"Io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di “pornéia”, e ne sposa un’altra, commette
adulterio" (Matteo 19,9).
Eccoci di fronte a un
passo che ha suscitato una valanga di interpretazioni e commenti e che ha
creato una divaricazione persino all’interno delle stesse Chiese cristiane.
Facciamo subito due premesse.
La
prima è estrinseca. Il testo ricorre anche in una delle sei “antitesi”
che Matteo colloca nel “Discorso della Montagna”. In esse si illustra non tanto il superamento, ma la
pienezza che Cristo vuole far emergere dal dettato biblico. Sul
ripudio matrimoniale egli affermava, citando il versetto del Deuteronomio
(24,1) sul divorzio: «Fu detto: “Chi
ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio”. Ma io vi dico: «chiunque
ripudia la propria moglie – eccetto il caso di “pornéia” – la espone all’adulterio, e chiunque sposa una
ripudiata, commette adulterio» (5,32).
La seconda premessa riguarda il contesto del nostro passo
(19,1-9). In esso Gesù, provocato dai suoi interlocutori che lo volevano
mettere in contraddizione con la norma sulla liceità del divorzio «per una
qualsiasi mancanza», come si affermava nel Deuteronomio, risale alla Genesi che
dichiara l’uomo e la donna destinati a diventare «una sola carne» (2,24).
Questo è il progetto divino sulla coppia al quale Cristo si allinea, per cui «l’uomo non deve dividere ciò che Dio ha
congiunto» (Matteo19,6). Quella del Deuteronomio è, dunque,
un’eccezione concessa «per la durezza del
vostro cuore» (19,8). Gesù, quindi, propone nella sua visione del
matrimonio il modello dell’indissolubilità.
Ma a questo punto come spiegare l’inciso – da noi lasciato
con il termine greco “pornéia” – che presenta un’eccezione? È
probabile che qui si sia di fronte a un elemento redazionale introdotto da Matteo per giustificare una prassi
in vigore nella comunità giudeo-cristiana delle origini. Sarebbe,
quindi, una sorta di norma ecclesiale locale che veniva incontro alla domanda
rabbinica sull’interpretazione della clausola del Deuteronomio concernente il
caso del divorzio «per una qualsiasi mancanza». Nell’ebraismo si confrontavano
due scuole teologiche, l’una più “liberale”, incline a concedere un largo raggio
di casi di divorzio (rabbí Hillel), un’altra più restrittiva e orientata ad
ammettere solo l’adulterio come giustificazione per il divorzio.
Quale sarebbe, allora,
l’eccezione riconosciuta dalla Chiesa giudeo-cristiana ed espressa con il
vocabolo greco “pornéia”? Non può essere, come si traduceva in passato, il
“concubinato” non essendo esso un matrimonio in senso autentico, né una
generica “fornicazione”, cioè l’adulterio, perché in questo caso si sarebbe
usato il termine proprio moichéia. Tra l’altro, è interessante
notare che alcune opere dei primi tempi cristiani – come Il pastore di Erma
(IV,1,4-8) – e autori come Clemente di Alessandria (Stromata 2,23)
dichiarano che il marito che lascia la sposa adultera non può risposarsi perché
permane il precedente legame matrimoniale.
Nel
giudaismo del tempo esisteva un termine, zenût, equivalente alla “pornéia” matteana (“prostituzione”) che indicava
tecnicamente le unioni illegittime come quella tra un uomo e la sua matrigna,
condannata già dal libro biblico del Levitico (18,8;20,11) e dallo stesso san
Paolo (1Corinzi 5,1). In pratica, anche se non era in uso allora
questa fattispecie giuridica, si
tratterebbe di una dichiarazione di nullità del matrimonio contratto, linea
seguita dalla Chiesa cattolica sui casi di nullità del vincolo matrimoniale
precedente. Sappiamo, però, che le Chiese ortodosse e protestanti
hanno interpretato l’eccezione della “pornéia” come adulterio
e, perciò, hanno ammesso il divorzio, sia pure limitandolo a questo caso. In
realtà, la visione di Cristo sul matrimonio era netta e radicale, nello spirito
di una cosciente, piena e indissolubile donazione reciproca. Se leggiamo il
paragrafo integrale (19,1-9) che narra una discussione di Gesù con i farisei,
si nota subito l’affermazione del principio dell’indissolubilità matrimoniale,
basata sull’asserzione biblica dei «due
che sono una carne sola» (Genesi 2,24).
Gesù, però, è anche consapevole
che il libro del Deuteronomio avallava il divorzio in caso di «qualcosa di vergognoso»
(24,1-4). L’indeterminatezza di questo comma aveva generato due scuole di
interpretazione. La prima di "rabbí Hillel" era permissiva: qualsiasi ragione,
anche un cibo scotto o l’aver trovato una donna più bella, ammetteva il
divorzio. Rabbí Shammai, invece, vedeva in quel «qualcosa di vergognoso» solo
cause gravi come l’incesto, lo stupro, l’adulterio. In una società maschilista
era solo il marito l’attore giuridico, anche se poi nel giudaismo si cominciò a
esigere per il divorzio pure il consenso della moglie.
Gesù ritiene questa norma mosaica solo una concessione
causata dalla «durezza di cuore», cioè dalla coscienza umana malata che si
doveva curare pazientemente, ma non era una regola strutturale del matrimonio.
Anche alcune correnti giudaiche minoritarie si muovevano in questa linea. Ma,
allora, cosa significa l’eccezione che abbiamo lasciato con la parola greca, “pornéia”?
Tutto dipende dal significato assegnato a questo vocabolo. Per alcuni qui
indica l’adulterio, anche se proprio nella stessa frase per designarlo si usa
un verbo specifico, moicheyô, e quindi l’interpretazione – adottata nella
prassi delle Chiese ortodosse e protestanti – non sembra pertinente.
Altri ricorrono all’equivalente
ebraico zenût che, in alcuni testi giudaici, rimanda alle unioni illegittime
tra consanguinei, condannate dal capitolo 18 del Levitico. Queste unioni erano
legali nel mondo pagano: la Chiesa di Matteo riteneva perciò che i pagani
convertiti al cristianesimo potessero rompere questi matrimoni. Di per sé, però,
non si dovrebbe parlare di divorzio in senso stretto trattandosi di «unioni
illegittime» (questa è l’interpretazione e la traduzione della Bibbia della
Cei).
Altri, poi, pensano che
Matteo proponga solo la separazione nei casi gravi di “pornéia” del coniuge,
cioè della sua “immoralità sessuale” (e quindi anche l’adulterio). In sintesi:
Gesù afferma nettamente il principio dell’indissolubilità matrimoniale; la
Chiesa di Matteo applica questo principio incarnandolo nelle coordinate
concrete della vita pastorale.
Non sappiamo, però, con
certezza le caratteristiche di questa attuazione espressa nell’“eccezione” di
Matteo: matrimoni illegittimi per l’ebraismo ma legali per i pagani da
sciogliere, oppure matrimoni resi insopportabili per grave immoralità del coniuge,
o semplice separazione? Quale dev’essere l’equilibrio tra il rigore dei
principi e la misericordia pastorale? È ciò a cui si deve impegnare a
rispondere la Chiesa nel contesto della sua esperienza nella storia.
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