sabato 13 giugno 2015

LA RISURREZIONE DELLA CARNE, LA VITA ETERNA


Il Fedele, recitando il “Credo Apostolico”: «Credo nella Risurrezione della carne, la Vita Eterna. Amen». La Chiesa ha avuto molte occasioni per proclamare la sua Fede nella «Risurrezione» di tutti i morti alla fine dei tempi. Si tratta in qualche modo della “estensione” della «Risurrezione» di Cristo, «il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8, 29) a tutti gli uomini, vivi e morti, giusti e peccatori, che avrà luogo quando Egli verrà alla fine dei tempi. 

Con la morte l’anima si separa dal corpo; con la «Risurrezione» corpo e anima si ricongiungono, e per sempre. Il dogma della «Risurrezione» dei morti, mentre parla della pienezza della «immortalità» alla quale è destinato l’uomo, ci ricorda la sua grande dignità, anche del suo corpo. Ci parla della bontà del mondo, del corpo, del valore della storia vissuta giorno dopo giorno, della vocazione eterna della materia. Per questo, contro gli gnostici del II secolo, si è parlato della «Risurrezione» della carne, vale a dire della vita dell’uomo nel suo aspetto più materiale, temporale, mutevole e apparentemente caduco. 

San Tommaso d’Aquino pensa che la dottrina sulla «Risurrezione» è naturale in ciò che riguarda la causa finale (perché l’anima è fatta per stare unita al corpo, e viceversa), però è soprannaturale in ciò che riguarda la causa efficiente (che è Dio). Il corpo risuscitato sarà reale e materiale; però non terreno, mortale. 

San Paolo si oppone all’idea di una «Risurrezione» come trasformazione che avviene all’interno della storia umana, e parla del corpo risuscitato come “glorioso” (cfr. Fil 3,21) e “spirituale” (cfr. 1 Cor 15, 44). La «Risurrezione» dell’uomo, come quella di Cristo, avverrà, per tutti, dopo essere morti. 

La Chiesa non promette agli uomini, in nome della «Fede» cristiana, una vita di successo su questa terra; non ci sarà un mondo “utopico, perché la nostra vita terrena sarà sempre segnata dalla Croce. Allo stesso tempo, avendo ricevuto il Battesimo e l’Eucaristia, il processo della «Risurrezione» è già cominciato in qualche modo. 

Secondo San Tommaso, nella «Risurrezione» l’anima informerà il corpo così profondamente che in esso saranno riflesse le sue qualità morali e spirituali. In questo senso la «Risurrezione» finale, che avrà luogo con la venuta di Gesù Cristo nella “gloria”, renderà possibile il giudizio definitivo dei vivi e dei morti. Riguardo alla dottrina della «Risurrezione», si possono aggiungere quattro riflessioni:
Primo, la dottrina della «Risurrezione» finale esclude le teorie della “reincarnazione, secondo le quali l’anima umana, dopo la morte, emigra verso un altro corpo, ripetute volte se occorre, fino a rimanere definitivamente purificata. A tal riguardo il Concilio Vaticano II ha parlato de «l’unico corso della nostra vita», perché «è stabilito che gli uomini muoiano una sola volta» (Eb 9, 27); secondouna manifestazione chiara della «Fede» della Chiesa nella «Risurrezione» dei corpi è la venerazione delle reliquie dei Santi; terzoanche se la «cremazione» delle salme non è illecita, a meno che non sia fatta per motivi contrari alla fede, la Chiesa consiglia vivamente di conservare la pietosa consuetudine di seppellire i morti. Infatti, «i corpi dei defunti devono essere trattati con rispetto e carità nella “Fede” e nella “Speranza” della «Risurrezione». La sepoltura dei morti è un’opera di misericordia corporale; rende onore ai figli di Dio, tempi dello Spirito Santo»; la «Risurrezione» dei morti concorda con quello che la Sacra Scrittura chiama la venuta dei «nuovi cieli e una terra nuova» (Ap 21, 1). Infine, non solo l’uomo raggiungerà la “gloria”, ma l’intero universo, in cui l’uomo vive e agisce, sarà trasformato. «La Chiesa, alla quale tutti siamo chiamati in Cristo Gesù e nella quale per mezzo della grazia di Dio acquistiamo la santità – leggiamo nella Lumen Gentium (n. 48) –, non avrà il suo compimento se non nella “gloria” del cielo, “quando verrà il tempo della restaurazione di tutte le cose” (At 3, 21), e quando col genere umano anche tutto il mondo, il quale è intimamente unito con l’uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine, sarà perfettamente ricapitolato in Cristo». Certamente ci sarà una certa continuità tra questo mondo e il mondo nuovo, ma anche una grande discontinuità. L’attesa della definitiva instaurazione del Regno di Cristo non deve indebolire, bensì ravvivare per la virtù teologale della “Speranza”, l’impegno per promuovere il progresso di questo mondo. 

