sabato 6 gennaio 2018

INTRODUZIONE ALL’ANTICO TESTAMENTO


La parola “Bibbia” deriva dal greco «Biblía» “Libri”, ed esprime un dato indiscutibile. Pur essendo per il credente parola di Dio, essa è espressa attraverso tante voci diverse e tante mani di scrittori. Si tratta di 73 opere distribuite in due grandi settori, l’Antico e il Nuovo Testamento. Ora stiamo per aprire i 46 libri dell’Antico testamento e subito dobbiamo spiegare il significato di questa espressione.

Essa è la traduzione di un vocabolo greco (diathêkê), che a sua volta traduce un vocabolo ebraico (berît), e il cui senso è “alleanza, promessa, giuramento, testamento”. Come ci si accorgerà leggendo le prime pagine del primo e secondo libro della Bibbia, Genesi ed Esodo, la relazione che Dio stabilisce con il popolo d’Israele – e quindi con l’uomo – è un rapporto di alleanza, di impegno reciproco, è la rivelazione di un dono, è una specie di giuramento-testamento benefico di un padre nei confronti del figlio. Per questo la Bibbia, che descrive questa alleanza, è chiamata Testamento: “antico” in relazione alla prima alleanza con Israele, “nuovo” in relazione all’alleanza con Cristo e la Chiesa.

Il settore dell’Antico Testamento è come un territorio diviso in tre zone di diverso colore. Le divisioni sono leggermente diverse tra cristiani ed ebrei e tra cattolici e protestanti, nell’ambito dei cristiani. Vediamo di chiarire le distinzioni che sono, però, di secondo piano rispetto alla comune fede nella Bibbia.

Gli Ebrei dividono l’Antico Testamento, che per loro è ovviamente l’unica parte della Bibbia, in queste tre zone:
  • La «Torah» o “Legge”: sono i primi cinque libri della Bibbia, i più sacri, i più amati, chiamati dagli Ebrei con le prime parole con cui cominciano (“In principio” è la Genesi, “I nomi” è l’Esodo, ecc.) 
  • I Nebi’îm o “Profeti”. Si dividono a loro volta in due classi: i “Profeti anteriori” (sono i libri storici da Giosuè ai Re) è i “Profeti posteriori” (sono i profeti classici da isaia a Malachia). 
  • I Ketubîm o “Scritti” sono, invece, tutte le altre opere bibliche a tono “sapienziale” come Giobbe, i Salmi, il Cantico dei Cantici, ecc.     

I Cristiani, invece, usano seguire questa catalogazione in tre aree:
  • I libri storici, che abbracciano tutta la serie di libri che dalla “Legge” giunge sino alle ultime vicende di Israele descritte nella Bibbia. 
  • I libri profetici, che raccolgono gli scritti specifici dei profeti di Israele.
  • I libri sapienziali, che comprendono i grandi testi della meditazione di Israele sul senso della vita, sul mondo e su Dio come Giobbe e i Salmi. 

C’è poi una diversa estensione della Bibbia per cattolici e protestanti. I primi seguono un “canone”, cioè una definizione ufficiale dei libri biblici ispirati da Dio, più ampio, comprendente anche testi giunti a noi solo in greco e non in ebraico (cioè Giuditta, Tobia, 1 e 2 Maccabei, Siracide, Sapienza, Baruc). I protestanti, invece, seguono il “canone ebraico" e quindi hanno un Antico Testamento più breve, escludendo i sette libri giunti a noi in greco.

Prima di essere affidate allo scritto, molte opere dell’Antico Testamento hanno avuto un’esistenza orale, tramandate attraverso la fedelissima memoria degli Orientali, aiutata dalla stessa struttura delle lingue e del modo di narrare: pensiamo al cosiddetto “parallelismo” per cui un dato è ripetuto due o tre volte in modo diverso così da stamparsi bene nella memoria (Salmo 1: «Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti …»).

Nascono così le “tradizioni”, che sono simili a veri e propri fiumi di parole e di racconti orali fusi poi insieme nel testo scritto che possediamo. È per questo che in alcuni casi ci incontriamo con ripetizioni dovute alla fusione non sempre lineare delle tradizioni (vedi, per esempio, i due racconti iniziali della creazione in Genesi). Per le tradizioni presenti nella “Torah”, cioè nei primi cinque libri della Bibbia detti anche “Pentateuco” (dal greco “cinque astucci”, perché raccolti in altrettanti contenitori nelle antiche sinagoghe), gli studiosi hanno coniato nomi diversi così da riconoscerli:
  • la “Tradizione Jahvista” è la più antica (X sec. a.C.) ed è così chiamata perché Dio è presentato col nome specifico di Jahweh (di solito tradotto nella nostra Bibbia con “Signore”); 
  • la “Tradizione Elohista” (VIII sec. a.C.) usa il termine generico semitico Elohîm, “Dio”;
  • la “Tradizione Sacerdotale” è la più recente (VI sec. a.C.) ed è così definita perché sorta nell’ambito dei sacerdoti ritornati dall’esilio di Babilonia;
  • a sé stante c’è la “Tradizione Deuteronomica”, che ha un suo stile e che è presente nel libro del Deuteronomio (fine VII sec. a.C.).              

