I vizi capitali sono un
elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali,
dell'anima umana, spesso
e impropriamente chiamati «peccati capitali». Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto,
ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero
l'anima umana, contrapponendosi alle virtù,
che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché
più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana.
Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi
sarebbero già causa del peccato,
che ne è invece il suo relativo effetto.
Nella dottrina morale cattolica, i vizi capitali sono le principali
abitudini non ordinate verso il Bene Sommo, cioè Dio, dai quali tutti i
peccati traggono origine.
- Superbia
- Avarizia
- Lussuria
- Invidia
- Gola
- Ira
- Accidia
La Superbia è
una radicata convinzione della propria “superiorità”, reale o presunta, che si
traduce in atteggiamento di altezzoso distacco o anche di ostentato disprezzo
verso gli altri, e di disprezzo di norme, leggi, rispetto altrui. Secondo
la chiesa il peggiore dei sette vizi è la «Superbia», poiché con questo sentimento si tenderebbe a
mettersi sullo stesso livello di Dio, considerarlo quindi “inferiore” a come
dovrebbe essere considerato. Infatti, nella dottrina cristiana, è proprio la «Superbia» il peccato di cui si sono
macchiati Lucifero, Adamo ed Eva.
Questi “sette” vizi, sono raffigurati
anche nella "Divina Commedia"
di Dante
Alighieri sotto
forma di bestie selvatiche (lupa; leone; lonza) incontrati da Dante nella selva
oscura, all'inizio della sua avventura. La
«Superbia», concludendo, è “Amor di sé” spinto fino all’eccesso di
considerarsi principio e fine del proprio essere, e per ciò stesso al colpevole
disconoscimento della propria condizione di Creatura. La «Superbia» è la sopravvalutazione della propria persona e delle
proprie capacità, correlata ad un atteggiamento di “superiorità” verso gli
altri considerati “inferiori”. Nella religione cattolica è considerato il
peggiore tra i “sette” vizi capitali,
contrapposti alle “tre” virtù
teologali (Fede, Speranza e Carità) e alle “quattro”
virtù cardinali (Giustizia, Fortezza, Temperanza, Prudenza). Il superbo tende a
comportarsi in maniera scorretta perché ritiene di essere migliore degli altri.
L’Avarizia
è una scarsa disponibilità a spendere e a
donare ciò che si possiede, taccagneria, avidità; per «Avarizia» si intende la riluttanza ad offrire se stesso ma
sopratutto le proprie cose, ciò che si possiede. Talvolta si confonde con
l’Avidità che invece indica il desiderio di accrescere i propri beni. L’ avaro
è concentrato nella conservazione meticolosa di ciò che già ha. L’«Avarizia» è elencata tra i “sette” vizi capitali secondo la Chiesa
cattolica. I Buddhisti credono che l’«Avarizia»
sia basata su una scorretta associazione tra benessere materiale e felicità.
Essa è provocata da una visione illusoria che esagera gli aspetti positivi di
un oggetto.
La Lussuria
è una incontrollata sensualità, irrefrenabile desiderio del piacere sessuale
fine a sé stesso, concupiscenza, carnalità; La «Lussuria» è l’abbandono al
piacere sessuale. Oggigiorno il termine «Lussuria» è in disuso in ragione del fatto che si ritengono
normalmente accettabili i comportamenti sessuali che coinvolgono adulti
consenzienti. Per i cattolici é uno dei “sette” vizi o peccati capitali, il “vizio impuro”, al di fuori
della norma morale. Secondo le elaborazioni dottrinali della teologia morale del
Cattolicesimo , la «Lussuria» è causa
di svariati effetti negativi, alcuni dei quali aventi una preminenza in ambito
religioso, ed altri intervenendo più specificatamente sul libero arbitrio in
quanto provoca grave turbamento della ragione e della volontà, accecamento
della mente, incostanza ed incoerenza, egoismo ed incapacità di controllare le
proprie passioni. Nella dottrina cattolica
classica, la «Lussuria» è frutto della
concupiscenza della carne ed infrange sia il “Sesto Comandamento” che vieta di commettere atti impuri sia il
“Nono” che riguarda il desiderare la
donna d’altri. Fra questi atti impuri la
Chiesa indica tanto le azioni concrete materialmente compiute in materia di
sessualità non finalizzata alla procreazione e all’unione in seno al
matrimonio, quanto il solo desiderio e l’immaginazione (“chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio
con lei nel suo cuore.”, Vangelo di Matteo 5,28). Tuttavia è interessante notare come nel
Deuteronomio e nel libro dell’Esodo della Bibbia il “sesto comandamento” sia in
realtà “Non commettere adulterio”;
questo rivela un’intenzione originale di focalizzarsi più sulla fedeltà
coniugale, che su un più generale controllo delle proprie passioni sessuali.
