nei capitoli 1-25 si hanno oracoli profetici molto severi
contro Giuda e Gerusalemme.
Nei capitoli 26-35,
quando ormai la tragedia si sta per compiere e non c'è più scampo, il profeta
muta completamente registro e annunzia un futuro di speranza e di liberazione
per Israele, il regno settentrionale già caduto da un secolo e mezzo, e per
Giuda.
Nei capitoli 36-45 sono
raccolte alcune narrazioni di Baruc sulle vicende tormentate di Geremia, in
particolare nei confronti dei re del tempo e della drammatica fuga finale in
Egitto su costrizione dei ribelli ebrei al governo babilonese. I capitoli
finali 46-51 sono, invece, dedicati alle nazioni circostanti, soprattutto a
Babilonia, “martello” nella mano del Signore. La ricchezza di queste quattro
parti si rivelerà solo nella loro lettura diretta. Noi ora ci limitiamo a
ricordare l’annunzio della «nuova alleanza» nel cuore e nello Spirito divino
che il profeta proclamerà (31,31-34) e che sarà raccolto dal cristianesimo come
l’eredità spirituale più preziosa di Geremia (Luca 22,20; Ebrei 8,8-12).
Nota Finale
Nessun altro profeta dell’Antico Testamento ha lasciato nei suoi scritti tanti
dati autobiografici quanto Geremia. Scelto da Dio per la missione profetica nel
626 a.C., Geremia chiama il suo popolo al risveglio morale e all’abbandono
dell’idolatria, perché la giustizia divina non si abbatta su di esso. La sua
predicazione gli attira l’ostilità della classe dirigente ebraica, che lo fa
imprigionare. Alla caduta di Gerusalemme (586 a.C.), Geremia non viene condotto
in esilio a Babilonia poiché ha consigliato di cedere senza resistenza
all’avanzata babilonese, considerata lo strumento del castigo divino. Ma poco più
tardi, quando un gruppo di cospiratori uccide il governatore Godolia, imposto
dai Babilonesi, il profeta è costretto a riparare in Egitto, dove muore.
Dopo la sua morte, le sue profezie vengono raccolte dal
segretario Baruc. Sebbene viva le ore più tragiche della storia ebraica e sia
amareggiato dall’insensibilità dei suoi compatrioti, Geremia conosce anche
parole di speranza, protese verso un orizzonte di luce e di restaurazione. Uno
dei momenti più alti del suo insegnamento profetico, infatti, è la promessa che
Dio stringerà una “nuova alleanza” con il suo popolo, promessa realizzata da
Gesù durante l’ultima cena, quando offre il suo sangue come suggello della
“nuova alleanza” annunziata da Geremia.
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