sabato 14 luglio 2018

GEREMIA



Nato attorno alla metà del VII secolo a.C. nel villaggio di Anatot, presso Gerusalemme, Geremia (nome dal significato incerto) è stato chiamato, contro la sua volontà e la sua natura di uomo sensibile, a una missione profetica durissima, quella di essere l’annunziatore e il testimone della rovina di Gerusalemme e del regno davidico di Giuda, rovina consumatasi nel 586 a.C. sotto l’incombere delle armate babilonesi. La vicenda personale del profeta è testimoniata da una specie di diario intimo, che gli studiosi amano chiamare “le Confessioni” di Geremia, distribuito nei capitoli 10-20 del suo libro, l’opera più lunga dell’Antico Testamento.

Anche il fedele segretario Baruc lascerà in questo libro pagine biografiche sull’amara sorte del suo maestro, inviato dal Signore ad annunziare la fine a un popolo che si cullava nelle illusioni nazionalistiche, che praticava una religiosità arida, che era governato da sovrani indegni. Certi oracoli del profeta sono veementi, spesso rivelano la sua sofferenza e la contraddizione della sua missione, che è di giudizio e di condanna, mentre egli vorrebbe che fosse di conversione e di salvezza.

Il libro, che è giunto a noi in una forma notevolmente diversa nell’antica versione greca detta dei “Settanta” rispetto all’originale ebraico che possediamo, si può dividere in quattro grandi parti. Nei capitoli 1-25 si hanno oracoli profetici molto severi contro Giuda e Gerusalemme.
Nei capitoli 26-35, quando ormai la tragedia si sta per compiere e non c'è più scampo, il profeta muta completamente registro e annunzia un futuro di speranza e di liberazione per Israele, il regno settentrionale già caduto da un secolo e mezzo, e per Giuda.

Nei capitoli 36-45 sono raccolte alcune narrazioni di Baruc sulle vicende tormentate di Geremia, in particolare nei confronti dei re del tempo e della drammatica fuga finale in Egitto su costrizione dei ribelli ebrei al governo babilonese. I capitoli finali 46-51 sono, invece, dedicati alle nazioni circostanti, soprattutto a Babilonia, “martello” nella mano del Signore. La ricchezza di queste quattro parti si rivelerà solo nella loro lettura diretta. Noi ora ci limitiamo a ricordare l’annunzio della «nuova alleanza» nel cuore e nello Spirito divino che il profeta proclamerà (31,31-34) e che sarà raccolto dal cristianesimo come l’eredità spirituale più preziosa di Geremia (Luca 22,20; Ebrei 8,8-12).

Nota Finale

Nessun altro profeta dell’Antico Testamento ha lasciato nei suoi scritti tanti dati autobiografici quanto Geremia. Scelto da Dio per la missione profetica nel 626 a.C., Geremia chiama il suo popolo al risveglio morale e all’abbandono dell’idolatria, perché la giustizia divina non si abbatta su di esso. La sua predicazione gli attira l’ostilità della classe dirigente ebraica, che lo fa imprigionare. Alla caduta di Gerusalemme (586 a.C.), Geremia non viene condotto in esilio a Babilonia poiché ha consigliato di cedere senza resistenza all’avanzata babilonese, considerata lo strumento del castigo divino. Ma poco più tardi, quando un gruppo di cospiratori uccide il governatore Godolia, imposto dai Babilonesi, il profeta è costretto a riparare in Egitto, dove muore.

Dopo la sua morte, le sue profezie vengono raccolte dal segretario Baruc. Sebbene viva le ore più tragiche della storia ebraica e sia amareggiato dall’insensibilità dei suoi compatrioti, Geremia conosce anche parole di speranza, protese verso un orizzonte di luce e di restaurazione. Uno dei momenti più alti del suo insegnamento profetico, infatti, è la promessa che Dio stringerà una “nuova alleanza” con il suo popolo, promessa realizzata da Gesù durante l’ultima cena, quando offre il suo sangue come suggello della “nuova alleanza” annunziata da Geremia.




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