L’enigma della morte dell’uomo si comprende soltanto alla luce della «Risurrezione» di Cristo. Infatti la morte, la perdita della vita umana, si presenta come il male più grande nell’ordine naturale, proprio perché è qualcosa di definitivo, che sarà superato in modo completo solo quando Dio risusciterà gli uomini in Cristo. Per un certo verso, la morte è naturale nel senso che l’anima si può separare dal corpo. Da questo punto di vista la morte segna il termine del pellegrinaggio terreno. Dopo la morte l’uomo non può più meritare o demeritare. «Con la morte, la scelta di vita fatta dall’uomo diventa definitiva». Non avrà più la possibilità di pentirsi. Subito dopo la morte andrà in paradiso, all’inferno o in purgatorio. Per questo, c’è ciò che la Chiesa chiama il “giudizio particolare. Il fatto che la morte segna il termine del suo periodo di prova serve all’uomo per indirizzare la propria vita, per utilizzare bene il tempo e gli altri talenti, per comportarsi con rettitudine, per spendersi nel servizio agli altri. La Scrittura insegna che «la morte è entrata nel mondo a causa del peccato originale» (cfr. Gn 3, 17-19; Sap 1,13-14; 2,23-24; Rm 5,12; 6,23; Gc 1,15;). 

Ad opera di un uomo, dice Paolo, entrò nel mondo il «Peccato», e ad opera del «Peccato» la «Morte». Ma ecco il centro di quanto va soprattutto pensato: che non è che la «Morte» sia entrata nel mondo ad opera del «Peccato», ma, all'opposto, che il «Peccato» è entrato nel mondo ad opera della «Morte»; e cioè che il vero «Peccato» è la «Morte» (Vedi post Ago. 2014 Il vero peccato, la Morte) . Pertanto dev’essere considerata come un castigo: l’uomo che voleva vivere facendo a meno di Dio, deve accettare il dolore della rottura con la società e con se stesso come frutto del suo allontanamento. 

Tuttavia Cristo «assunse la morte in un atto di totale e libera sottomissione alla Volontà del Padre suo». Con la sua obbedienza vinse la morte e ottenne la «Risurrezione» per l’umanità. Per chi vive in Cristo grazie al battesimo, la «Morte» continua ad essere dolorosa e ripugnante, però non è più una conseguenza del «Peccato», ma una preziosa possibilità di essere corredentori con Cristo, mediante la mortificazione e la donazione agli altri. «Se moriamo con Lui, vivremo anche con Lui» (2 Tm 2, 11). Per questa ragione, «grazie a Cristo, la morte cristiana ha un significato positivo». 

Nel creare e redimere l’uomo, Dio lo ha destinato all’«eterna» comunione con Lui, a quella che San Giovanni chiama la “Vita Eterna” o a quello che si suole chiamare “il Paradiso”. Così Gesù comunica ai suoi la promessa del Padre: «Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, prendi parte alla gioia del tuo padrone» (Mt 25, 21). La “Vita Eterna” non è «un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia». 

La “Vita Eterna è ciò che dà un «senso» alla vita umana, all’impegno etico, alla donazione generosa, al servizio abnegato, allo sforzo per comunicare la dottrina e l’amore di Cristo a tutte le anime. La "Speranza" cristiana nel cielo non è individualistica, ma si riferisce a tutti. In base a questa promessa il cristiano può essere fermamente convinto che “vale la pena” vivere pienamente la vita cristiana. «Il cielo è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva»; così ne parla Sant’Agostino nelle Confessioni: «Tu ci hai fatti per te e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te». La “Vita Eterna”, in definitiva, è l’oggetto principale della "Speranza" cristiana. «Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio e che sono perfettamente purificati, vivono per sempre con Cristo. Sono per sempre simili a Dio, perché lo vedono “così come Egli è” (1 Gv 3, 2), “faccia a faccia” (1 Cor 13, 12)». 

La teologia ha denominato questo stato “visione beatifica”. «A motivo della sua trascendenza, Dio non può essere visto quale è se non quando Egli stesso apre il suo Mistero alla contemplazione immediata dell’uomo e gliene dona la capacità». Il paradiso è la massima espressione della grazia divina. D’altra parte il paradiso non consiste in una pura, astratta e immobile contemplazione della Trinità. In Dio l’uomo potrà contemplare tutte le cose che in qualche modo si riferiscono alla sua vita, godendo di esse, e in particolare potrà amare quelli che ha amato nel mondo con un amore puro e perpetuo. «Non dimenticatelo mai: dopo la morte vi accoglierà l’Amore. E nell’amore di Dio ritroverete tutti gli amori limpidi che avete avuto sulla terra». 

Il godimento del paradiso raggiunge il culmine pieno con la «Risurrezione» dei morti. Secondo sant’Agostino, la “Vita Eterna” consiste in un riposo eterno e in una deliziosa e suprema attività. Che il paradiso duri eternamente non vuol dire che là l’uomo non è più libero. Nel cielo l’uomo non pecca, non può peccare, perché, vedendo Dio faccia a faccia, vedendolo fra l’altro come sorgente viva di tutta la bontà creata, in realtà non vuole peccare. Liberamente e filialmente, l’uomo salvato resterà in comunione con Dio per sempre. Con ciò, la sua libertà ha raggiunto la sua piena realizzazione. 

La “Vita Eterna è il frutto definitivo della donazione divina all’uomo. Per questo ha qualcosa di infinito. Tuttavia la «grazia» divina non elimina la natura umana, né nel suo essere né nelle sue facoltà, né la sua personalità, né quello che ha meritato durante la vita. Per questo c’è distinzione e diversità fra quelli che godono della visione di Dio, non in quanto all’oggetto, che è Dio stesso, contemplato senza intermediari, ma in quanto alla qualità del soggetto: «chi ha più carità partecipa di più della luce della gloria, e più perfettamente vedrà Dio e sarà felice».



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