A questo punto la “Teoria della Conoscenza”
cade dentro il dominio della fisiologia e si collega direttamente all’ambito
fisico-cosmologico. Questo passaggio lo si può ricavare con estrema chiarezza
nell’ “Epistola ad Erodoto”, dove Epicuro
scrive: «Bisogna anche ritenere che noi vediamo la forma delle cose e
pensiamo per mezzo di qualcosa che dall’esterno giunge a noi. Non potrebbero
infatti le cose esterne imprimere il loro colore e la loro forma per mezzo
dell’aria frapposta fra noi e loro, né per mezzo di radiazioni o di afflussi
che si dipartono da noi verso di esse, così come lo possono per mezzo di
immagini che giungano a noi dagli oggetti esterni, conservandone colore e forma
e con grandezza proporzionata alla nostra vista o alla nostra mente, muoventisi
con grande velocità, e per questa causa adatte a dare la sensazione di un tutto
unico e continuo, capaci di conservare le qualità dell’oggetto da cui
provengono in seguito all’armonico impulso che loro proviene dal martellare in
profondità degli atomi del corpo solido. E quella percezione che noi
conosciamo, sia per un atto di attenzione della mente, sia dei sensi, sia della
forma, sia dei caratteri essenziali, è proprio la forma dell’oggetto solido,
risultante dall’ordinato, continuo presentarsi di un simulacro o di un’impronta
residua lasciata da esso».
Su questa
base la “Teoria della Conoscenza” è meno una psicologia e più una
fisica. D’altra parte, la fisica non può non essere una cosmologia. La “Fisica” di Epicuro si rifà, nella
sostanza, all’atomismo di Democrito, ma ne riformula interamente la dottrina.
Epicuro sostiene che i corpi
sensibili sono aggregati di atomi: se essi si distruggono e scompaiono, non
così accade agli elementi primi, vale a dire agli atomi stessi. Nascita e distruzione non sono,
allora, nulla di più che aggregazione e disaggregazione, e i diversi corpi non
sono altro che il risultato delle diverse modalità dell’aggregarsi medesimo.
L’universo nel suo complesso coincide con il moto eterno degli atomi e tale
moto dà luogo ad infinite permutazioni. L’esistenza dei corpi è un dato
dell’esperienza sensibile, ma poiché i corpi si muovono è necessario che vi sia
il “vuoto” come condizione del loro
movimento. L’esistenza del “vuoto” è
quindi direttamente implicata con l’esperienza del moto.
Tutto ciò che esiste si identifica dunque con gli atomi ed
il vuoto parimenti infiniti. Nell’ “Epistola
ad Erodoto” si legge: «E anche per la quantità dei corpi e per la grandezza
del “vuoto” il tutto è infinito. Se
infatti il “vuoto” fosse infinito e i
corpi finiti, questi non potrebbero rimanere in alcun luogo, ma vagherebbero
per l’infinito “vuoto”, sparsi qua e
là, non sostenuti né mossi da altri corpi nei rimbalzi; se poi fosse finito il “vuoto”, i corpi infiniti non avrebbero
dove stare». Gli atomi, infine, sono indivisibili poiché se fossero divisibili
all’infinito tutto si ridurrebbe a nulla e nessuna cosa sarebbe.
Questo concetto è espresso da
Epicuro nella medesima “Epistola ad
Erodoto”: «E poi dei corpi alcuni sono aggregati, altri componenti degli
aggregati. Questi sono indivisibili e immutabili dato che tutto non deve
distruggersi nel nulla, ma permanere essi saldi nella dissoluzione degli
aggregati, avendo natura compatta, né esistendo dove o come possono essere distrutti.
Per cui è necessario che i principi costitutivi dei corpi siano indivisibili».
Detto questo, Epicuro determina
il moto degli atomi e ne indica tre diverse modalità: 1) per caduta, 2) per
urto, 3) per declinazione. Il movimento degli atomi nel “vuoto” infinito è uniforme e, in senso stretto, né verso l’alto, né
verso il basso: infatti nell’infinito il basso e l’alto non si possono dire in
modo assoluto. Importante, poi, nella dottrina d’Epicuro, è il concetto di “deviazione” (parénklisis, clinamen). Solo in forza di tale deviazione avviene lo
scarto e quindi l’urto: da qui la possibilità di aggregazione che dà luogo al
mondo sensibile. In tal modo, in Epicuro si combinano la dottrina della «necessità»
con quella del «caso», il «meccanicismo» con l’«indeterminazione».
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