L’Invidia
è Tristezza
per il bene altrui, percepito come male proprio. Stato d'animo o sentimento
spiacevole che nasce dal volere per sé un bene o una qualità altrui. L'«invidia» è spesso accompagnata da avversione
e rancore verso chi possiede tale bene o qualità, che porta l'invidioso ad
augurare il male all'altro, di modo che il dolore e la tristezza possano così
oscurarne le qualità o diminuire la felicità che ne consegue. L'invidioso
prova risentimento e astio per la felicità, la prosperità e il benessere
altrui, sia che egli si consideri escluso ingiustamente da questi beni, sia che
già possedendoli, ne pretenda l'esclusivo godimento. Per questo, l'«invidia» è la pretesa di esclusività
delle doti o qualità, pretesa di esclusività che nasce dall'incapacità di
rinunciare al proprio orgoglio, il quale è continuamente scelto sopra ogni
cosa, portando all'«invidia» di
tutti, che è vera e propria infelicità. Nel Cristianesimo, l'«invidia» è un vizio capitale perché,
come la superbia, porta all'eccessivo
amore di sé a scapito dell'amore fraterno e dell'amore per Dio, creando così
una grande possibilità per l'azione del male.
La Gola è meglio conosciuta come ingordigia,
abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo; Il vizio della «Gola», che in questi anni viene poco
valutato, anche questo ha la sua gravità, perché lo scopo dell'esercizio di
questo vizio è quello di rendere le persone incapaci a seguire e a raggiungere
uno scopo. Il vizio della «Gola»
introduce la persona a essere schiava; schiava di sé stessa, e in particolare
non schiava dell'intelligenza, non schiava della volontà, non schiava delle
emozioni, ma schiava delle sensazioni. Quindi il vizio della «Gola» ha lo scopo di introdurre la
persona a diventare schiava delle sensazioni: sensazioni piacevoli da seguire
sempre, sensazioni spiacevoli da sfuggire sempre. Allora il cibo è da sempre
una sensazione piacevole. Il vizio della «Gola»
non vuol dire che tu ti devi cibare di tutte le cose più orrende e più
disgustose. Il vizio della «Gola» ti
dice che tu devi appagare tutto quello che desideri.
L’Ira è il
desiderio di vendicare violentemente
un torto subito; con il termine «Ira» (o
impropriamente rabbia) si indica uno stato psicologico alterato, in genere
suscitato da un elemento di provocazione, capace di rimuovere alcuni dei freni
inibitori che normalmente stemperano le scelte del soggetto coinvolto.
L’iracondo è caratterizzato da una profonda avversione verso qualcosa o
qualcuno. L’«Ira», specialmente
intesa come sentimento di vendetta, è uno dei sette vizi capitali, da cui
bisogna astenersi sempre e in ogni caso. Ciò malgrado, la Bibbia contiene
numerosi riferimenti all’Ira di Dio.
L’Accidia è torpore malinconico, inerzia nel
vivere e nel compiere opere di bene, pigrizia, indolenza, infingardaggine,
svogliatezza, abulia. L’«Accidia» è Indolenza,
Riluttanza verso ogni tipo d’operosità mista a noia e indifferenza. Nell’antica
Grecia il termine indicava la mancanza di dolore, l’indifferenza e quindi la
tristezza e la malinconia. Il termine fu ripreso in età medievale, quale
concetto teologico indicante il torpore malinconico che prendeva coloro che
erano dediti a vita contemplativa. Il significato del termine è oggi vago, ma
resta fortemente connotato, nelle culture cristiane, di implicazioni
moralistiche e negative. Nel cattolicesimo l’«Accidia» è uno dei sette peccati capitali ed è costituito dall’indolenza
nell’operare il bene.
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