La prima parola è in quel «Sia la luce!» (Gn 1,3) che dà origine al cosmo. 2) C’è poi la parola che risuona in Abramo, padre di Israele e «nostro padre nella fede», come dirà S. Paolo. 3) C’è la parola che fa nascere Israele come popolo di Dio dal «crogiuolo di ferro» (Dt 4,20) della schiavitù egiziana, dalle piste infuocate del deserto, e soprattutto dal misterioso dialogo con Dio sulle vette del Sinai. 4) C’è la parola che si manifesta in Mosè, la grande guida della liberazione, il «profeta con cui il Signore parlava faccia a faccia» (Dt 34,10). 5) C’è la parola di Dio che apre l’orizzonte della terra di Palestina, la terra della promessa divina e della libertà, «terra dove non ti mancherà nulla, terra dove benedirai il Signore Dio tuo a causa della terra fertile che ti ha dato» ( Dt 8,9-10).

Ci sono poi i quadri affollati e tumultuosi della conquista sotto Giosuè, le scene vivaci e folcloristiche dei primi anni della vita libera in Palestina coi Giudici, con gli eroi tribali come Sansone. C’è il dramma del primo re Saul e lo splendore di Davide, radice della speranza nel Messia. C’è Salomone, emblema del perfetto re e del perfetto sapiente, ma c’è anche la lunga teoria di sofferenze e ingiustizie nascoste nella lista di eventi che caratterizzano l’infelice gestione del potere sotto i due regni divisi di Giuda (Gerusalemme) e di Israele (Samaria).

C’è però anche la voce della profezia che, nell’interno di questi eventi spesso sanguinosi, svela l’azione e le scelte di Dio che, come affermava il famoso vescovo francese Bossuet, «sa scrivere diritto anche sulle righe storte degli uomini». Ecco, allora, la parola di Dio in Amos, il profeta della giustizia, Ecco Osea, il profeta dell’amore, Isaia, il profeta dell’Emmanuele salvatore, il Messia, ecco Geremia, il profeta della rovina di Gerusalemme, ma anche della nuova alleanza con Dio non più su fredde tavole di pietra ma nell’interno del cuore dell’uomo.

C’è, però, la terribile parola di Dio risuonata in quel tragico 9 del mese di Av del 586 a.C., allorché le armate babilonesi di Nabucodonosor entrarono nella città santa e rasero al suolo il tempio di Dio e Sion, aprendo le porte all’amaro esilio di Israele «lungo i fiumi di Babilonia» (Salmo 137). In quell’ora oscura i profeti Geremia ed Ezechiele, accanto al giudizio, avevano svelato anche la parola della speranza e della risurrezione nazionale. Infatti nel 538 a.C., con l’editto di Ciro, all’orizzonte di Israele schiavo a Babilonia appare la possibilità di un secondo esodo verso il focolare nazionale di Palestina. Inizia, così, la ricostruzione del tempio e l’avvio di una nuova fase guidata da Esdra, l’uomo della Legge, una fase rigida che crea il severo Giudaismo del post-esilio, mentre la profezia apre orizzonti di luce e di salvezza universale (il cosiddetto Secondo Isaia, Giona, Zaccaria, Malachia).
 
Ma nella rivelazione di Dio c’è anche la “sapienza”: essa è un invito a cogliere il messaggio che Dio ci lancia attraverso i segreti dell’esistenza semplice e quotidiana, attraverso le professioni e la vita familiare, attraverso l’esperienza delle strade, della politica e della scienza (Proverbi e Siracide). C’è la sapienza drammatica che ci invita a cogliere la parola di Dio nascosta paradossalmente nel dolore innocente che tanto spesso sembra essere fonte di  “apostasia” (Il ripudio totale del proprio credo, spec. religioso.) più che di fede (Giobbe e Qoelet). C’è, però, anche la sapienza che diventa preghiera nei Salmi: essi portano a Dio il riso e le lacrime, la pace e l’amarezza della vita perché Dio vi si renda presente.

C’incontriamo, infine, con l’ultima epopea ebraica, quella dei fratelli Maccabei, espressione di un amore mai spento per la libertà e per il rispetto della dignità dell’uomo. E uno degli ultimi libri (cronologicamente parlando) dell’Antico Testamento, steso ormai alle soglie del Cristianesimo, il libro della Sapienza, fa balenare al fedele la grande speranza, quella della comunione piena e definitiva con Dio oltre le barriere della morte: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio … La loro speranza è piena di immortalità» (Sap 3,1-4).

Secondo la Bibbia, la parola di Dio viene seminata nel terreno concreto delle opere e dei giorni dell’uomo, nella storia e nello spazio, perché l’uomo sia trasformato e salvato dal suo male e dal suo limite. Isaia, usando un simbolo molto caro al panorama sempre assolato d’Oriente, quello della pioggia, scriveva: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Isaia 55,10-11). 







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