Nella tradizione popolare, aprile e maggio sono spesso riservati
alle celebrazioni nuziali. Entrando in una chiesa dove i due sposi stanno
compiendo il loro atto sacramentale è facile che la "seconda lettura" sia il capitolo
5, nei versetti 21-33, della Lettera di Paolo agli Efesini, presente nel
Lezionario liturgico del matrimonio.
Sullo
sfondo domina l’amore del Cristo per la sua Chiesa, punto di
riferimento capitale per la visione cristiana del matrimonio. L’insistenza è
evidente: «...nel modo che anche Cristo vi ha amato... nel timore di Cristo...
come al Signore... Cristo è capo della Chiesa... come la Chiesa è sottomessa a
Cristo... come Cristo ha amato la Chiesa... come fa Cristo con la Chiesa... lo
dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa...». Riprendendo la tradizione
profetica dell’Antico Testamento, Paolo vede nell’amore matrimoniale il segno
dell’amore divino per l’uomo e, nell’infinito e perfetto amore di Dio e del
Cristo, il modello verso cui deve tendere la coppia cristiana.
Su questo testo la tradizione
cattolica ha fondato la sua fede nella grandezza sacramentale del matrimonio.
Certo, Paolo è legato al suo tempo e alla cultura sia semitica sia greco-romana
che concepiva la famiglia in chiave patriarcale. Il tema della «sottomissione» della moglie al
marito riflette il diritto antico che considerava la donna un essere
subordinato rispetto al primato del coniuge. Tuttavia l’Apostolo apre nuovi
orizzonti, sorprendenti per il suo mondo e radice della trasformazione
cristiana. Inoltre Paolo sviluppa con un’ampiezza maggiore i doveri dei mariti
verso le mogli, rifiutando la concezione secondo cui l’uomo è solo depositario
di diritti nei confronti della donna.
E
l’impegno dello sposo è alto: «Amate le vostre mogli... i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il
proprio corpo». Un amore totale, spontaneo, simile a quello che si riversa sulla propria
personalità (il corpo nella Bibbia è simbolo dell’«io»), anche perché «i due formano una carne sola» (Genesi 2,24). C’è,
infine, un’ultima ragione che trasforma la tradizionale visione matrimoniale ed
è quella, già indicata, del continuo riferimento a Cristo. La donna si consacra
al suo uomo nello spirito della donazione di Cristo verso la Chiesa e l’uomo
ama sua moglie come il Cristo «che ha dato sé stesso» per la sua Chiesa.
Ecco allora la celebre conclusione: «Questo mistero è
grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa».
La parola «mistero», tradotta
dall’antica versione latina con "sacramentum",
aveva fatto concludere alla sacramentalità del matrimonio cristiano. In realtà
il termine «mistero» indica solo il grande piano salvifico di Dio nella storia: il matrimonio
ne è il grande simbolo, è la parabola luminosa dell’amore divino. Tuttavia
Paolo ci indica così il fondamento per scoprire il valore di salvezza racchiuso
nel matrimonio cristiano, essendo il riflesso più alto dell’amore e della
salvezza offerta da Dio all’umanità. In tal modo prelude alla qualità
“sacramentale” del matrimonio, affermata dalla tradizione dottrinale della
Chiesa.
La nostra riflessione giunge ora a una pagina decisiva del vangelo di Matteo (Mt.
19,3-6). Un gruppo di farisei attira Cristo nel tranello di una disputa
giuridica che vedeva pareri contrastanti. Il punto di partenza era
l’interpretazione di un passo del Deuteronomio che sanciva le clausole per il
divorzio: «Quando un uomo ha
preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non
trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualcosa di
vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la
mandi via dalla casa»
(24,1). La discussione verteva sull’applicazione e la portata delle due
clausole: «Essa non trova grazia agli
occhi del marito» ed «egli ha trovato
in lei qualcosa di vergognoso».
Si erano, così, formate due scuole,
quella di rabbi Shammai, che intendeva in senso rigoroso il testo e concedeva
il divorzio solo in caso di adulterio, e quella di rabbi Hillel, che concedeva
per qualsiasi causa il divorzio, anche per la noia di vedere sempre la stessa
faccia o per una minestra scotta. Ed è forse a questa seconda ipotesi che gli
avversari di Gesù alludono parlando di ripudio «per qualsiasi motivo».
Gesù rifiuta l’impostazione generale del discorso, evitando di farsi
coinvolgere nella rete delle diatribe giuridiche. Egli risale alla radice
dell’autentico matrimonio, iscritta nella stessa Creazione, e cita il celebre
passo della Genesi sull’unità profonda dell’uomo e della donna in «una carne sola» (2,24). Il progetto verso cui il
matrimonio deve tendere non è quello minimalista di un contratto, non è quello
che si misura prima di tutto sui limiti e sulle debolezze dell’uomo e della
donna. Il modello è, invece, quello totale disegnato da Dio nella stessa Creazione
in cui la donazione dei due è piena e reciproca.
La visione cristiana del matrimonio è, quindi, radicale come lo è tutta la proposta etica e religiosa
del Cristo. La donazione dev’essere senza riserve; le incrinature devono essere
costantemente ricucite, fondandosi sulla forza del sacramento che fa sì che, «ove due sono riuniti nel nome» di Cristo, egli è là
«in mezzo a loro» (Matteo 18,20). La
dualità sessuale, che è anche espressione della diversità delle personalità,
delle esperienze, dei valori e delle culture, si deve fondere nell’unità
dell’amore che nasce da Dio stesso. Accostarsi al matrimonio cristiano è quindi
una scelta non di cerimonia, di stile, di sentimento. È una decisione
impegnativa, da assumere dopo una rigorosa e intensa preparazione, attraverso
una verifica seria e con una promessa di fedeltà esigente.
Tuttavia, c’è anche la fragilità della
creatura umana che non di rado non riesce a mantenersi fedele a quell’impegno
nuziale. È su questo aspetto, tra i tanti, che si confronterà il Sinodo dei
vescovi prossimamente, cercando di tenere in equilibrio la verità e la
misericordia, la meta e il percorso spesso accidentato che a essa conduce.
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